1.28.2023

La Terza via - 15

 

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Di sopra lavoravano circa una dozzina di persone, tutti addetti alla catena di montaggio. Gli Egiziani, circa la metà del personale addetto,  si occupavano di una parte importante della catena di montaggio, provvedendo alla sistemazione  delle pizze nel nastro trasportatore, verificando che il pomodoro cadesse regolarmente e provvedendo a spalmarlo sulla pizza, mischiandolo con il conservante, tramite l’azione di un cucchiaione di metallo; successivamente aggiungevano il formaggio cheddar già grattugiato in precedenza e infine sorvegliavano che il cellofan avvolgesse correttamente le pizze nei due gusti previsti: plain pizza (l’equivalente della nostra  pizza margherita) e pizza ai peperoni.

Gli Egiziani  facevano gruppo a sé, sia in fabbrica, sia fuori,  ma con gli Italiani fu più facile fare amicizia. L’altra metà degli addetti alla catena di produzione che trovai di sopra era infatti costituita da Italiani di diversa provenienza.

1.24.2023

La Terza via - 13

 

La paga era di 40 sterline la settimana e non era davvero male per otto ore di lavoro, da lunedì a venerdì. Per far quadrare meglio i conti,  il mio amico e benefattore marchigiano,  mi suggerì e mi trovò egli stesso una camera ammobiliata, proprio dietro l’angolo del suo negozio, al n. 18 di Keystone Crescent, dove  pagavo 5 sterline la settimana a una vecchia vedova  italiana che viveva  con un figlio tassista che non ricordo di avere mai visto (vedevo però, a volte, la sua Austin nera, inconfondibile e autorevole, parcheggiata in uno sorta di parcheggio scoperto, interno al giardino della casa).

«Aiuterai il vecchio Jim, downstairs» mi disse il boss, a metà tra l’inglese e l’italiano.

 

Nel seminterrato della fabbrica delle pizze c’era la cella frigorifero,  con  il formaggio “cheddar” che andava sulle pizze (al posto della nostra mozzarella).

Il gustoso formaggio inglese era contenuto in forme da cinquanta libbre (circa 25 chili). Noi dovevamo tagliare le forme  con un filo d’acciaio,  per poi infilarne i listelli ottenuti nell’enorme grattugia elettrica. Il formaggio grattugiato veniva raccolto in grosse ceste di plastica e spedito di sopra,  alla catena di montaggio, attraverso lo stesso montacarichi che io usavo per scendere al lavoro, il mattino.

1.21.2023

La Terza via - 11

 

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Capitolo 4  

 

In viaggio per Londra, in quel luglio del 1977, mi accompagnavo casualmente a una mia ex compagna della ragioneria, che mi piaceva sin dai tempi della scuola, anche se non le avevo mai dichiarato i miei sentimenti, sempre frenato dalla mia timidezza e dalle mie interiori paure. La ragazza era comunque fidanzata e presto l’avrebbe raggiunta a Londra il suo ragazzo per riportarsela a Cagliari e convolare così insieme a giuste nozze.

A essere sincero ero partito con l’idea di trovarmi un lavoro per l’estate, di farmi qualche soldo e poi di ritornarmene a casa e di concludere gli studi universitari; in fondo mi mancavano soltanto cinque o sei esami per arrivare alla laurea.

Londra mi piacque subito. Mi piacquero le grandi vie e i grandi parchi dell’West End e mi piacquero i vicoli più intimi e contenuti di Soho; complessivamente sentii che in quella città ci stavo bene; diciamo che il suo fascino misterioso, che sembrava aleggiare, soprattutto la sera, sui caseggiati di pietra e in quegli edifici che trasudavano storie, mi avvinse in una spirale di emozionanti sensazioni, come se avessi già vissuto, in un remoto passato, tra quelle mura e in quei luoghi. Niente di definito o di certo, sia chiaro, ma soltanto delle sensazioni; nulla di più. Forse avvertivo, in quel momento di estrema solitudine, che Londra era una città sola e solitaria, come me; e le nostre solitudini si fusero e io trovai lì rifugio e consolazione, in quella metropoli che ancora costituiva, come era stato per secoli, rifugio per anime inquiete e pellegrine, ma anche per perseguitati in cerca di protezione e libertà.

1.10.2023

la Terza via - 5

 

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E infine, in aggiunta ai  grandi temi generazionali, con cui ogni uomo deve fare i propri conti; al di là dei grandi movimenti cosmici,  che in qualche modo  influenzano la storia dei popoli, ogni singolo uomo fronteggia e si confronta con se stesso, con la sua storia personale, con il suo carattere.

Io ero un carattere introverso e la mia era una storia di solitudine. E poco importano qui i motivi di questa solitudine. E forse ha ragione chi sostiene che ognuno ha  il suo destino, già  tracciato,  da qualche parte.

Per tanto tempo ho pensato e ragionato in termini fatalistici: se deve accadere, accadrà; lasciamo che il tempo faccia il suo corso; così vuole il destino e così via.

Oggi non so davvero se continuare a crederci. Forse è più giusto dire che il destino ce lo facciamo da noi.

 Io ero incapace di allacciare relazioni sentimentali di carattere superficiale e avevo paura di arrecare ingiuste sofferenze,  instaurando rapporti di cui non ero convinto e sicuro; o magari ero io, inconsciamente,  ad aver paura di soffrire. Il mio carattere introverso mi impediva di aprirmi agli altri e probabilmente anche qui c’era una paura interiore a rivelare i miei più intimi sentimenti. Il mio fatalismo faceva il resto. E così lasciavo trascorrere il tempo sotto i ponti della mia vita.

Rimuginavo inoltre sui più profondi e reconditi significati della nostra esistenza sulla terra e anche su quel terreno,  non trovavo con chi confrontarmi e mi sentivo emarginato. Non riuscivo proprio a vedere il lato ludico e gioioso della vita e quando entravo in contatto con quel mondo,  mi sentivo un perfetto estraneo.

Un episodio, a tal proposito mi torna alla mente, a distanza di oltre quarant’anni: un mio amico, uno di quei dritti, mezzo dongiovanni e mezzo bulli,  che andavano forte in quegli anni settanta, dotati di quel carisma, con accessori di faccia tosta e auto sportiva di grido,  che sa conquistare uomini e, soprattutto, donne, insistette per presentarmi alcune sue amichette, molto disponibili (a suo dire) a facili avventure e a simpatie fiammeggianti. Me le fece conoscere. Ne uscì fuori una serata simpatica, un primo, incoraggiante approccio, lo giudicai allora. Dopo poco tempo il mio amico Beppe mi riferì che ero piaciuto alle  ragazze. Una di loro in particolare aveva osservato che avevo un bel viso da bravo ragazzo. Invece di sentirmi orgoglioso di una simile considerazione, la interpretai in maniera conforme allo stato d’animo che albergava nel mio animo in quegli anni difficili e lontani. E mi convinsi ancora di più, memore di quello che era toccato al mio compianto  fratello maggiore,  e delle lezioni che lui mi aveva impartito   durante  le ore trascorse nella sua bottega di orologiaio e nel suo negozio di gioielleria, che le donne preferivano i cattivi ragazzi ai bravi ragazzi di buona famiglia.

 

Che stupido tempo è la nostra gioventù! Invece di gioire di quel gran complimento, me ne feci un cruccio! Se per avere delle donne con facilità, occorreva essere brutti e cattivi, ebbene, ero pronto a trasformarmi! Avrei dismesso la mia aria da bravo ragazzo e sarei diventato un duro! O qualcosa del genere.

 

 

In viaggio come un Pellegrino

  In questo ponte della Festa di tutti i Santi mi sono recato in pellegrinaggio a Roma con l'UNITALSI. L'itinerario prevedeva la vis...