martedì 30 ottobre 2018

Memorie di scuola - Parte seconda -7


La prima fase del corso, dopo un mese e mezzo circa, si chiuse con il giuramento. Ci fu una grande parata. Gli ufficiali indossarono la fascia azzurra e la sciabola cerimoniale. Noi allievi indossavamo la divisa grigioverde e gli anfibi d'ordinanza ai piedi. Capeggiati dai nostri comandanti di Plotone in alta uniforme, fummo presentati prima ai comandanti di Compagnia e, da questi, poi, ai comandanti di Battaglione. La coreografia venne studiata a lungo nelle settimane precedenti. Al momento del giuramento, quando tutti gli allievi, rispondendo in coro al sollecito del colonnello,  che ci invitava a voce alta a giurare di essere fedeli alla nostra bandiera, gridammo " Lo giuro!", un fremito attraversò i nostri cuori, e il piazzale risuonò sotto le suole dei nostri anfibi (anche se alcuni dei commilitoni confessarono di aver gridato "L'ho duro!").
A quel tempo le mie convinzioni in fatto di esercito e di forze armate, oscillavano tra un recondito orgoglio per il glorioso passato dei nostri antenati (dai legionari della possente fanteria imperiale romana all'ardita compagine della Brigata Sassari) e un più convinto ma ingenuo pacifismo di stampo gandiano, rafforzato dai testi illuminati di un cantautore anarchico chiamato Faber (la mia mente torna in particolare agli impareggiabili versi della sua "Guerra di Piero" o alle poesie del premio Nobel Robert Zimmerman, più noto col nome d'arte di Bob Dylan (chi non ricorda il testo di quella grande sua poesia che chiede, tra le altre cose "Quante palle di cannone dovranno ancora sibilare, prima che l'uomo impari a vivere in pace?).
A ripensarci oggi mi pare invece che, molto più opportunisticamente, io fossi contento di non essere un fuciliere assaltatore dell'infelice primo plotone della Compagnia, destinato alla prima linea di fuoco, ma un mortaista da 81mm, destinato alle retrovie, in funzione della traiettoria obliqua che i mortai avrebbero sparato, superando le prime linee sino a colpire, auspicabilmente, il fronte avverso.
Anche se la raggiunta maturità mi ha fatto capire con disincantata lucidità che la guerra è una cosa terribile: uccidere per non essere ucciso.

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Leggi il  testo integrale di Memorie di scuola di Ignazio Salvatore Basile,  acquistando on line(c/o Mondadori store, Feltrinelli, IBS, Libreria Universitaria, Amazon ecc.) oppure in libreria il volume edito da Youcanprint ISBN 9788827845486


mercoledì 24 ottobre 2018

Memoria di scuola - Parte Prima



Memorie di scuola
Ricordi di uno scolaro senza tempo dalle elementari alla cattedra, passando per le scuole medie, l’università e per le  molte altre scuole della vita
di ignazio salvatore basile
Parte Prima
Premessa
Alzi la mano chi non ricorda con gioia un suo ultimo giorno di scuola!!! Magari soltanto uno particolare, alle elementari, alle scuole medie inferiori oppure alle superiori, che si chiudevano con il famigerato, temuto esame di maturità (oggi si chiama esame di stato, ma sempre quello è)!
Come studente io ne ricordo diversi. Tutti sono ammantati da un velo di malinconia. In fondo a scuola ci stavo bene. I maestri (ma un anno ho avuto anche una maestra, in quarta elementare, si chiamava maestra Soro) mi volevano bene.
 In seconda media  ho cambiato tre  scuole; il mio anno si concluse in una scuola siciliana; il mio compagno di banco, un ragazzone di nome Armando figlio di emigrati  rientrati dall’Argentina, si sorprese nel vedere nei tabelloni, non tanto il suo nome tra i bocciati, quanto piuttosto il mio tra i promossi.
Ci avevano sistemato all’ultimo banco: io dalla Sardegna, lui dall’Argentina; in qualche modo eravamo entrambi di ritorno: io, figlio di un siciliano nostalgico, lui figlio di siciliani forse stanchi di parlare castigliano in quelle sterminate pampas sudamericane. A quel tempo recuperi e svantaggi non erano presi in considerazione. Chi seguiva bene, chi non seguiva veniva bocciato. Ma io ero troppo orgoglioso per farmi bocciare. Avevo le mie mosse segrete, i miei guizzi, le mie intuizioni, il mio spirito di sopravvivenza che mi guidava,  a scuola,  come fuori; per i miei compagni siciliani ero “u sardignolu” anche se portavo un cognome siciliano; e il mio accento ed il mio orgoglio erano palesemente sardi, pur se il mio DNA era avvolto anche in spire normanne, o forse arabe, o chissà, persino spagnole o napoletane. Non credo faccia molta differenza sul piano biologico.
Mi rendo conto di aver divagato, sulle ali della memoria; forse sto invecchiando.
Quest’anno sto per restituire il mio trentunesimo registro del professore (più o meno; il conto preciso degli anni di insegnamento preferisco farlo in prossimità della pensione; traguardo che la riforma Fornero, sembra avere spostato irrimediabilmente in avanti; staremo a vedere). Certamente rilevo una fondamentale differenza tra l’ultimo giorno di scuola da studente e quello da insegnante.

Nel primo caso, come dicevo, prevaleva la malinconia, lo smarrimento, la prospettiva dei giorni estivi, lunghi e solitari (ma perché da adolescenti non si capisce il grande valore del tempo? Naturalmente sto parlando solo per me); l’ultimo giorno di scuola da insegnante, insieme ad un senso di liberazione della fatica dell’orario di cattedra, fatto di spiegazioni ed interrogazioni che si susseguono in un turbine di eventi, ha anche il sapore degli scrutini e degli esami di maturità. E l’estate, adesso, dura troppo poco.


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lunedì 22 ottobre 2018

Memorie di scuola - Parte Seconda


Alla Scuola di Fanteria di Cesano di Roma la sveglia, per gli allievi sottufficiali di complemento,  suonava alle 6,30.
Quel suono era devastante, ti coglieva in pieno sonno, quello che hai solo a vent'anni, quello che non torna più. Sapevi di doverti alzare, altrimenti sarebbero fioccate le punizioni.
Il caporale di giornata, infatti, dopo dieci minuti, stava già girando per le brande, a controllare che i cubi fossero perfettamente composti. E sarebbero rimasti tali sino all'ora della ritirata.
Il cubo era  un'opera di composizione della branda militale che consisteva nel piegare in due il materasso, con la parte inferiore combaciante  perfettamente con la parte superiore; le lenzuola e il cuscino dovevano sparire all'interno del materasso e la coperta avrebbe completato l'opera, abbracciando il materasso nel senso della sua larghezza sino a formare, per l'appunto, una figura solida che, se anche non si poteva dire un cubo geometricamente perfetto,  doveva,  non di meno, avere una dimensione solidamente compatta, senza sbavature o imperfezioni che avrebbero comportato, anch'esse, una punizione.
Subito dopo il cubo, occorreva vestirsi,  lavarsi e sbarbarsi in tutta fretta, perché alle 7,00 c'era la colazione e conveniva affrettarsi se, dopo la colazione, si volevano espletare in un tempo ragionevole, le funzioni fisiologiche fondamentali, oltre all'immancabile igiene dei denti.
L'alzabandiera infatti era fissata per le otto.  Alle otto precise occorreva presentarsi nel piazzale, vestito a puntino e sbarbato a dovere, con le scarpe lucide e la divisa in ordine.
La cerimonia dell'alzabandiera era una cosa seria. L'ordine era di stare allineati e coperti, con il divieto assoluto di qualsiasi movimento. Lo dico con cognizione di causa perché l'unica volta che mi capitò di essere punito con tre giorni di consegna fu a causa di un movimento quasi impercettibile della testa. Avevo una maledetta vespa che mi ronzava davanti agli occhi e feci un movimento brusco col capo per tentare di scacciarla. La cosa non sfuggì al severo capitano Milone, il comandante della mia Compagnia,  che mi punì con tre giorni di consegna (ma se avessi fatto la cavolata di muovere una delle mani che afferravano il fucile, nel gesto del presentatarm, che era il  saluto alla Bandiera, fosse anche stato soltanto per scacciare la vespa, sarei stato punito con la cella di rigore).
Il primo mese era  dedicato all'addestramento fisico.
Dopo l'alzabandiera, cui partecipava tutto il battaglione (ovvero le cinque compagnie della scuola) venivamo divisi in plotoni. Io venni assegnato al 4° Plotone, come mortaista. A fine corso sarei diventato comandante della squadra mortaisti da 81 (arma, sempre a gittata obliqua, ma più piccola emaneggevole dei mortai da 120).
Occorreva imparare a marciare (sempre allineati e coperti), segnando il passo all'ordine impartito. Inoltre occorreva apprendere i movimenti del plotone per tutto lo sterminato piazzale: fare dietro-front, attenti a sinistra, attenti a destra e così via.
Poi c'era il lavoro sul singolo. Lì ti obbligavano a  tirar fuori  tutta la tua grinta, altrimenti non ti mollavano. Quando veniva chiamato il tuo nome, dovevi uscire di corsa dai ranghi e presentarti sugli attenti davanti al sergente che comandava l'esercitazione e urlare, con quanto fiato potevi, il tuo nome e cognome, la tua qualifica e il tuo corpo di appartenenza (a iniziare dal Battaglione per finire alla Squadra) e concludere con un "comandi"!
Per quanto tu potessi gridare il sergente, chiunque egli fosse tra i quindici istruttori che ruotavano nei diversi giorni, diceva immancabilmente, portandosi una mano a campano nell'orecchio "non ho sentito!". E così dovevi ripetere la pappardella sempre più forte, finché uno dei due, tu o il sergente, non si stancava.

6.      Continua…
La parte prima del libro, che va dal 1960 al 1973 si può acquistare in tutti gli store oppure direttamente al link dell'editore: https://www.youcanprint.it/biografia-e-autobiografia-generale/memorie-di-scuola-9788827845486.html


sabato 20 ottobre 2018

Memorie di scuola - Parte Prima



Come dicevo, nell’estate del ’71 mio fratello Marino aveva abbandonato il vecchio locale di via Cagliari, dove per tutta l’estate del ’70 io gli avevo fatto compagnia (ero più un supporto psicologico che un aiuto al banco di vendita, dato che l’afflusso della clientela non era rilevante e al banco delle riparazioni, in presenza di mio fratello,  avrei potuto soltanto guardare per cercare di imparare qualcosa), e si era trasferito in via Roma, la strada centrale della bella cittadina di Samassi che mio fratello aveva eletto a sua seconda patria e dove lui era ben voluto da tutti.
Il cambio di negozio non giovò soltanto agli affari (che subirono un notevole incremento) ma anche e soprattutto all’umore e alla salute di mio fratello che parvero rifiorire da quelle lande di depressione e malessere in cui sembravano essere scivolate dopo la sua grande ed eclatante rivolta contro i disegni egemonici di mio padre.
I clienti entravano ed uscivano in continuazione, soprattutto la sera. Mio fratello vendeva con discrete capacità ed io lo affiancavo per vedere che qualche mariuola dalle mani svelte, approfittando magari di un suo momento di distrazione, facesse sparire qualche oggetto d’oro.
-”Stai attento soprattutto se vedi qualche avvenente ragazza che mette in mostra le tette!” – soleva ripetere mio fratello per darmi la carica.
Quando vi era più di un cliente anche io ero autorizzato a servire al banco, sia per la vendita di oggettistica minuta,  sia per sostituire un cinturino o altre facili operazioni.
Il periodo più calmo era a fine mattinata. Il negozio chiudeva alle 13,00 ma alle 11,30 in giro non si vedeva molta gente. Anche a Samassi, come in tutti i paesi a vocazione agricola della zona, il pranzo è rigorosamente previsto alle 12,00.
Mio fratello ne approfittava per fare le riparazioni. Io lo guardavo affascinato, come avevo fatto qualche anno prima al seguito di mio padre. Era preciso e delicato esattamente come il suo maestro. Solo che al contrario di lui, mio fratello amava chiacchierare durante il lavoro di riparazione al banco (a parte in quei rari momenti topici in cui il lavoro richiedeva un’applicazione particolare e massimo silenzio).
Se  era di malumore mi parlava della sua infanzia disgraziata, di quanto avrebbe voluto studiare invece di essere stato brutalmente messo a bottega; degli errori di   mio padre  che non era stato capace di costituire una vera società familiare a causa del suo carattere dispotico e poco comunicativo; dei suoi amici, tutti sfortunati e pieni di problemi; e di donne.
In  fatto di donne, mio fratello era un grande esperto;  si prodigava infatti in  un vero profluvio di pillole di saggezza sulla materia: a cominciare dal carattere delle donne e sulla loro psicologia instabile e umorale; e sulle loro apparenti virtù di castità e ritrosia; sulla inutilità di stabilire con loro relazioni stabili e sulla convenienza a farsi delle avventure, senza scrupoli e senza rispetto. Aveva in generale poca stima del sesso femminile; alcune categorie sociali erano da lui etichettate come poco di buono, da evitare come la peste: erano le parrucchiere e le infermiere, a suo dire, tutte ragazze di facili costumi, da non considerare per eventuale relazione stabile, tutt’al più, se fossero state “bone”, da inforcare e via. Mi raccomandava di non lasciar correre le numerose occasioni che, fortunato com’ero, lui non si sarebbe certo fatto sfuggire, nel mondo corrotto e libertino della scuola, dove le donne cercavano una cosa sola; e bisognava dargliela! Lui sì che avrebbe provveduto alla grande! E guai se io mi fossi tirato indietro.
Io avrei preferito dei consigli più pratici, magari su come corteggiare una donna, come conquistarla, su quale fosse stato l’approccio più corretto per entrare in quel mondo femminile così ricco, per me, di attrattiva, di fascino e di mistero; ma mio fratello era un fiume in piena e non sembrava attribuire alla psicologia un ruolo rilevante; le donne, secondo lui, erano delle bambole da conquistare, da trombare e da mollare.
Oggi capisco che quelle sue contumelie erano il risultato di tutte le delusioni che lui aveva avuto nei suoi rapporti con il c.d. gentil sesso.
Perché queste delusioni gli fossero occorse non so spiegare nel dettagli, perché lui non si confidava con nessuno sulle sue vicende private.
Posso però supporre che il mio caro e sfortunato fratello sia in qualche modo rimasto vittima della sindrome del bravo ragazzo di cui le donne sembrano essere, a loro volta,  vittime (qualcuno la chiama la sindrome della crocerossina; non so però se i due paradigmi affettivi coincidano davvero).
E’ noto  comunque che  le donne siano attratte più dalle simpatiche canaglie che dai bravi ragazzi. Mio fratello era sicuramente un bravo ragazzo, affidabile, con un’ottima posizione economica eppure con le donne non ebbe mai fortuna.
Guardandomi in giro ho visto spesso delle ragazze molto carine e pulite, accompagnarsi con dei ceffi dall’aspetto poco raccomandabile. Mio padre,  a tal proposito,  ripeteva spesso che se fosse nato donna,  sarebbe morto vergine, perché mai si sarebbe fatto toccare da certi elementi maschili, neppure con una canna di venti metri!
Io allora vedevo le donne come delle dee, da adorare e venerare; sicuramente da rispettare e da amare, ma mai da considerare come una merce di consumo, da pagare per delle prestazioni sessuali;  e neppure dei corpi di cui godere,  per poi scappare, in cerca di altro piacere, come sembravano suggerire le teorie di mio fratello ma anche di tanti altri uomini di mentalità maschilista.

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lunedì 15 ottobre 2018

Memorie di Scuola - Parte prima



In quell’anno scolastico 1970-1971 ero approdato alla terza classe dell’istituto Tecnico per Ragionieri “Leonardo da Vinci” di Cagliari.
Proprio in quell’anno mi ero accorto di avere sbagliato scuola: la Ragioneria e la Tecnica Commerciale, materie di indirizzo, mi annoiavano a morte, mentre studiavo sempre più volentieri l’italiano, la storia e le lingue straniere; per fortuna iniziammo a studiare il diritto e l’economia; tutto sommato potevo sopravvivere  senza cambiare scuola; avrei studiato anche le materie professionali, almeno il bastante per arrivare alla sufficienza.
D’altronde non è che i professori potessero ammazzarci di studio. Qualcuno l’avrebbe anche voluto (noi li chiamavamo “fascisti e reazionari”) ma ormai eravamo troppo impegnati nella lotta contro le vecchie istituzioni scolastiche e chiedevamo a gran voce di essere arbitri dei nostri destini. I nostri professori e le istituzioni più in generale, dal Preside sino al ministro della P.I. (quell’anno, se le fonti e la memoria non mi ingannano era il democristiano Misasi), d’altro canto, si scoprirono abbastanza impreparati a fronteggiare quella protesta rumorosa e convinta, tanto più  incontrollabile, quanto più essa era sorta in maniera spontanea e non organizzata.
Il terzo anno,  nella Ragioneria, così come,  credo, in tutti gli istituti superiori, è un anno cruciale.
Intanto di solito si cambia di corso (io infatti fui trasferito dal corso F al corso D). In secondo luogo si studiano delle materie del tutto nuove.
Così fu anche per me in quell'ottobre del 1970.
I miei nuovi professori erano assai diversi tra loro. Intanto c'erano quelli delle materie così dette di indirizzo: Ragioneria e Tecnica (che trattava tre specializzazioni diverse nel corso del triennio: commerciale, mercantile e bancaria); oggi, nella moderna ragioneria le due materie sono state unificate sotto il nome di Economia Aziendale, ma all'epoca, come dicevo, vi erano due materie e due insegnanti. Il professore di Ragioneria era un uomo tutto d'un pezzo. Si chiamava Murru. Quando entrava in classe noi ci levavamo tutti in piedi, in segno di saluto e di rispetto (ma lo facevamo per tutti i docenti indistintamente). Col braccio destro levato in aria e la mano tesa ci ordinava di sedere senza pronunciare parola. Ma i  suoi occhi chiari e freddi  scrutavano attenti tutta la classe; quello sguardo era eloquente più di qualunque parola, così come quel saluto solenne e ormai  fuori moda: se non parlo io che sono il capo, sembrava dire il bellicoso professore di ragioneria, perché dovreste farlo voi, che siete dei poveri studenti, ancora senza arte né parte ( e chissà se mai ce l'avrete con quei cappellacci lunghi  e con quelle minigonne)?
Si lavorava in silenzio e sodo. Io mi ero rassegnato, dopo due anni di latitanza, ad occupare  il primo banco (sempre per via della storia che i piccoletti dovevano stare avanti).
Da lui, oltre al saluto caratteristico ricordo altre due cose: la prima è che ripeteva spesso che  i sindacati, soprattutto quelli di fede socialista,  sono la rovina dell'Italia  (narrava, a metà tra il serio ed il faceto, che i sindacalisti erano dappertutto e che se uno di noi, un domani, rientrando a casa, avesse scovato nell'armadio o sotto il letto un uomo, non ci sarebbe stato alcun bisogno di chiedergli i documenti: si sarebbe trattato di un sindacalista di fede socialista); la seconda era la tecnica che aveva per ricordare gli articoli del codice civile (questa tecnica mi tornò poi utile anche all'università per memorizzare i  quattro codici); un giorno che ci spiegava il contratto di società, citando l'art. 2247 c.c., disse che ricordava quel numero facilmente, essendo nato nel 1922 ed essendosi poi sposato nel 1947; e faceva queste associazioni per tutti o quasi gli articoli del codice civile; così, concludeva, li aveva potuti memorizzare tutti.
Della sua materia non ricordo un beato picchio. Non mi piaceva (forse perché non mi piaceva lui; o magari, viceversa, non mi piaceva lui, perché mi era antipatica la sua materia).
Era un uomo freddo e distante; sicuramente preparato (si intuiva che nella sua materia non era uno sprovveduto), non vi era però alcuna emozione nel trasmettere la sua scienza.
Quando anni dopo, sono divenuto un insegnante, ho messo l'emozione e la passione al pari con la preparazione e la conoscenza; ma io ho sempre amato le materie che ho insegnato; ho amato e amo insegnare, anche se adesso lascerei volentieri il posto ad uno più giovane (ma pare che la riforma Fornero-Monti mi abbia bloccato in cattedra sino a 67 anni!).
E' vero anche che i tempi sono cambiati. Oggi i giovani non accetterebbero quella severità e  quella distanza glaciale che ci separava dai nostri professori!
Io pendevo dalle labbra dei miei professori perché volevo imparare da tutti e di tutto! Ed ero come una spugna, desideroso di apprendere!
Oggi i giovani hanno a portata di click, tramite il PC o il Tablet, o meglio ancora l’ I-phone e il cellulare, tutto lo scibile possibile e immaginabile in qualsiasi campo della scienza e di ogni altro campo della vita!
Altro che giornaletti e fumetti! Altro che sognare "Le Ore!" Adesso bastano tre lettere sulla barra di Google e tutto il bello e il brutto della vita ti si spalanca davanti agli occhi!
Peccato che questi giovani, troppo spesso, facciano un uso distorto e superficiale di questa portentosa invenzione chiamata Internet; di questa rete infinita di autostrade e sentieri, di valli e praterie, percorsi aerei, marini e terrestri che si chiama WEB!
Io ammiro davvero l'ingegno umano! Ma ripeto ancora: meno male che gli altri uomini non sono come me! Altrimenti altro che World Wide Web! Noi saremmo ancora nelle caverne, arrostendo il frutto della caccia e nelle interminabili sere d'estate, siederemmo ancora attorno al fuoco, ad ascoltare dai poeti erranti, le vicende antiche delle nostre genti, tramandate oralmente di padre in figlio, da maestro a discente, da poeta ad allievo!
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venerdì 12 ottobre 2018

Memorie di scuola - Parte prima



Capitolo Secondo
Le scuole medie inferiori
1.
Prima media
Anno scolastico 1965-1966

Ci sono  dei momenti, nella vita di ciascuno di noi, in cui ci sentiamo sospinti da una forza invisibile che, come una corrente misteriosa, ci conduce da qualche parte, non importa dove. E non importa neppure dove noi vogliano andare. E’ la forza misteriosa che ci spinge; è lei che sa dove noi dobbiamo andare.
Di questi momenti nella mia vita ne ho vissuti di diversi. Per esempio nel 1968, quando la protesta studentesca mi trascinò, piano, piano, anno dopo anno, fin sulle  sulle barricate di una rivolta epocale, tremenda, cieca che voleva distruggere tutto e finì col distruggere gli aspiranti distruttori (mi fermò soltanto la mia idiosincrasia per ogni forma di violenza e di potere, il mio pacifismo convinto e idealista, il mio desiderio di conoscenza; lo stesso che mi spinse a Londra, al tramonto della rivoluzione, quando un’altra forza mi afferrò e mi spinse nelle lande nebbiose di Albione; ma di questo parlerò più avanti).
Nel 1965, al momento di scegliere la scuola media, fu ancora una forza misteriosa a spingermi verso Arborea.
Quell’anno, i neo-licenziati maschi  della quinta elementare del mio paese, scelsero di iscirversi al collegio che i Salesiani, con tanto onore, tenevano ad Arborea (la vecchia colonia fondata dai Veneti, chiamata prima Mussolinia, ed allora, come oggi, ridente ed attiva cittadina dell’oristanese, molto attiva nella produzione latto-casearia). Lì, i valenti sacerdoti di San Giovanni Bosco, formavano i futuri sacerdoti del clero sardo, prima attraverso un’adeguata istruzione nella scuola media unificata e, successivamente, per i più dotati e pervicaci, attraverso il ginnasio e il liceo classico.
In questa corrente, che di mistico e di religioso, come poi i fatti dimostrarono, non aveva molto,  io mi immisi di buon grado, complice il desiderio di mia madre di vedere almeno uno dei figli maschi con la tonsura e la tonaca nera da prete (mia mamma non ne faceva alcun mistero; anzi, a voce alta invocava il buon Dio perché le facesse la grazia di un figlio prete; ma, poveretta, fallì con me, come aveva fallito prima con un fratello maggiore e come fallì qualche anno dopo con uno dei fratelli minori!).
Così, senza una grande vocazione,  mi ritrovai nel Seminario di Arborea. Occorre dire che ancora in quegli anni sessanta era molto vivo quel movimento, iniziato subito dopo la guerra, che spingeva i giovani in Seminario anche senza vocazione. Le famiglie sapevano che in quei luoghi di studio e di meditazione, venivano assicurate, in cambio di una modesta retta mensile (che per i più bisognosi veniva coperta dagli stessi Salesiani), una cultura ed un’istruzione adeguate, congiuntamente a un vitto e  a un alloggio decorosi (che non tutte le famiglie potevano assicurare ai numerosi figli che la Provvidenza e la mancanza della televisione mandavano alle coppie precoci e fertili di allora).
La maggior parte di questi aspiranti sacerdoti lasciavano il seminario alla vigilia dei voti e si ritrovavano sul mercato del lavoro con un diploma di laurea che, quantomeno, spianava la strada all’insegnamento nelle discipline umanistiche.
Mia madre, appoggiata da mio padre che, seppure anticlericale viscerale,  non voleva ostacolare le sue aspirazioni  celesti, mi dotò di un ricco e copioso corredo e così iniziò la mia carriera ecclesiastica (che, come il paziente lettore potrà dappresso appurare, non fu invero molto lunga).
Arrivai qualche giorno prima dell’inizio dell’anno scolastico, a fine settembre (in quegli anni l’anno scolastico iniziava ancora ad ottobre).
Del primo giorno, oltre all’odore delle saponette,  della cancelleria e dei libri di testo, freschi di stampa, mi ricordo “il passo volante”.
Il passo volante era una specie di giostra, posizionata al centro dello sterminato  cortile che fungeva da parco giochi per le ore di ricreazione (indispensabili in ogni collegio dei Salesiani che si rispetti); la giostra era composta da un palo centrale al culmine del quale  ruotava  una corona dentata da cui si dipartivano delle catene che terminavano in altrettanti seggiolini di legno;   il giocatore, seduto a cavalcioni, spingeva con le gambe correndo attorno all’asse e, presa la rincorsa, spiccava il volo per poi atterrare, una volta esauritasi la spinta.
Mi cimentai in quel gioco in modo così azzardato che, ricordo ancora oggi, al termine di una corsa particolarmente spericolata, mi si avvicinò un sacerdote il quale mi chiese se mi sentissi bene.
In effetti io stavo benissimo; almeno finché si giocava al passo volante; mi piacevano  anche il calcio, la dama e la pallamano. Come hobby culturale, tra il traforo e la legatura  dei libri, scelsi la legatoria; una passione per i libri cartacei che ancora mi porto appresso.


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giovedì 11 ottobre 2018

Memorie di scuola - Seconda parte



Arrivai in  caserma a pomeriggio inoltrato,  in quel 15 luglio 1974. C’era un via vai molto animato, quasi frenetico, all’ingresso. Faceva ancora molto caldo. Mostrai i miei documenti alla guardia. Si avvicinò anche un graduato a controllare. Mi fecero cenno entrambi di raggiungere il piazzale che si vedeva oltre l’ingresso in cemento e di presentarmi al responsabile del mio corso, che mi aspettava. Non mi sfuggì lo sguardo d’intesa tra i due, che osservavano divertiti il mio abbigliamento da civile e, soprattutto,  le mie nere e lunghe chiome.
-          “ Anche il barbiere ti sta aspettando”- mi gridò dietro la guardia, mentre già mi ero avviato.
Il taglio dei capelli, come intuivo e come ebbi conferma di lì a poco, costituiva un vero e proprio rito di iniziazione alla naja.
Con i capelli cadeva  simbolo principale della laicità di allora.
Nel sentire comune (e mio padre non faceva certo eccezione) i capelloni erano il cancro della società, i responsabili del degrado e della deriva morale. Ai capelli si associavano inoltre, più o meno impropriamente, tutti i mali presenti nella società contemporanea: la promiscuità e la liberta sessuale, l’uso di droghe e l’anarchismo.
A me delle droghe non me ne poteva fregar di meno (all’epoca non sapevo neanche cosa fossero esattamente); degli anarchici  sapevo soltanto che ogni volta che c’era qualcuno da sacrificare come capro espiatorio, essi costituivano la preda ideale. Così era stato per Sacco e Vanzetti in America e lo stesso si era verificato per Pietro Valpreda e per Giuseppe Pinelli in seguito alla misteriosa vicenda della strage di Piazza Fontana, avvenuta a Milano  nel 1969 (l’atto terroristico che diede il via alla strategia della tensione in Italia, come ho già avuto modo di segnalare all’attento lettore nel primo volume di queste mie memorie).
Sulla libertà sessuale, avrei voluto invece dire la mia. E cioè che io ero convinto della legittimità in capo ai giovani, non solo di portare i capelli lunghi, ma anche di praticare la più estesa e variegata libertà sessuale che si potesse praticare, senza limiti e limitazioni e in base ai gusti sessuali di ciascuno.
Ma agli occhi dei matusa benpensanti e dei borghesi (come io confusamente chiamavo tutti quelli che non portavano i capelli lunghi e non amavano la musica Rock) i capelloni erano un male da estirpare per riportare la pace nelle famiglie, l’ordine sociale e l’igiene pubblica (tra le altre accuse ai capelloni veniva mossa quella di essere sporchi e di convivere con le pulci, i pidocchi e le piattole nella testa).
E quel taglio barbaro e selvaggio praticato in caserma come primo atto del servizio (prima ancora dello stesso atto di arruolamento amministrativo e prima ancora della consegna della divisa, delle coperte e delle lenzuola per allestire la branda militare)  era una vendetta e un atto di riparazione sociale allo stesso tempo.
Lo Stato e la società civile si riprendevano in un colpo solo quei giovani sfuggiti agli schemi predisposti, ribelli all’ordine costituito, sognatori di un mondo utopistico fatto di idealismo egualitario, di viaggi veri e di avventure  psichedeliche, di una vita senza regole, di una condivisione comunitaria che sovvertiva i principii del capitalismo, minando alle basi l’ordine sociale vigente.
I più scatenati e reazionari arrivavano a evocare le purghe, i manganelli e le forbici tosa pecore, da mettere in azione magari il sabato mattina in tutte le scuole di ogni ordine e grado, reintroducendo come materie obbligatorie  la ginnastica mattutina, i corsi di igiene personale e l’educazione sanitaria.
I moderati si limitavano a propugnare un divieto di portare i capelli lunghi per i dipendenti pubblici e la chiusura delle discoteche.
I politici democristiani e quelli che via, via gli  si associavano, prima nel centro sinistra, poi nelle formule quadri e pentapartitiche, facevano finta di ascoltare e di assecondare tutti quanti ma poi lasciavano correre. L’importante, in fondo, era che potessero continuare a gestire il potere. I loro tutori americani, terrorizzati che il comunismo potesse scalzare la democrazia cristiana e i suoi alleati di sicura fede atlantica, a vendo conosciuto e gestito prima di loro il fenomeno della contestazione giovanile ( sin dalla prima ondata dei figli dei fiori dei primi anni sessanta e sino alle contestazioni contro la guerra del Viet-Nam, che di lì a poco sarebbe finita con la sconfitta clamorosa degli Yankees), consigliavano di non prendere troppo di petto il fenomeno, lasciando che le menti più argute e coraggiose si spegnessero e si annullassero negli infiniti meandri delle droghe pesanti (soprattutto il micidiale acido lisergico, noto con l’acronimo LSD e l’eroina, pericoloso derivato dell’oppio); il tempo avrebbe fatto il resto, reinserendo i superstiti nei ranghi delle  regole consumistiche  e produttive.
I comunisti, eternamente all’opposizione nei governi nazionali, cominciavano ad assaporare il potere nei livelli intermedi (soprattutto dopo  la partenza delle regioni, avvenuta di fatto nel 1971) e sembravano strizzare gli occhi, insieme ai radicali,  a tutti questi contestatori di variegata natura.
Certo la sinistra, in quegli anni, costituiva una grande attrattiva per tutti quei giovani che non si riconoscevano nell’immobilismo democristiano e, ancor meno, fuori dall’arco costituzionale (dove a vario titolo stazionavano i nostalgici del ventennio fascista).  
Molti giovani contestatori però, poco a poco, delusi dalla sconfitta del sessantotto, si organizzarono in gruppi extraparlamentari che ricorsero alla violenza come strumento di lotta, affascinati dalle sirene del comunismo rivoluzionario e proletario.
Come abbiano operato questi gruppi terroristici lo abbiamo visto tutti. Sono stati sconfitti dallo stato di diritto ma anche dalla storia e dalla stessa classe operaia sulla quale essi contavano per la vittoria finale del proletariato. Erano talmente impreparati e disperati che non si accorsero neppure di essere stati fagocitati dai servizi segreti americani. Ammazzando Moro, nel 1978, tolsero le castagne dal fuoco agli emissari degli U.S.A. che operavano già in Italia per sbarrare la strada del potere ai comunisti.
Né mancò la risposta destrorsa alle sinistrorse Brigate Rosse e ai Nuclei Armati Proletari. A destra si formarono infatti i NAR ( Nuclei Armati Rivoluzionari) e Ordine Nero.
Ci fu un momento in Italia, in cui questi gruppi extraparlamentari si erano alleati contro i gruppi politici parlamentari per travolgerli, con l’accordo che una volta sconfitti quelli, ci sarebbe stata la resa dei conti tra di loro perché avesse dovuto gestire il potere.
Messo a fuoco un simile clima sociale, con attentati e bombe a ripetizione, la sensazione di impotenza che indubbiamente aveva trasmesso  il fallimento degli ideali rivoluzionari ma pacifici del sessantotto, l’immobilismo in cui si dibatteva il potere politico parlamentare, forse non sorprenderà poi tanto il paziente lettore il fatto che io mi fossi ritrovato, confuso e frastornato, ad assolvere anzitempo il mio servizio obbligatorio di leva, onde avere poi la via sgombra per altre, allora impensate risoluzioni.
E scusandomi per la lunga digressione vorrei così tornare a parlare proprio del servizio militare che in quel pomeriggio avanzato del  15 luglio 1974 avevo appena iniziato.
5.      Continua…
La parte prima del libro, che va dal 1960 al 1973 si può acquistare in tutti gli store oppure direttamente al link dell'editore: https://www.youcanprint.it/biografia-e-autobiografia-generale/memorie-di-scuola-9788827845486.html

sabato 6 ottobre 2018

Memorie di Scuola - Seconda parte


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Capitolo Secondo
1974-1975

Scuola di Fanteria a Cesano di Roma
Quando venni arruolato nell’Esercito Italiano avevo già dato tre esami all’Università: Storia del Diritto Romano; Filosofia del Diritto e Teoria Generale del diritto (con il prof. Giacomo Gavazzi che ho già nominato all’inizio del racconto).
Mentre a Capranica aspettavo il treno che mi avrebbe portato a Cesano di Roma, mi sembrava di aver già vissuto quel preciso momento: io, seduto in una panca di una qualunque stazione ferroviaria, che partivo senza sapere cosa mi avrebbe riservato  l’indomani.
Beh, il servizio militare di leva, per chi non l’avesse conosciuto (parlo soprattutto ai giovanissimi e alle donne) , poteva dare  anche di queste sensazioni.
Il foglio di coscrizione che avevo nella tasca dei miei jeans diceva che ero stato assegnato al 44.mo corso A.C.S. della Scuola di Fanteria di Cesano di Roma.
Il corso sarebbe iniziato il 15 luglio 1974 e sarebbe terminato esattamente cinque mesi dopo.
Dopo tre mesi avremmo avuto il grado di caporale, mentre alla fine del corso ci saremmo fregiati del grado di caporal maggiore. I baffi da sergente (e il relativo stipendio) sarebbero arrivati soltanto al decimo mese dall’inizio del corso.
La Scuola di Fanteria era un fabbricato molto esteso in larghezza (e assai poco in altezza) che ospitava sia la Scuola A.U.C. (quella degli Allievi ufficiali di Complemento) sia quella che sarebbe stata la mia scuola nei prossimi sei mesi: la Scuola A.C.S. (quella degli Allievi Sottufficiali di Complemento).
La mia domanda originaria, anche su consiglio di mio padre,  era stata indirizzata alla Scuola Allievi Ufficiali di Complemento: cinque  mesi di corso, poi la promozione a sottotenente di complemento  e l’assegnazione a un reparto operativo, con la stelletta dorata  sulle spalline  e uno stipendio sicuro per i successivi otto mesi. E poi, sperava mio padre, una bella firma di rafferma e una brillante  carriera da ufficiale nell’Esercito Italiano.
A quel tempo ero un idealista giovane e inesperto, come forse l’affezionato  lettore avrà intuito leggendo la prima parte della mia storia. Mai e poi mai avrei accettato di chiedere una raccomandazione, un aiuto, una segnalazione per diventare Allievo Ufficiale di Complemento. E men che meno lo avrebbe fatto il mio buon vecchio. Io credevo ciecamente nel criterio meritocratico e anzi detestavo con la forza della mia innocente gioventù ogni scappatoia.
E infatti, nonostante i risultati dei test che avevo ben sostenuto nella caserma Fonseca di Roma alcuni mesi prima, finii arruolato negli Allievi Sottoufficiali di Complemento (ACS).
La scuola era la stessa, così come gli istruttori e gli ufficiali di riferimento, dal Generale Comandante della Scuola di Fanteria Giancarlo Gresti al Comandante del Battaglione  AUC-ACS Tenente Colonnello Italo Sammartano.
Solo che mentre gli AUC avrebbero goduto dello stipendio (e dello status di ufficiali dopo cinque mesi di corso) noi ACS, dopo gli stessi mesi del medesimo corso ci saremmo dovuti accontentare del grado di caporal maggiore (e per lo stipendio avremmo dovuto aspettare altri cinque mesi).
Così va la vita. D’altronde è pur vero che non si può essere tutti ufficiali, così come sono necessari i sottufficiali. In fondo quelli che stanno peggio sono i fanti , l’ultima ruota del carro militare. E sono certo che anche all’interno dei fanti semplici ci sono quelli che per carattere o per anzianità o chissà con quale altro mezzo riescono a emergere sugli altri.
A tal proposito, per una migliore comprensione dell’organizzazione militare, è bene che il paziente lettore sia reso edotto del fatto che, a parte il singolo fante, l’unità più piccola dell’Esercito Italiano è la squadra (formata da un numero variabile di fanti tra i cinque e i dieci e comandata da un caporal maggiore oppure da un sergente). Cinque  squadre formano un plotone, con a capo un ufficiale inferiore (tenente oppure sottotenente), mentre cinque plotoni formano una compagnia, capeggiata da un capitano. Cinque compagnie formano un Battaglione, con a capo un tenente colonnello e più Battaglioni formano un Reggimento. Più Reggimenti, infine, formano una Brigata oppure una Divisione (a seconda dei casi) unità di 10.000  e sino a 20.000 fanti, comandate da ufficiali superiori (solitamente Generali a una, due o tre stelle, precedute da un fregio chiamato in gergo militare “ greca”  mentre i maggiori, i tenenti colonnelli e i colonnelli hanno anch’essi rispettivamente  una, due e tre stelle ma esse sono precedute da una corona dorata). Più Divisioni formano un Corpo d’Armata che solitamente comprende sia le Divisioni di terra, sia le forze armate di mare e di cielo, raggruppate in Squadriglie Navali e Aeree (con a capo gli Ammiragli).

4.      Continua…
La parte prima del libro, che va dal 1960 al 1973 si può acquistare in tutti gli store oppure direttamente al link dell'editore: https://www.youcanprint.it/biografia-e-autobiografia-generale/memorie-di-scuola-9788827845486.html





martedì 2 ottobre 2018

Memorie di scuola - Parte Seconda


Uno dei  professori che ricordo con affetto e ammirazione è Giacomo Gavazzi.
Era titolare della cattedra di Teoria generale del diritto.
Le  sue spiegazioni volavano in alto, come il fumo delle Marlboro che fumava ininterrottamente durante la lezione. Le sue parole avevano anzi  la stessa densità e la levità del fumo delle sue sigarette: parlava infatti  espirando il fumo ispirato poco  prima dalla sigaretta.
Il prof. Gavazzi aveva tradotto (non saprei dire adesso se dal danese o dall’inglese) il libro di testo di Alf Ross, “Diritto e Giustizia” che avevamo in adozione.
Debbo confessare che anche questo lo avevo divorato con interesse e curiosità. In quegli anni sentivo dentro di me una grande forza che mi spingeva ad apprendere.
Allora, come d’altronde ancora oggi, immaginavo l’Università (e lo studio in generale) come una grande scala, i cui gradini, nel salire, ti consentono di vedere il mondo dall’alto. E più sali e più riesci  a vedere e a capire del mondo che ci circonda. Occorre però stare attenti, nel salire, a non allontanarsi troppo dalla vita sottostante, per non perdere il contatto con la realtà, cosa che accade a molti studiosi, che finiscono per  ritrovarsi nella famosa torre d’avorio, dalla quale osservano poi il mondo reale, senza più riconoscerlo.
Le lezioni di Teoria generale del diritto mi chiarivano le idee sul significato più profondo del diritto, sulla sua funzione, sul senso che le norme giuridiche acquistano in rapporto alle vicende umane ed in relazione alle altre norme che giuridiche non sono; alla stessa stregua in cui le istituzioni e la storia del diritto romano mi mostravano il cammino millenario che l’uomo aveva percorso per giungere ad essere ciò che oggi siamo in termini di organizzazione e di disciplina delle relazioni umane, sia quelle tra uomini e sia quelle tra gli uomini e le altre entità giuridiche, pubbliche o private che esse siano; così come il diritto costituzionale mi avrebbe mostrato, più in là negli esami, l’organizzazione politica   in cui dal centro si dipana la fitta rete delle strutture e degli enti politici, partendo dalla base elettorale e dalle cellule sociali di base che quella rete alimentano con la linfa democratica, tanto  più fluida e pulita, quanto più genuina e onesta risulti essere quella base organica (e viceversa).
Più tardi avrei inoltre imparato che le categorie giuridiche sono una conseguenza dell’assestamento di quelle economiche e che sono queste ultime, in realtà, quelle che dettano le regole. Ma al tempo ero troppo ingenuo per capirlo.
Adesso che i miei sogni di affrancazione e di riscatto, coltivati negli anni degli scioperi e delle battaglie scolastiche,  mi avevano abbandonato, mi aggrappavo allo studio e alle lezioni di quei grandi uomini di scienza per dare e per trovare un senso nella mia vita, cercando di dipanare quella matassa che mi si era aggrovigliata nell’animo sin dalla prima adolescenza.
Oltre a quelle lezioni mirabili, lenivano le mie angustie esistenziali le canzoni che ascoltavo alla radio oppure da certi miei amici, sempre all’avanguardia con i dischi e con gli impianti stereo. Talvolta, come nel caso degli Inti Ilimani,  mi infiammavo nel pensare alle ingiustizie del mondo e alla possibilità che il popolo unito potesse porvi veramente fine.
Ma ormai io mi sentivo sempre di più un sasso di fiume, un ciottolo abbandonato alla corrente che accetta con fatalismo di essere condotto dove la corrente fluisce, senza più forze e senza più voglia di  ribellarsi.
Così, nonostante avessi due fratelli maggiori che avevano già svolto il servizio militare, nonostante il mio favismo, nonostante avessi avuto il diritto di chiedere il rinvio per ragioni di studio (dato che negli esami ero del tutto regolare), arrivò a casa la chiamata alle armi ed io non feci niente per chiedere il rinvio (ed ancor meno fece mio padre, il quale era convinto che il servizio militare fosse una panacea che faceva guarire tutti i mali esistenziali e che fosse una insostituibile ed impareggiabile scuola di vita).

3. continua

La parte prima del libro, che va dal 1960 al 1973 si può acquistare in tutti gli store oppure direttamente al link dell'editore: https://www.youcanprint.it/biografia-e-autobiografia-generale/memorie-di-scuola-9788827845486.html



I Nuovi Baroni

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