4.25.2019

Memorie di scuola



A.S. 1969-1970 (seconda parte)
Dalla strage di Piazza Fontana ai  Mondiali di calcio di Messico ‘70
Ci sono degli avvenimenti, nella storia dell’uomo, che pur apparendo alquanto scollegati,   hanno invece un rapporto di causa a effetto niente affatto trascurabile.
Si potrebbe anche affermare, non di meno,  che quegli stessi avvenimenti si sarebbero comunque  verificati, indipendentemente e a prescindere,  dagli altri.
E forse questa seconda affermazione ha più probabilità di essere vera rispetto alla prima.
Quello di cui sono certo è  che la storia dell’uomo non è altro che una incessante lotta per la supremazia del potere. A tal proposito qualcuno più ferrato di me ha scritto che la lotta viene condotta dagli uomini per il possesso dei mezzi di produzione; ma non sono sicuro di non essere vittima di un retaggio del materialismo storico studiato in gioventù, anche se nei decenni successivi ho preferito aderire alla dottrina sociale cattolica.
Queste riflessioni mi sono venute alla mente mentre rielaboravo i miei appunti sul 1970.
All’inizio di quell’anno io frequentavo la seconda ragioneria all’Istituto Commerciale Leonardo di Vinci di Cagliari.
Naturalmente non avevo ancora iniziato lo studio dell’economia politica ma a maggio di quell’anno entrò in vigore in Italia lo Statuto dei lavoratori che io   ebbi modo di studiare e approfondire più avanti nei miei anni universitari e nella mia professione di avvocato.  
Fu questa legge il frutto di tante lotte, iniziate nei decenni precedenti dai sindacati dei lavoratori più rappresentativi della grande industria italiana.
Fu un bel successo per tutti i lavoratori; un riscatto tanto agognato quanto meritato per i soprusi subiti da dipendenti che sudavano onestamente per guadagnarsi da vivere; ma allo stesso tempo fu un duro colpo per quei datori di lavoro (chiamati dispregiativamente “padroni” dalla classe avversa) che, lontani da ogni desiderio di sfruttamento nei confronti dei propri dipendenti, amavano condividere con loro le gioie e i dolori del lavoro in azienda (penso, ad esempio, a un Adriano Olivetti; ma anche a quei numerosi artigiani che vivono la quotidianità del duro lavoro e, pur di non privare i loro operari del giusto salario a fine mese, erano capaci di investire tutto  il ricavato dell’impresa, caricarsi di debiti con le banche e, in certi mesi, rinunciare perfino a qualsiasi emolumento).
L’amara verità alla quale sono pervenuto dopo decenni di studio e, soprattutto di vita vissuta e di riflessioni, è che le leggi non sono altro che dei tentativi di dare un assetto equilibrato alla società e ai rapporti umani che vi si svolgono; in tale ottica  le leggi sono un male necessario per regolare le attività umane,   proprio a causa dell’animo egoista che alberga dentro ciascuno di noi (in misura più o meno grande); nel suo estremo egoismo l’uomo vive di squilibri e tende alla sopraffazione e all’intolleranza, nella convinzione di possedere, in esclusiva sugli altri, il bandolo della giustizia, la matassa della ragione e la stessa verità.
Ed è per questo che gli esperimenti di ogni società comunitaria e paritaria  sono miseramente falliti e sempre falliranno; così come è fallito e fallirà sempre ogni utopistico sogno di anarchia, di autogestione e di gestione collettiva di beni comuni.
Ovviamente le  leggi, tutte le leggi,  sono il risultato di quei rapporti di forza di cui parlavo dianzi. Ed essendo un prodotto storico ed  umano, come tale è soggetto ad imprecisioni e presenta inevitabilmente dei coni d’ombra in cui si celano e si perpetrano gli abusi.
Lo Statuto dei lavoratori del 1970 rappresentava tutto ciò: un argine per i datori di lavoro arroganti e protervi, fautori di imprese padronali, considerate le nuove miniere, i nuovi feudi dell’industrializzazione rampante del boom economico, le ferriere mai chiuse e mai morte nelle teste degli eterni ricchi e dei pidocchiosi arricchiti (o dei nuovi ricchi se si preferisce);  ma anche uno strumento di abuso in mano a qualche  operaio scansafatiche, a certi sindacalisti accecati dal marxismo velleitario e idealista (e forse anche utopistico). In fondo, però, una buona legge, che reprimeva più torti di quante ragioni si trovasse a sacrificare. E poi, una legge dalla parte dei deboli, è sempre una buona legge. Peccato che dei giovani politici, tanto inesperti quanto rampanti l’abbiano stravolta con modifiche peggiorative in danno dei più deboli.
Ma la lotta per il potere non si ferma mai: “boia chi molla” scrisse qualcuno sui muri d’Italia in quegli anni settanta.
Potevano gli industriali italiani mollare così facilmente, soltanto per una legge che aveva visto vittoriosa (per una volta) la classe avversa?
La FIAT (Fabbrica Italiana Automobili Torino, oggi FCA, Fiat Crysler Automobiles) fu la prima grande industria che prese le contromisure.
Lo Statuto dei lavoratori tutela maggiormente i lavoratori con più di 50  dipendenti? Smembriamo la nostra impresa e suddividiamo l’attività produttiva, decentrandola  in innumerevoli aziende con dieci, venti, trenta, massimo quaranta dipendenti!
Questa fu la risposta della FIAT nell’immediato (nel  breve periodo, si usa dire in economia).
Ma la risposta nel medio e nel lungo periodo di tutto il mondo padronale, ai massimi livelli occupativi fu collegiale e micidiale. E il mondo occidentale, le famiglie e i lavoratori   stanno ancora piangendo per quelle tremende contromisure!
Quale fu, dunque, l’effetto che causò quella legge così protettiva e garantista in favore  dei lavoratori?
Semplice e terribile come  l’aria che respiriamo.
Lo Statuto dei lavoratori tutela e garantisce i lavoratori proteggendoli dall’imprenditore e obbligando l’impresa a comportamenti limitativi del profitto?
Allora aboliamo semplicemente i lavoratori!!!
Così nacquero i primi assemblaggi meccanici, i motori interamente robotizzati, le macchine che sostituiscono l’uomo!
Con buona pace dei sindacati dei lavoratori e di chi era convinto che il robot fosse stato inventato per aiutare l’uomo a vivere meglio!
E anche di chi pensa che gli accadimenti storici e umani siano tutti slegati tra loro, oppure casuali e occasionali.
A fine maggio, quando iniziarono i campionati del mondo, il verdetto del mio anno scolastico era già ufficiosamente acquisito. A giugno arrivò la conferma ufficiale:   venni promosso alla classe terza senza materie a settembre. Anche quell’anno il preside mi fece avere un regalo: una Garzantina in due volumi che ancora conservo gelosamente tra i miei libri.
Così potei godermi il campionato del mondo alla TV (ancora rigorosamente in bianco e nero).
In estate tornammo tutti in paese e la famiglia si ricompose. Fu bello ritrovare i miei fratelli e  i miei amici. E fu ancora più bello riavere la famiglia tutta unita sotto lo stesso tetto e ritrovarci tutti  attorno allo stesso tavolo per consumare i nostri pasti chiassosi, allegri e spensierati.
Durante il campionato del mondo di calcio l’Italia si divise in due partiti: quello favorevole a Rivera e quello favorevole a Mazzola. E  nei bar ci sentivamo tutti dei Valcareggi; il CT della Nazionale, per non scontentare nessuno, inventò la staffetta tra Rivera e Mazzola; un tempo di 45 minuti all’uno e un tempo all’altro.
Tutti ci stupimmo e ammirammo i nostri eroi nella semifinale con la Germania.
Il grande Gigi Riva (orgogliosamente sardo di adozione) che due anni prima ci aveva regalato la vittoria agli Europei di calcio, grazie alle sue sfolgoranti  reti, non riuscì però a regalarci la coppa Rimet. La vinse il Brasile.
Io andai a ballare, quella domenica.
La domenica era d’obbligo andare a ballare, in cerca di donne. Ma il massimo, per noi ragazzi di allora, senza soldi, senza macchina e senza casa,  era fare un poco di flanella sulla pista da ballo, mentre il complessino di turno (le discoteche come le conosciamo oggi sarebbero arrivate solo qualche anno dopo) intonava “Child in time” dei Deep Purple oppure “A wither shade of a pale” nella versione italiana dei Dik-Dick (si tratta della mitica “Senza luce”, un lento da sballo).
Rientrando dal ballo, mi bastò affacciarmi nel bar e vedere i musi lunghi e le voci deluse degli avventori per capire che la coppa Rimet sarebbe rimasta per sempre nell’altro emisfero.


 Trovi il   testo integrale di Memorie di scuola di Ignazio Salvatore Basile on line(c/o Mondadori store, Feltrinelli, IBS, Libreria Universitaria, Amazon ecc.) anche in cartaceo oppure in libreria il volume edito da Youcanprint ISBN 9788827845486. Il romanzo è disponibile anche in formato e-book nel sito della casa tramite il link sottostante.




4.22.2019

Viva Greta!


Molti si chiedono chi ci sia dietro Greta Thunberg. Io vorrei ribaltare la questione e chiedere: ma cosa  c'è dietro coloro che osteggiano Greta? Non ci sarà per caso la grande industria basata sulla plastica? O i soliti capitalisti rampanti, adoratori del dio quattrino che non vedono altro che il profitto?
In ogni caso chiunque  ci sia dietro di lei non ha nessuna importanza. La sua figura ha risvegliato le menti della gente davanti ad un problema enorme. Fino a poco tempo fa se ne sentiva parlare in TV in qualche documentario o giornale specializzato. Oggi invece ne parlano tutti e nel nostro piccolo ci stiamo dando da fare con la raccolta e il riciclaggio. Perché definirla stronzetta o rompipalle? Qualcuno prima o poi doveva prendere l'iniziativa e lei o chi per lei lo sta facendo. Io sto con Greta.
Anzi vado oltre: sostengo che il pianeta vada salvaguardato dall'inquinamento atmosferico e dalle sostanze inquinanti in generale.

4.20.2019

Memorie di scuola



Anno scolastico 1969-1970
Dall’autunno caldo del 1969 alla strage di Piazza Fontana (Dic. 69)

Nel viaggio di ritorno mio padre mi informò che aveva comprato un appartamento e un locale commerciale nel centro di Cagliari (a 5 minuti dalla Stazione Centrale, tenne a precisare). Nel primo ci saremmo trasferiti io, mia mamma e tutti i fratelli più piccoli. Nel secondo avrebbe aperto una gioielleria in società con i tre figli maggiori, attuali coadiuvanti nell’azienda di famiglia; il mio buon vecchio si aspettava che anche io avrei aderito alla società in qualità di contabile, una volta diplomatomi; contava inoltre che io affiancassi mia mamma nella cura dei fratelli più piccoli, per quando riguarda il buon esempio, lo studio e la frequenza a scuola, la buona educazione in casa. Mia madre non parlò, limitandosi ad assentire; e quando mia madre non parlava (ciò che accadeva raramente, in quanto i contrasti dialettici con mio padre erano frequenti ) voleva dire che condivideva tutto ciò che mio padre aveva detto.
Ma i progetti ambiziosi di mio padre erano destinati a infrangersi sugli scogli delle incomprensioni con il mio fratello maggiore e suo primogenito Pietro Marino che noi tutti chiamavamo Marino e mio padre, spesso,  semplicemente Rino.
Era questo mio fratello maggiore un ragazzo dal cuore d’oro, tanto intelligente quanto capace nel lavoro di orologiaio e di commerciante. Avrebbe voluto studiare ma mio padre lo ritirò da scuola alla fine del primo ciclo di studi (prima del 1962 si poteva fare perché, sino a quell’anno, quando entrò in vigore la legge che unificava la scuola media obbligatoria per tutti sino ai quattordici anni, la scuola dell’obbligo finiva a dieci anni e si poteva comunque sostituire con l’apprendistato in una delle professioni artigianali al tempo assai diffuse).
Il povero Marino si ritrovò così, all’età di dieci anni, alla dura scuola di mio padre. E che fosse dura la scuola nella sua bottega di orologiaio non c’è dubbio. Basti sapere che le parole e persino  i respiri andavano dosati nella giusta misura, così come i colpi con gli speciali martelletti da orologiaio con cui talvolta occorreva coadiuvare mio padre, per spunzonare o ribadire una parte meccanica o un pezzo dei complessi congegni di misurazione del tempo nella cui riparazione mio padre era riconosciuto, in tutta la provincia di Cagliari e anche oltre,  come un vero maestro.
Tra i miei fratelli orologiai Marino fu l’unico che poté dire di avere acquisito l’arte orologiaia paterna in pieno; era l’unico che sapeva infatti riparare i pendoli e costruire con le sue mani un pezzo di ricambio; anche se  questa manualità eccelsa non fu più necessaria dopo la guerra, quando i mercati si aprirono e il boom economico consentì all’Italia di importare  dalla   Svizzera (allora primo e unico produttore mondiale nel settore),  in grande quantità,  ogni tipologia di ricambio di orologi e sveglie.
Ma il suo carattere volitivo,  ricco di ingegno e d’orgoglio, assai simile a quello di mio padre , li trovò inevitabilmente su fronti opposti. Inoltre mio fratello Marino non perdonò mai mio padre per avergli impedito di studiare come egli avrebbe voluto. Io sono certo che Marino si sarebbe laureato con grande facilità, se soltanto ne avesse avuto l’opportunità. A discolpa di mio padre debbo però dire che allevare dieci figli (tanti eravamo in famiglia, essendo uno dei miei fratelli morto in tenera età) sarebbe stato duro, forse impossibile, senza l’aiuto del primogenito. E in casa non siamo stati mai abbastanza riconoscenti nei confronti di quel fratello più grande così generoso e sfortunato (sul piano degli affetti), al quale io ero particolarmente affezionato, da lui ricambiato.
E quando la fortuna gli arrise negli affari, io diventai il suo legale di fiducia, conducendo per lui e con lui delle battaglie giudiziarie sempre coronate da successo (pur se lui, con la sua consueta generosità, mi chiese sempre di non infierire sugli avversari vinti, costruendo per loro dei veri ponti d’oro, per alleviare l’amarezza che lui conosceva assai bene).
Ho il rimpianto e mi commuovo ogni volta che penso a lui perché se n’è andato troppo presto e gli sono riconoscente per il bene che mi ha voluto ( e che lui mi permise di dargli sin da ragazzo, quando mi portava con lui dappertutto e ovunque andasse; fosse allo stadio a vedere il suo Milan; al Poetto coi suoi amici; a ballare in provincia a caccia di donne che, insieme ai motori, erano la sua passione); e quando, poco più che ventunenne se ne andò di casa, aprendo una gioielleria tutta per sé io,  nei mesi estivi, andavo  a  fargli compagnia, più per dargli un aiuto psicologico che un aiuto pratico.
Nell’autunno del 1969, alla ripresa dell’anno scolastico 1969-1970, che mi vedeva approdare alla seconda classe,  forte di una promozione a giugno,  con encomio personale da parte del Preside prof. Antonio Mattu,  gli scioperi ripresero più chiassosi e virulenti che mai.
Io stavo ancora a guardare e preferivo entrare a scuola per i motivi che ho già spiegato.
C’erano gli studenti di quarta e di quinta che organizzavano gli scioperi e i cortei.
All’ingresso i picchetti avevano lasciato il posto al semplice volantinaggio. Chi voleva poteva entrare. Ma anche a quelli che entravano per fare lezione venivano consegnati dei volantini in ciclostile.
Come avrei scoperto più avanti (quando mi toccò di sostituire gli organizzatori già licenziati) il ciclostile era una macchina che,  all’apparenza, può essere assimilata alle attuali macchine fotocopiatrici (che allora non esistevano; o magari erano troppo costose per gli studenti). Il ciclostile consisteva in pratica in un motore a rullo, azionato da una manovella. Tu preparavi un dattiloscritto (foglio battuto alla macchina da scrivere, per intenderci con quelli più giovani, con l’aggiunta di qualche slogan in caratteri manoscritti) con i tuoi proclami; poi lo posizionavi sul rullo del ciclostile che, imbevuto di inchiostro, ne riproduceva i caratteri, trasmettendoli ai fogli che in sequenza circolare venivano spinti e pressati sul rullo tramite l’azione di una manovella. Potevi così stampare, in poco meno di un’ora, migliaia di volantini, che venivano distribuiti, come già detto, all’ingresso degli istituti superiori della città capoluogo.
Il contenuto di questi volantini (che dovevano portare obbligatoriamente la dicitura “ciclostilati in proprio” per evitare rogne con la censura e con la legge sulla stampa) inneggiava regolarmente  all’unione degli studenti medi e universitari con le forze operaie,  contro la borghesia italiana e il capitalismo internazionale; poi dovevano contenere gli appuntamenti del giorno, con i diversi cortei che si concludevano, attraverso degli snodi fondamentali nei diversi istituti superiori cittadini o davanti alla sede della Provincia (responsabile della inadeguatezza dell’edilizia scolastica) oppure davanti al Provveditorato agli Studi  oppure, infine,  alla Facoltà di Lettere. Infatti in quella Facoltà c’era il centro nevralgico degli intellettuali di sinistra, la famosa macchina per ciclostilare i volantini e la sede della Casa dello Studente (con annessa la Mensa).
A scuola, all’inizio di ottobre, ritrovai lo stesso ambiente che ricordavo dall’anno precedente: gli assembramenti al cancello di ingresso, che spesso non si scioglievano,  perché in molti aderivano agli scioperi estemporanei proclamati in loco, oppure già programmati a più alti livelli il giorno prima; la compravendita di libri usati, la consegna dei ciclostile all’ingresso.
In quel secondo anno la classe era in parte cambiata nella sua composizione. Anche allora infatti, in Sardegna, la forte dispersione scolastica faceva sì che di una classe prima, ne arrivassero in seconda appena la metà; e di una seconda ne arrivassero in terza altrettanti, se non addirittura meno (in terza,  poi, avveniva una falcidia per altri motivi, come racconterò più avanti).
Non mancavano certo  le ragazze carine  che mi piacevano e alle quali,  però,  io non avrei mai trovato  il coraggio di dichiararmi; un po’ per la mia innata timidezza; un po’ per quei miei complessi di cui ho già parlato; inoltre vedevo la donna ancora avvolta in un aurea mistica, che ai miei occhi la innalzava sopra le cose terrene; non mi accorgevo che invece i tempi andavano in senso contrario; le donne stesse, per prime, volevano scendere da quel piedistallo e calarsi in una dimensione terrena e materiale dove potessero comportarsi come gli uomini, sia nel mondo della scuola, sia in quello del lavoro; e sia, soprattutto nelle relazioni sociali e affettive.
I professori erano, più o meno, gli stessi dell’anno precedente. E anch’io, come l’anno scorso, avevo un grande desiderio di farmi strada nella scuola, senza sentirmi dire che venivo a scuola per scaldare il banco (come gli insegnanti dicevano ai più indolenti tra noi) e di guadagnarmi la fiducia e la stima dei miei genitori.
Il 19 novembre gli uomini tornarono sulla Luna (con l’Appollo 12). Questo secondo allunaggio fece assai poco clamore rispetto al primo, avvenuto nel luglio dello stesso anno e seguito in TV praticamente da tutto il mondo. Anche a me l’impresa aveva entusiasmato e sognavo già che l’uomo, nel giro di pochi decenni, potesse conquistare il Cosmo intero.
A Milano, il dodici dicembre, mentre quel 1969 volgeva quasi al termine, scoppiò una bomba che fece tredici  morti e molte decine di feriti.
Non era il primo fatto di sangue, né la prima bomba che scoppiava in Italia,  ma quella fece più clamore delle altre precedenti: primo perché scoppiò dentro una banca, in un giorno in cui vi si svolgevano delle contrattazioni; secondo perché la polizia, forse spinta da una campagna di stampa fuorviante, arrestò quelli che da subito erano stati indicati come i colpevoli: gli anarchici di Milano.
In particolare ricordo bene due episodi legati a questo terribile fatto di sangue che sicuramente ha cambiato in peggio le sorti e la storia della nostra Italia: il primo è che venne arrestato subito un certo Pietro Valpreda che solo dopo lunghissimi anni di persecuzioni giudiziarie e giornalistiche, venne pienamente scagionato; ma già pochi giorni dopo la polizia lo aveva messo in carcere; agli occhi dell’opinione pubblica la sua colpa era quella di essere un ballerino, separato e anarchico (mio padre ne approfittò per enunciare che tutti i ballerini maschi, o presunti tali, i separati e gli anarchici dovevano finire prima alla gogna e poi in carcere a vita); il secondo episodio collegato alla strage di Piazza Fontana che io ricordo assai bene fu la morte di Pinelli, caduto dal quarto  piano della Questura di Milano durante un interrogatorio.
Negli ambienti della controinformazione cominciarono a circolare certe voci che, attraverso i ciclostile, i volantini, la stampa alternativa  ed il passa parola, arrivarono anche sino a noi studenti delle prime classi, alquanto disinteressati alle questioni politiche.
Le voci dicevano che Pietro Valpreda era un capro espiatorio degli apparati dello Stato che, invece, avevano armato la destra estremista, cioè i fascisti (a quel tempo vi erano infatti due ali estreme allo schieramento politico presente in Parlamento: i gruppi dell’estrema sinistra e quelli dell’estrema destra che, nelle piazze e nelle strade, se le davano di santa ragione; i primi agivano sotto svariate etichette che si chiamavano “Lotta Continua”, “Potere Operaio”; “Servire il popolo”; “Maoisti-leninisti” e altre che non ricordo; dei secondi ricordo “Ordine Nero” e “Prima Linea”); dicevano anche che Pinelli non era scivolato dalla finestra, né tantomeno egli si era gettato di sotto, in preda al pentimento e alla paura per avere messo le bombe, ma che erano stati i poliziotti che lo interrogavano, minacciandolo di buttarlo di sotto se non avesse confessato, a farselo sfuggire di mano, causandone così la morte. Un nome comparve come colpevole di questo orrendo delitto nei ciclostile e nei volantini della controinformazione: il commissario Calabresi.
Tra i mandanti della strage vennero indicati i nomi di Andreotti (forse all’epoca ministro dell’Interno e addirittura Premier) e quelli dei capi dei servizi segreti civili dello Stato (i famigerati DIGOS e  SISDE).
La stagione dei veleni e delle stragi cominciò in quel disgraziato 12 dicembre 1969.
Anche se io all’epoca non avevo per niente le idee chiare su quanto era accaduto e su chi avesse ragione tra la destra, la sinistra e il centro democristiano.
In Medio oriente Golda Meir e Arafat si fronteggiavano superbamente; Dubceck veniva dimissionato in Cecoslovacchia dalle mire imperialistiche dell’Unione Sovietica; Fanfani,  con l’appoggio della gerarchia vaticana, organizzava il referendum suicida dei democristiani contro l’introduzione del divorzio in Italia.
Battisti cantava “Fiori rosa, fiori di pesco”; Lucio Dalla “Occhi di ragazza”; Domenico Modugno “La lontananza”.
Il Cagliari Calcio, grazie alle reti strepitose del grande Gigi Riva, vinceva il suo primo e unico scudetto.
Trovi il   testo integrale di Memorie di scuola di Ignazio Salvatore Basile on line(c/o Mondadori store, Feltrinelli, IBS, Libreria Universitaria, Amazon ecc.) anche in cartaceo oppure in libreria il volume edito da Youcanprint ISBN 9788827845486. Il romanzo è disponibile anche in formato e-book nel sito della casa tramite il link sottostante.


4.19.2019

Venerdì Santo


Grazie Signore Gesù
Per essere venuto in mezzo a noi
A dimostrarci che si può vivere
Senza l’assillo del potere
Senza il miraggio del danaro
Senza la brama della carne!
Grazie Signore Gesù
Che Ti sei degnato
Di vestire panni di Uomo
Mostrandoci che si può
Essere offesi
Senza reagire minacciando
Derisi senza deridere
Colpiti senza odiare
E perdonando!
Come potremo mai dimenticarTi
Tu, che hai accettato
Di caricarTi le nostre colpe
E di morire per la nostra salvezza?
Grazie Signore Gesù
Che ci hai donato la speranza
Nella vita eterna!



4.14.2019

Memorie di scuola



Capitolo Ottavo
Le Scuole superiori
Prima Ragioneria
Anno scolastico 1968-69
La brillante prova di settembre confermò nei miei genitori la volontà di farmi proseguire negli studi.
Certo il liceo classico me l’ero giocato con il comportamento da scansafatiche messo in atto nel precedente anno scolastico; ma non mi andava neppure di seguire il suggerimento del consiglio di classe che, sin da giugno, aveva raccomandato, in caso di promozione, l’iscrizione alla scuola professionale.
Mia madre non aveva rinunciato alla speranza di vedermi all’università, mentre mio padre sperava di fare di me almeno un contabile per la sua azienda che, con le sue fondate e legittime ambizioni, sognava ancora di ingrandire e potenziare.
Io, dal canto mio, speravo di dimostrare che in matematica non ero poi così scarso e che ero stato ingiustamente penalizzato dal mio carattere irrequieto (e, secondo mia madre, dalla piccineria e dalla mala fede di quel docente, aspirante acquirente di oggetti preziosi rateizzati).
Fu raggiunto così un compromesso che sembrava accontentare tutti: sarei stato iscritto alla Ragioneria.
A quel tempo, nel 1968, per chi dal mio paese volesse frequentare un Istituto Tecnico Commerciale per Ragionieri e per Periti Commerciali (come recitava la pomposa definizione amministrativa delle scuole per ragionieri), doveva recarsi obbligatoriamente a Cagliari. La scuola per ragionieri di Decimomannu, dove poi, ironia della sorte, avrei insegnato discipline giuridiche ed economiche per oltre trent’anni, sarebbe sorta soltanto nel 1983, mentre Sanluri e San Gavino sarebbero state delle sedi ben più distanti e scomode  rispetto al capoluogo.
Mia madre mi portò personalmente all’Istituto Pietro Martini, che a Cagliari godeva fama di essere il migliore per formare gli esperti della contabilità.
Ma al Martini non c’era posto e non accettarono la mia iscrizione, in quanto tardiva. Occorre infatti ricordare che a quel tempo l’obbligo scolastico finiva ai quattordici anni e quindi, a gennaio dell’anno scolastico di provenienza, non era obbligatorio per i genitori effettuare un’iscrizione, né per gli istituti superiori accettare le iscrizioni dei ragazzi che frequentavano la terza media. Adesso le cose sono alquanto cambiate, essendo stata elevata a sedici anni l’età dell’obbligo di frequenza scolastica.
Al Martini, con aria di sufficienza, ci dissero che forse al “Leonardo da Vinci” ci sarebbe stato un posto per me (ho scoperto da poco che il pomposo Martini,  ha dovuto sloggiare dalla sua sede storica di via Sant’Eusebio per trasferirsi in viale Ciusa 4, dove un tempo c’era proprio  il Leonardo da Vinci, oggi accorpato ad altri istituti tecnici per ragionieri).
Al Leonardo da Vinci per fortuna il posto per me c’era. Così venni iscritto in quella scuola.
Il Leonardo da Vinci era sorto successivamente al Martini,  in un’area di forte espansione urbanistica, ancora in agro di Cagliari, ma con vocazione a servire gli utenti del popoloso hinterland cagliaritano: la popolosa frazione di Pirri (che da sola contava, sin da allora, oltre  30.000 abitanti); Monserrato, che aveva riacquistato l’autonomia amministrativa dopo i rigori del fascismo, che l’aveva declassato a frazione di Cagliari; Quartu S.Elena, che si avviava a divenire la terza città più abitata della Sardegna (dopo Cagliari e Sassari e prima di Nuoro e Oristano).
In quegli anni,  sulle ali del boom economico, il nuovo tessuto commerciale che si era costituito nella nostra Isola (come, ovviamente e ancor di più, nel resto d’Italia) e la voglia di riscatto sociale delle generazioni sopravvissute al Fascismo e alla Seconda Guerra Mondiale, avevano fatto crescere la domanda di una istruzione utile e concreta, con un titolo di studio capace di fornire uno sbocco professionale immediato senza l’obbligo di proseguire negli studi universitari (come era al tempo per quegli studenti che frequentavano  i licei). E la figura professionale del ragioniere, così ricca di storia e di fascino, sembrava incarnare l’ideale della nuova classe sociale di commercianti e artigiani, che sognavano per i loro figli, una carriera in banca o in ufficio, con il colletto bianco,  le mani pulite e lo stipendio sicuro. Professione oggi purtroppo tramontata, come dimostrano impietose le statistiche del ministero della pubblica istruzione, favorevoli ai licei, da quelli classici, artistici  e scientifici, ai più moderni linguistici, pedagogici  e musicali. Qualcuno li chiama i corsi e i ricorsi della storia.
Ma  all’orizzonte si addensavano delle nuvole cupi e dense: il sessantotto stava per arrivare.
Dopo alcuni giorni, infatti, trovammo l’ingresso presidiato dai picchetti degli studenti scioperanti che impedivano l’accesso a qualunque studente, lasciando passare soltanto i docenti che non fossero già entrati con l’auto attraverso il carraio.
Le parole d’ordine che giravano tra gli studenti erano diverse e alle mie orecchie di studentello di primo pelo, suonavano quasi come oracoli di una divinità lontana e misteriosa. Alcuni sembravano anche semplici, nella loro formulazione: “Diritto allo studio”; “Scuola per tutti“; altri erano rivestiti di un’aurea quasi mitica:”Fuori i baroni dalla scuola” (più tardi scoprii che lo slogan era rivolto all’università e che il barone Siviller, che al mio paese era stato degradato dai Savoia al loro arrivo in Sardegna, all’inizio del ’700, colpevole soltanto di essere da sempre fedele ai sovrani iberici, non c’entrava per niente); “Assemblea Permanente”; “Potere Operaio”; “Lotta Continua”; “Morte ai fascisti”; “Boia chi molla“.
Insomma gli slogans che si urlavano fuori dalla scuola erano tanti e per me, tutti, o quasi tutti, ancora incomprensibili.
Venivano anche distribuiti dei volantini in ciclostile.
Io li leggevo con curiosità. Mi piacevano quelle cose che c’erano scritte e che parlavano dei grandi sistemi con roboanti paroloni; conobbi così le grandi correnti di pensiero nazionale ed internazionale: il capitalismo sfruttatore degli Agnelli; il colonialismo degli USA invasori; il libretto rosso di Mao; la riscossa di Ho-Chi-Min; le speranze rosse, bruciate con Ian Palach nella primavera di Praga.
I miei idoli giravano in Eskimo con il giornale di Lotta Continua sotto il braccio (qualcuno aveva Potere Operaio).
Per soggezione o non so per quale altra ragione decisi che per me era giusto aderire allo sciopero.
Più che capire intuivo, forse con un istinto primordiale,  che il mondo era più complesso di come me lo avevano descritto al Catechismo; o di quello che avevo studiato nei miei recenti trascorsi scolastici.
Intuivo che vi erano degli oppressi e degli oppressori; dei ricchi privilegiati e dei poveri,  condannati a subire dalla nascita modesta; dei poteri, più o meno occulti, che sfruttavano e godevano le ricchezze del mondo, approfittando dell’ignoranza delle masse indistinte, degli oppiati della religione, di quelli che non capivano i meccanismi complessi del potere; e vi era gente che non si rassegnava e voleva lottare per un mondo migliore.
Ed io volevo appartenere a quelli che avrebbero lottato per un mondo migliore.
Ero davvero  affascinato dai grandi oratori (quelli delle classi superiori) che arringavano noi matricole delle prime classi e tutti gli altri studenti, alla ribellione e allo sciopero.
Nel mio intimo pensavo che un giorno avrei anche io desiderato essere un leader di quel genere ed avere il coraggio di parlare in pubblico, ad alta voce e di organizzare i cortei per la città contro il sistema, contro i corrotti democristiani, contro la guerra nel Vietnam, contro il perbenismo, contro i fascisti, contro le classi sociali, contro il capitalismo che sfruttava gli operai e bruciava il futuro dei giovani.
Insomma, contro tutto e contro tutti. Io facevo miei quegli slogan urlati al megafono e stampati nei volantini.
Tanto per cominciare e per vincere la mia timidezza (nonché  per consentire ai miei genitori di risparmiare sull’acquisto dei libri) mi cimentai nella compravendita dei libri usati.
Avevo ancora tanto da fare e da studiare per diventare come loro. E se volevo un domani essere ascoltato dagli altri, anche io dovevo progredire negli studi.
Andò avanti così per qualche giorno fino a quando alcuni signori  (più tardi capii che si trattava di agenti della Digos in borghese), spiegarono agli studenti che facevano servizio di picchetto al cancello, che avrebbero dovuto lasciare libero l’ingresso e consentire a chi non avesse voluto aderire allo sciopero, di entrare a scuola.
Anche se, a onor del vero, per non rischiare di venire scambiato per un fascista o, peggio ancora, di venire considerato un boia, attesi prima di rientrare che un buon numero di studenti, vecchi e nuovi, fosse deciso a interrompere la protesta, con la promessa che il Preside avrebbe concesso un certo numero di assemblee per poter discutere i problemi della scuola e di noi giovani studenti, se avessimo ripreso prontamente  la frequenza (che per noi “primini” non era invero mai iniziata).
Così scoprii finalmente la mia classe. Si trattava di una prima super affollata. Eravamo oltre trenta, per lo più di sesso femminile. i miei compagni e le mie compagne venivano quasi tutti da Quartu S.E., da Pirri (che, precisavano i Pirresi, è come se fosse Cagliari; anzi “Pirri è’ Casteddu!), Selargius, Monserrato.
Le ragazze avevano ancora l’obbligo del grembiule nero, con il nome e la classe cuciti in alto destra, mentre noi ragazzi, al contrario di quelli del Martini (costretti a recarsi a scuola in giacca e cravatta), non avevamo alcun obbligo di forma nel vestire (l’obbligo sarebbe caduto anche per le ragazze, di lì a poco, quantomeno nel nostro istituto).
Mi ero già affezionato a questa classe allegra e rumorosa; mi ero già innamorato (senza che loro ne sapessero niente) di tre o quattro compagne e di una o forse due professoresse particolarmente giovani e carine. Mi piacevano inoltre le lezioni di italiano, di storia, di inglese; un po’ meno quelle di fisica e matematica, mentre mi affascinarono subito la dattilografia e la stenografia (che più tardi, ma io ero già passato dall’altra parte della barricata,  sarebbero state soppiantate dal “trattamento testi” e, più tardi ancora, sino ai nostri giorni, dall’informatica); mi risultò invece ostica la computisteria, che negli anni successivi si trasformava in “tecnica”, e tale antipatia durò per tutti e cinque gli anni e si estese anche alla “ragioneria” (le due materie, oggi, si studiano  unificate sotto il nome di “economia aziendale”).
Presto però arrivò la notizia che alcuni di noi sarebbero stati trasferiti e smistati in altre classi di nuova formazione e che un certo numero di classi avrebbe iniziato, con il sistema della rotazione, il doppio turno.
Ci fu spiegato infatti, in maniera alquanto sommaria e sbrigativa, che le aule non erano sufficienti ad ospitare tutti gli iscritti, dato l’alto numero dei nuovi studenti, e quindi, per evitare classi troppo numerose (più tardi si sarebbero definite “classi pollaio”) avremmo dovuto alternarci nella frequenza pomeridiana, dalle 14,30 alle 19,30. Tale turno avrebbe riguardato ciascuna classe, ma soltanto per uno, massimo due mesi, all’anno.
Più avanti negli anni successe invece che alcuni corsi venissero destinati a frequentare di pomeriggio tutto l’anno scolastico.
A parte il sonno, che mi assaliva nei pomeriggi di caldo (da marzo a giugno,  grosso modo) non mi potevo e non mi volevo lamentare. D’altronde, potevo stare a letto un po’ di più al mattino, per evitare di addormentarmi sul banco di scuola (cosa che in verità non mi è mai accaduta).
Imparai con piacere tante cose: la stenografia, magica materia ormai scomparsa, la dattilografia, che ha dovuto lasciare il posto alla più complessa e misteriosa informatica; le scienze naturali, la geografia, la matematica, la fisica, la chimica, la computisteria e il francese. Ma le mie materie preferite erano la storia e l’italiano, dove in qualche modo, mi distinguevo. Anche merito della mia professoressa che nel biennio era la moglie di un alto magistrato cagliaritano, molto amorevole, paziente e capace.
La scuola mi piaceva. Ammiravo, in generale, tutti i professori e pendevo dalle loro labbra. Ero assetato di sapere e alle spiegazioni stavo sempre attento, perché volevo apprendere e non mi piaceva essere rimproverato.
Così mi misi a studiare.
A fine anno il preside mi regalò un dizionario di Oxford come premio per essere stato promosso a giugno.
Nonostante le mie idee rivoluzionarie ero ancora un bravo ragazzo.
Nel corso dell’anno, questi scioperi sembravano ricorrenti, a ondate. Sui muri di fronte alla scuola apparvero delle scritte che inneggiavano al Movimento Studentesco e chiedevano di   liberare il Vietnam dagli USA.
I più attivi tra gli studenti giravano con un giornale sotto il braccio che si chiamava Lotta Continua.
Io li invidiavo perché portavano i capelli lunghi, vestivano alquanto trasandati e sembravano piacere a certe ragazze carine che io non osavo nemmeno guardare.
Io già da allora cominciavo a soffrire di quegli inevitabili complessi che colpiscono, in misura più o meno evidente, tutti gli adolescenti.
Il mio complesso più grande, in quel primo anno,  era la mia statura. Non che fossi proprio “piccolo” (avevo probabilmente già raggiunto il metro e sessanta) ma è probabile che questo complesso ne nascondesse degli altri; ma io desideravo tanto essere uno di quegli spilungoni che giravano con il giornale di Lotta Continua sotto il braccio e che rimorchiavano sulle loro motociclette quelle ragazze appariscenti che io sognavo di notte. Così, per sentirmi più grande e più alto, presi a fumare regolarmente le sigarette che riuscivo a comprare coi pochi soldi della mia paghetta (magari rinunciando al panino della ricreazione).
Una sera di autunno, guardando alla lavagna, mi accorsi che non riuscivo più a leggere  nella  lavagna (un’altro dei miei escamotages per sentirmi più alto era stato quello di sedermi nell’ultimo banco; infatti gli insegnanti, sin dal primo girono di scuola, non avevano fatto altro che ripetere che i ragazzi più bassi si sarebbero dovuti sedere al primo banco).
Mia madre mi portò subito dall’oculista per una visita: la diagnosi cadde su di me impietosa come una mannaia; ero affetto da miopia ed avrei dovuto mettere gli occhiali.
Mio padre, senza perdere tempo, mi portò nel negozio di Franz, in via XX settembre (il negozio esiste ancora nella città di Cagliari). Scelsi gli occhiali più economici perché non mi andava che mio padre spendesse dei soldi per me. E naturalmente non seppi scegliere quelli più adatti al mio viso.
Gli occhiali furono per me un vero e proprio trauma che ho superato soltanto in tardissima età. Io, abituato a fare a botte con tutti; a tuffarmi nel fiume; a correre come un disperato dappertutto, come avrei fatto a sopportare quel corpo estraneo? Questo nuovo complesso si sommò a quello precedente rendendomi sempre più cupo e più scuro di carattere.
Intanto Nixon veniva eletto presidente degli Stati Uniti d’America. Io lo conobbi attraverso una scritta che comparve in un muro adiacente alla scuola. Vi era scritto “Nixon boia”.

A mio padre gli Americani non piacevano per niente (forse questo era un retaggio della seconda guerra  mondiale, prima dell’Armistizio del 1943, quando l’Italia e gli USA combattevano ancora su fronti contrapposti e lui fu mandato in Sardegna a difendere certi siti minerari, che il regime considerava strategici per l’economia dell’Italia in guerra, proprio dai raid aerei  che i caccia bombardieri americani cominciarono  a fare sin dal 1942).
Ma  i capelloni, gli anarchici, i comunisti, i preti che si vestivano alla moda, le donne in minigonna, le femministe e le donne in cerca di emancipazione, le prostitute e gli omosessuali a mio padre piacevano ancora meno.
Per cui maledì diecimila volte i giudici della  Corte Costituzionale quando, sul finire del 1968,  sentenziarono che era ingiusto considerare il reato di adulterio in maniera differente, a seconda che a commetterlo fosse  un uomo oppure una donna.
Naturalmente mia madre fu invece d’accordo coi giudici della Consulta.
Fu allora  che mio padre cominciò a maledire la democrazia (e il partito Democrazia Cristiana che più di tutti sembrava incarnare la nuova frontiera della conquista delle libertà;  anche se a riguardo  della parità tra uomini e donne inveiva maggiormente contro i socialisti e i comunisti) e cercò di convincere mia madre a votare il Movimento Sociale Italiano.
Ma mia madre restò sempre fedele alla Democrazia Cristiana e si rifiutò con determinazione  di votare a destra, anche se mio padre, in molte occasioni, ripeteva che la Destra avrebbe portato ordine, disciplina, carceri dure, capelli corti e treni in orario.
Forse fu allora che io cominciai a prendere in considerazione delle idee nuove e diverse da quelle che sembravano dividere i miei genitori;  idee che si andavano allora diffondendo e che andavo imparando anche a scuola, attraverso il confronto con i miei insegnanti e con i libri di scuola.
Molte persone, soprattutto tra i giovani, sono convinte che il ’68 sia stato un gran botto di cannone, i cui echi si sentono ancora nell’aria, come una canzone che ci ricordi i bei tempi andati.
In realtà il ’68, almeno qui a Cagliari (e più in generale in Italia) è stato soltanto l’inizio di un lungo e sofferto cammino che i giovani della mia generazione (e quelli di qualche anno più grandi di me) hanno percorso e vissuto attraverso diverse tappe; un decennio terribile, iniziato nella gioia e nei colori del ’68 (che, a sua volta, affondava le sue radici nella rivoluzione dei figli dei fiori di San Francisco e dintorni, della metà degli  anni sessanta, poi diramatosi in mille rivoli, a Berkeley, a Seattle, a Woodstock) e sviluppatasi negli anni successivi nelle lotte politiche e nei movimenti della sinistra extra-parlamentare, per sfociare infine nelle sanguinarie azioni dei gruppi armati, la cui deriva politica e storica, può farsi  risalire al rapimento e alla barbara uccisione dell’onorevole Aldo Moro (1978), la vittima innocente, l’agnello sacrificale, il capro espiatorio di una classe politica cinica e corrotta che ha segnato un’epoca.
A giugno, come già detto,  fui promosso a pieni voti. I miei genitori, un po’ per premio, un po’ perché la mia sorella maggiore era incinta del suo primogenito ed aveva bisogno di aiuto,  mi mandarono nel Canavese, ove essa risiedeva dopo essersi sposata due anni prima.
Mia sorella aveva spostato un uomo più grande di lei di una ventina d’anni. Io avevo assistito alla nascita del loro amore. Si erano conosciuti infatti nella spiaggia di Venetico Marina (che poi è anche la marina di Spadafora, il paese dove si erano  trasferiti alcuni di noi, nella speranza che attecchisse una certa idea imprenditoriale di mio padre, che nonostante l’interessamento del suo amico sig. Pipo non andò invece avanti) nell’estate del 1967. Mia sorella, che non godeva di una grande salute ed aveva avuto in gioventù una delusione amorosa, ci aveva raggiunto in estate e così ne approfittava per fare un po’ di mare insieme a noi. Fu lì, nella spiaggia, come dicevo, che conobbe il mio futuro cognato. Nell’autunno di quello stesso anno, vennero celebrate in Sardegna le loro nozze. Mio padre e mia madre vollero una festa in pompa magna, come si usava allora nei paesi della Sardegna. Tre giorni di banchetto a base di ravioli di ricotta, maialetto arrosto, pesci di Cabras, contorni di verdura fresca,  frutta e fiumi di vino rosso, birra e  aranciate.
Dopo il matrimonio avevano avviato nel Canavese un’attività imprenditoriale (che oggi verrebbe definita di agriturismo) molto redditizia.
A pochi chilometri da San Giorgio Canavese, in aperta campagna, su un appezzamento di terreno dalla estesa superficie,  avevano costruito un laghetto artificiale,  nel quale avevano allevato degli avannotti di trota.
I clienti arrivavano da Torino, da Chivasso, da Ivrea e da tutto il circondario. Mio cognato gli forniva canna da pesca, esca e secchio. I villeggianti provavano così l’ebbrezza di pescare personalmente le proprie trote e, dopo le foto di rito, la pesata e il pagamento del prezzo concordato se ritornavano a casa, prodi e fieri. Ad assistere i novelli pescatori mio cognato veniva aiutato da un suo fratello, sig. Francesco, un commerciante di verdure che lo raggiungeva al “Laghetto del Sole” (così si chiamava l’attività turistica di mia sorella) la domenica, quando la sua postazione al mercato civico di Porta Nuova era chiuso.
 Non pochi avventori e novelli pescatori però decidevano di fermarsi a mangiare sul posto. All’uopo mia sorella aveva organizzato un servizio di ristorazione in cui veniva aiutata dalla cognata sig.ra Natala (moglie del sullodato sig. Francesco). Mio cognato arrostiva le trote alla griglia, insaporendole col samoriglio (un misto di acqua, olio d’oliva, aglio, origano siciliano  e sale)  ch’egli spargeva sull’arrosto con solenni gesti della mano, impugnando delle bacchette di origano che immergeva nel samoriglio, picchiettando con misurata energia i pesci sulla griglia, per poi girarli di seguito, e così di seguito sino alla cottura.
Nel frattempo io e la figlia di sig. Francesco e di sig.ra Natala, una ragazza molto carina e simpatica di nome Anna Maria che, come me, era una semplice volontaria (mentre i suoi genitori venivano retribuiti a giornata) avevamo provveduto ad apparecchiare la tavola sotto un pergolato adiacente al laghetto, ove gli avventori avrebbero gustato, al fresco e comunque al coperto, i gustosi cibi che noi stessi, improvvisati camerieri,  avremmo ritirato in cucina dove spadroneggiavano invece le due cognate.
Andò avanti così, tutta l’estate. Quella era la mia vacanza. I giorni feriali si lavorava poco ma i fine settimana mia sorella (era lei la cassiera; a lei mio cognato consegnava anche i soldi del pescato) arrivava ad incassare parecchie centinaia di migliaia di lire.  Io non stavo lì a contare, ma dato il movimento che c’era presumo che qualche fine settimana arrivasse ad incassare più di un milione di lire. E allora erano soldi davvero.
I clienti erano assai generosi con me e con Annamaria. A fine serata ci dividevamo un bel po’ di mance. Incredibilmente (col senno di oggi) mia sorella pretendeva che io consegnassi a lei i soldi delle mie mance. Ma non doveva faticare molto. Io glieli davo di buon grado. In questo debbo averne preso da mio padre che era un uomo alquanto disinteressato e poco attaccato al denaro. Al punto che, come avrò modo di narrare, quando arrivò il momento di andare in pensione regalò la gioielleria ad uno dei miei fratelli con la sola promessa che pensasse a due fratelli più piccoli che gli aveva affidato per avviarli alla professione di commerciante (anche a me il mio generoso papà voleva regalare l’altra sua gioielleria ma io non la volli poiché intendevo proseguire gli studi sino alla laurea, come poi in effetti feci, ma restò sempre vivo in me il grande gesto di mio padre). Anche mia madre era supergenerosa, tant’è che io non capivo (e non capisco neanche oggi) da chi ne avesse preso questa mia sorella che, anziché pagarmi per il lavoro che svolgevo (oltre che il cameriere svolgevo dei lavoretti di semplice artigianato e assistevo i pescatori al mattino, prima dell’ora di pranzo) pretendeva che io le consegnassi le mance generose che i clienti mi lasciavano.
Un giorno che le chiesi delle spiegazioni, sul perché pretendesse le mie mance,  mi rispose che io consumavo le batterie della sua radiolina Panasonic (in effetti passavo i pomeriggi ad ascoltare Renzo Arbore e Gianni Boncompagni che conducevano il programma “Alto Gradimento”), mangiavo a pranzo, cena e colazione e bevevo  a scrocco quelle gustose bibite al gusto di arancia e limone destinate invece ai suoi clienti.
Quando a settembre nacque il loro primogenito Alessandro mi raggiunsero i miei genitori e poi tornammo indietro tutti e tre in Sardegna, in tempo per l’inizio dell’anno scolastico 1969-1970.
Ma questo fa già parte di un’altra storia.

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4.02.2019

Sulla legittima difesa


Il 28 marzo appena scorso il Senato, a grande maggioranza, ha approvato in via definitiva la legge di modifica delle norme sulla legittima difesa che adesso è legge dello Stato (entrerà in vigore trascorsi i 15 giorni canonici dalla pubblicazione della legge sulla Gazzetta Ufficiale).
La materia è alquanto complessa. Si pensi che sin dai tempi remoti i cultori del diritto si erano posti il problema di bilanciare gli opposti interessi in gioco, arrivando a coniare il noto brocardo, a noi tramandato dalla tradizione, secondo cui l’aggredito “ non habet staderam in manu”, proprio per sottolineare la difficoltà di misurare la risposta alla violenza perpetrata dal reo nei confronti della vittima aggredita che si trovi a reagire.
Oltre alla complessità giuridica, si rileva nel dibattito odierno la presenza di elementi di natura psico-sociologica che rendono più ardua l’analisi e il giudizio sulla nuova legge di modifica degli artt. 52-55 del codice penale, deputati alla scriminante in oggetto.
Anzi, diciamo subito che se non si considerano appieno questi elementi psico-sociologici, non si riesce a inquadrare correttamente il dibattito.
Cominciamo col dire che i cittadini italiani, soprattutto in questi ultimi trent’anni, si sono sentiti progressivamente abbandonati dallo Stato. Essi hanno inoltre progressivamente perso ogni fiducia nella giustizia.
Questo sentimento di sfiducia e di abbandono sono alla base delle nuove norme. Non è questa la sede adatta per discettare sulle ragioni storiche che hanno prodotto negli italiani questi sentimenti di abbandono e di sfiducia. Ma è su questi sentimenti che hanno fatto leva i furbacchioni della politica, sempre alla ricerca del consenso, costi ciò che costi.
Chi non ha mai sentito la vulgata secondo cui gli extracomunitari sceglierebbero l’Italia, come meta privilegiata, proprio per la fragilità dell’apparato poliziesco e per il lassismo dell’apparato giudiziario che, secondo tale vulgata, è incapace di reprimere i reati (e la vulgata, al di là delle solite italiche e nostalgiche esagerazioni, non è scevro da verità incontestabili).
Il nostro apparato giudiziario e il nostro sistema repressivo fanno acqua da tutte le parti: una miriade di leggi, contraddittorie e complesse, che si sovrappongono e che sembrano fatte apposta per favorire gli azzeccagarbugli di turno (ormai i bravi avvocati, non sono più i grandi oratori alla Cicerone, ma i filocavillosi alla Ghedini, per intenderci); apparati di polizia giudiziaria sottopagati e sottodimensionati; carceri eternamente sovraffollate e scuola di delinquenza, più che di riabilitazione; e fermiamoci qui per carità di patria.
E in questo humus sociale che si inserisce la nuova legge sulla legittima difesa. La gente si è stancata di vedere gli impuniti e i delinquenti trionfare e le vittime soffrire e pagare.
O forse qualcuno molto abilmente è riuscita a distogliere la sua attenzione dal vero problema: la gente non ne può di uno Stato comandato da politici cialtroni e corrotti che si alleano con la mafia (più romana che siciliana, ma non fa differenza; sempre di mafia parliamo) per continuare a mungere e a sfruttare la vacca.
Questo è il vero cancro dell’Italia: le istituzioni corrotte, i pronto soccorso superaffollati, le scuole che letteralmente crollano a pezzi, una pressione fiscale feroce con i deboli (pensionati, dipendenti e piccoli imprenditori) ma pavida e generosa con i grossi evasori.
Ma qualcuno è riuscito abilmente a distogliere la gente dai veri problemi e gli ha indicato dove guardare per trovare un capro espiatorio: il migrante e il topo d’appartamento, ovvero l’extracomunitario ladruncolo e topo d’appartamento (non che i topi d’appartamento, italici o esotici che siano, non siano una piaga; ma credo che sia una piaga ben più dolente la classe politica italiana che, dopo il terremoto di “Mani pulite” è risorta più arrogante e incapace di prima, e sta portando l’Italia allo sfascio).
E’ a causa di questo sentimento di sfiducia e di abbandono che l’Italia si è sentito di colpo in balia del male: degli spacciatori che scorrazzano indisturbati (ma ci voleva molto a legalizzare almeno la marihuana per assestare un colpo alle mafie che trafficano con le tonnellate di hashish e di erba?); gli immigrati clandestini fatti entrare in suolo a frotte, nelle piazze, a far niente (nella migliore delle ipotesi): ma era così difficile fare una vera accoglienza, che prevedesse un impiego proficuo e socialmente utile, invece di consentire questi sbarchi indiscriminati, utili a favorire le cooperative di accoglienza per migranti degli amici degli amici?
E un poliziotto in ogni quartiere, a disposizione e a protezione della gente onesta? E delle leggi chiare e precise che assicurassero i ladri e gli scippatori alle patrie galere, invece di riempirle di piccoli spacciatori e di immigrati clandestini magari inoffensivi?
Questo è l’umore sociale che ha spinto la nuova legge sulla legittima difesa .
Uno Stato efficiente non avrebbe mai avuto bisogno di una simile legge.
Nessuno si è accorto che l’approvazione di questa legge è in realtà un’ammissione di colpa da parte dei nostri politici?
Questa legge è la prova più evidente del fallimento dei nostri politici. Son loro che hanno ridotto così l’Italia. E adesso ci vorrebbero far credere che sono i nostri salvatori, approvando leggi del genere?

Adesso che è chiaro come e perché è nata questa legge, possiamo anche passare a una rapida disamina della sua struttura portante.
Concordo, anche se solo in parte, con il parere negativo dato dai colleghi penalisti.
Mi pare tuttavia interessante, proprio in virtù del vecchio adagio che ricordavo in apertura, la previsione di una maggiore elasticità a favore dell’aggredito, soprattutto quando egli sia sorpreso da dei malintenzionati, in casa sua, di notte, e magari in presenza di figli in casa.
Senza volere resuscitare la sacralità e l’inviolabilità della proprietà privata, già sancita dallo Statuto Albertino di ottocentesca memoria, direi che una maggiore considerazione in favore delle persone oneste ci sta tutta, in una società che, come ho avuto di descrivere prima, ha finito con il favorire i delinquenti e malintenzionati (sempre a causa di una gestione superficiale e allegra del fenomeno da parte dei nostri politici, probabilmente affaccendati in tutt’altre faccende, diverse dalla gestione oculata del pubblico benessere).
Un’altra cosa da guardare con favore è la non risarcibilità in favore dei parenti delle vittime che, all’esito dell’ istruttoria (sempre doverosa in caso di omicidio), siano risultate colpevoli di violazione di domicilio, commessa con arnesi da scasso e in possesso di armi atte a offendere al momento dell’intrusione (coltelli, armi da sparo o altri strumenti suscettibili di arrecare danno alle persone la cui residenza sia stata violata).


Ogni fattispecie va valutata comunque caso per caso, ma sempre con un rinnovato occhio di favore a vantaggio delle persone aggredite che, non lo si dimentichi, erano comunque tranquille in casa loro; mentre chi ha violato per primo lì’ordinamento giuridico è proprio il ladro che si intrufola, comunque con malanimo, in casa altrui.

In viaggio come un Pellegrino

  In questo ponte della Festa di tutti i Santi mi sono recato in pellegrinaggio a Roma con l'UNITALSI. L'itinerario prevedeva la vis...