5.31.2024

Il Manuale del Perfetto Orologiaio

 



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Capitolo Secondo

 

«Le ho gabbate una volta, quelle sottane» – si vantava Pietro Marino con gli amici della Nuova Accademia, riferendosi ai religiosi della Congregazione pontificia che lo avevano processato negli anni novanta del secolo precedente – «e le gabberò novellamente anche ‘stavolta!»

«Quante ne abbiam fatte con gli Incerti, eh Pietro?», interpose Girolamo Aleardi.

«E soprattutto quante ne faremo ancora!», rispose Pietro Marino sollevando il calice stracolmo di vino.

«Giusto», interloquì Ciro di Pers, facendo tintinnare il suo calice con quello dei suoi sodali. «Brindiamo al nuovo che avanza!»

«Brindo ai dolci e femminili visi, che degli Incerti i cuori affranti, ieri allietarono conquisi, e cogli Increduli in avanti, a scapito di Ludovisi, conquisteremo ancor festanti!», improvvisò Gabriello Chiabrera, levando a sua volta il calice.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Un coro di evviva, di prosit, ad maiora, e altri auspici che inneggiavano alle nobili frontiere delle nuove conoscenze ma anche alle crapule più prosaiche e volgari, si levarono in risposta ai versi improvvisati dal poeta; e altri ne seguirono quella notte, come altre notti a seguire.

 

Pietro Marino De Regis, chiamato “Il Carminate”, era uno dei 144 membri, tra poeti, musicisti, pittori  e artigiani,  che avevano contribuito nel dicembre dell’anno del Signore 1623 a fondare  la Nuova Accademia degli Increduli di Ferrara.

Si trattava in realtà di una rifondazione della precedente Accademia degli Incerti, sorta sempre a Ferrara molti anni prima e sciolta nel 1597 dalla Congregazione dell’Indice Paolino, per avere osato tradurre la Bibbia in volgare.

Egli era uno dei pochi sopravvissuti che poteva fregiarsi di essere appartenuto alla precedente fondazione accademica ferrarese.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Lo stesso  Pietro Marino, all’epoca già provetto  orologiaio, nonché promettente e giovane poeta,  era scampato però alla condanna personale,  in virtù di uno stratagemma di natura legale: gli avvocati degli imputati erano riusciti infatti a dimostrare che la Bibbia in volgare era stata composta dal 5 al 14 ottobre 1582, un periodo temporale che il papa  Gregorio XIII, decidendo di riformare il calendario giuliano, aveva dovuto abolire per decreto, onde correggere le imprecisioni del precedente calcolo giuliano, recuperando il tempo in esso perduto. In quanto “vacuum ac nullus”, avevano chiosato gli abili difensori degli imputati accademici (avvocati direttamente nominati dal duca d’Este, che con quella mossa aveva inteso difendere, ad un tempo, un componente del suo casato, affiliato all’Accademia ed il suo stesso Ducato, da sempre nelle mire espansionistiche dello Stato Pontificio), in quel periodo non poteva essere validamente ascritto alcun crimine a chicchessia, in quanto “quod nullum est, nullum producit effectum”.

 

 

 

 

 

 

 

 

E non si sa se furono i brocardi di giustinianea memoria, profusamente decantati dai quei provetti principi dello Studium Juris Estense, capitanati da Renato Cato ovvero l’influenza del loro potente patrono, ovvero ancora il timore  del cardinale Aldobrandini di guastare i già difficili  rapporti con la Francia (Alfonso II d’Este era nipote del re francese  Enrico II per parte di madre ed era di casa presso la sua corte), fatto sta che il Tribunale della Congregazione dovette assolvere tutti gli autori imputati.

Certo è che le Note Difensive redatte dallo Studium Estense furono intelligentemente fatte circolare, seppure in copia informale e per conoscenza, nelle più importanti corti europee, ciò che mise in seria difficoltà la cerchia aldobrandina, sempre attenta a non turbare troppo gli equilibri diplomatici.

La Congregazione sfogò però tutta la sua rabbia potente contro l’Accademia, ordinandone lo scioglimento e contro l’editore Manuzio di Venezia, acerrima nemica dello Stato Pontificio, che aveva

 

 

 

 

 

 

 

 

 pubblicato la traduzione vietata in mille esemplari andati a ruba, e che comunque aveva pensato bene di   rimanere contumace nel processo. E il duca Alfonso II, ormai al tramonto della sua vita, stanco e senza figli, sullo scioglimento dell’Accademia chiuse tutti e due gli occhi perché comunque l’assoluzione degli imputati, tra cui quella del suo nipote affiliato che tanto gli era caro, fu considerata negli ambienti politici e diplomatici dell’epoca, una sua vittoria personale.

Ne era passata di acqua sotto i ponti da quel tempo! Estintasi la linea diretta della casata degli Estensi (Alfonso, nonostante i suoi due matrimoni,  era morto senza eredi legittimi diretti)  lo Stato Pontificio era riuscito finalmente ad inglobare i territori ferraresi del ducato sotto la sua sovranità, ed al posto dei duchi d’Este ora regnava a Ferrara un Legato Pontificio. E quegli accademici, rimasti orfani dei grandi mecenati estensi, seppure sfrattati da villa Marfisa, avevano continuato ad unirsi in segreto, aggregando giovani talenti, per niente impauriti dai nuovi sovrani tonacati.

 

 

 

5.28.2024

Il Manuale del perfetto orologiaio

 

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Parte Prima

Capitolo Primo

 

Le spie della Congregazione, in un dettagliato dispaccio, avevano informato il vice legato di Ferrara, Francesco Pasini Frassoni, che  Pietro Marino De Regis, noto il Carminate,  con la complicità di altri membri dell’Accademia degli Increduli,  stava scrivendo un libro che propagandava le idee rivoluzionarie diffuse  da Copernico nel libro proibito “De Revolutionibus Orbium Celestium”, messo all’Indice sin dal 1616.

 

L’alto prelato, che surrogava il titolare Giovanni Garzia Mellini, nominato da  papa Gregorio XV come  successore di Pietro Aldobrandini, per fare le sue veci  a Ferrara, pensò bene di mettersi   subito in contatto con  il cardinale suo diretto superiore, quantomeno per una duplice ragione.

In primis perché il cardinale era il capo della Congregazione per la difesa della Fede e quindi non voleva rischiare che l’importante notizia  gli arrivasse da altri; in secundis egli voleva sapere da  Sua Eminenza come procedere, dandogli conferma così della sua fedeltà e della subordinazione, quantomeno formale. Conosceva inoltre assai bene le mire del grande porporato e già circolavano voci sulla salute precaria di papa Ludovisi. Una sua elevazione al soglio pontificio avrebbe significato per lui un sicuro avanzamento nella carriera ecclesiastica; forse la titolarità della legazione vacante e, in prospettiva, anche una investitura da  porporato.

E nella peggiore delle ipotesi, se fosse riuscito a far incriminare il De Regis, poteva pur sempre contare nella confisca delle sue lucrose proprietà, accresciutesi dopo la morte della madre e del patrigno, tra cui gli stava particolarmente a cuore la cascina di Lemole, in Greve di Chianti, che avrebbe potuto così unire a una piccola proprietà limitrofa ereditata dai suoi avi, senza contare la rendita di 20.000 scudi d’oro che essa rendeva all’anno all’eretico Carminate.

Originario di una famiglia che vantava in passato ricche ascendenze, ma al presente, scarsi mezzi economici e finanziari, Pasini Frassoni aveva studiato grazie al generoso interessamento di uno zio materno, anch’egli prelato, ben addentro nelle gerarchie della curia pontificia.

Grazie agli intrallazzi e ai soldi dello zio, era giunto al grado di Consigliere della Segnatura Apostolica, ma lì si era reso conto che l’ascesa al potere vero era per lui troppo arduo.

Entrato nelle grazie del potente cardinale Garzia Mellini, era stato nominato vice legato a Ferrara, ma la sua ambizione lo faceva puntare molto più in alto.

Intanto approfittava di ogni buona occasione per incrementare il patrimonio che i suoi avi avevano dissolto per incapacità e per sfortuna. 

La primavera aveva già scacciato da un pezzo uno dei più rigidi inverni degli ultimi vent’anni (tutti i ferraresi, a memoria d’uomo, non ricordavano di aver visto  il Po ghiacciato prima di allora), quando il vice legato scelse il più sveglio e il più giovane tra i suoi collaboratori e lo inviò a Roma dal cardinale Garzia Mellini per informarlo di quanto le spie locali della Congregazione gli avevano riportato.

«Mi avete fatto chiamare eccellenza?», chiese don Giuseppe Canaselli, dopo che ebbe udito la voce del suo superiore invitarlo ad entrare.

«Certo, certo, vieni avanti», disse il vice legato sollevando gli occhi dalle carte che stava esaminando.

Il giovane prelato si avvicinò timidamente al tavolo da lavoro dell’importante delegato. Lo aveva scelto come suo secondo segretario per la sua discrezione, che sconfinava nella timidezza, ma soprattutto per la sua prodigiosa memoria, che lo aveva colpito al tempo in cui era stato suo insegnante di greco e latino.

«Siediti», gli disse indicandogli una delle sedie che stavano davanti a lui. «Vuoi bere qualcosa?», aggiunse dopo che il giovane si fu seduto sul bordo della sedia, con gli occhi bassi sulle mani che aveva posato in grembo.

«No, grazie, eccellenza. Io non bevo».

E infatti il suo incarnato era alquanto pallido, pensò Pasini Frassoni. Si lisciò prima il mento e poi la gola, sin dove il colletto rigido dell’abito talare glielo permisero. La nostra chiesa si regge sui sacrifici e sulla rettitudine di questi giovani, pensò ancora con cuore grato l’alto prelato. Poi intrecciò le mani grassocce sul prominente girovita.

«Sei mai stato a Roma?», chiese abbandonandosi nella sua comoda poltrona.

«Una volta, da ragazzo, accompagnai mio padre e mio zio che si recavano da un ricco committente per una pala d’altare».

Ricordava che il giovane discendeva da una famiglia di rinomati pittori. Ma la sua intelligenza e la sua natura riflessiva lo avevano attratto nell’orbita della madre chiesa; tanto più che la bottega dei parenti pittori era stata riempita a sufficienza con i fratelli e i cugini nati prima di lui.

«E la strada te la ricordi?»

«Non tanto per la verità. Ricordo però che si partì più o meno in questa stagione. In altri periodi dell’anno le strade dissestate rallentano di parecchio l’andatura delle carrozze».

«Ho un’importante ambasciata per te; da portare a Roma, e da riferire personalmente al cardinale Giovanni Garzia Mellini. Te la senti?»

«Comandate pure eccellenza», disse sempre con gli occhi bassi il giovane chierico.

Così, a metà maggio, Giuseppe Canaselli partì per la delicata ambasciata. E a inizio giugno era già di ritorno.

Insieme alle istruzioni del cardinale riportò la notizia che le condizioni di salute del papa Gregorio XV si erano aggravate e che i cerusici di corte pensavano che il peggio fosse ormai inevitabile. Pertanto i grandi elettori, seppure in via informale, avevano di già iniziato le grandi manovre che precedevano il Conclave ormai imminente.

 A maggior ragione occorreva che il cardinale papabile agisse con prudenza e con sagacia. Sia queste informazioni, sia le dettagliate istruzioni che riguardavano il caso gravissimo della Nuova Accademia degli Increduli, erano state impartite  al giovane chierico,  di rientro da  Roma, totalmente in forma verbale. 

 E meno male che egli godeva di una memoria prodigiosa (affinatasi nello studio dei  classici e della grammatica della  lingua greca in particolare),  perché le istruzioni che gli erano state dettate a voce dal cardinale medesimo, erano assai minuziose e andavano riferite al vice legato tali e quali.

Il vice legato capì, ancor prima di apprenderne il contenuto, che si trattava di questioni riservatissime (le istruzioni collegate al suo ufficio di vice legato giungevano solitamente per iscritto).

Dal contenuto delle istruzioni ebbe inoltre conferma che il suo diretto superiore contava sull’appoggio della Spagna per la scalata al soglio pontificio (anche se personalmente non escludeva che lo scaltro porporato tramasse nascostamente per assicurarsi anche qualche voto dalla Francia).

Il cardinale lo informava che doveva giungere   a Ferrara un suo emissario, un abile hidalgo spagnolo specializzato nelle indagini e negli interrogatori degli eretici e che contava su di lui per fornire al militare ispanico tutti i mezzi necessari per espletare il suo incarico, senza che mai, per alcun motivo, dovesse figurare il suo nome.

Ma ad agosto, quando giunse a Ferrara la notizia della elezione di Maffeo Virginio Romolo Barberini al soglio pontifico, con il nome di Urbano VIII, dell’hidalgo spagnolo preannunciato,   Pasini Frassoni non aveva visto neppure l’ombra.

Non poteva certo sapere che don Pedro Domingo Mendoza Martinez, accompagnato dal suo fido Tenoch Tixtlancruz e da Padre Alonso Ramirez de Barranquilla, S.J.,  sarebbe giunto  a Ferrara soltanto a settembre dell’anno 1623 già  inoltrato.

 

 

5.21.2024

Concerto Furioso Andante

 

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Capitolo Terzo

 

 

«Accomodatevi messer Rainulfo. Vi abbiamo convocato perché c’è un incarico per voi.» - esordì il duca.  Rainulfo si limitò ad assentire con il capo. Aspettò quindi che il duca  entrasse nei dettagli.

«Vi ricordate ancora dove sta Pavullo in Frignano, nevvero?» - disse quindi il duca venendo al dunque.

«Certamente. Se non si fanno brutti incontri, da Ferrara,  ci si arriva  in una mezza giornata. Se avete urgenza anche meno.»

Il duca annuì soddisfatto. Il suo messo capiva sempre  al volo. E nessuno conosceva quella zona impervia come Rainulfo; solo lui poteva portare a termine l’incarico che aveva in mente con successo.

«Dovete portare un messaggio verbale urgente a una vostra vecchia conoscenza: quel ribaldo di Cato di Castagneto»

«Dite pure, signor duca. Sono pronto a partire anche subito».

«Dovete informare Cato dell’arrivo del nuovo commissario, Messer Matteo da Scandiano, che voi, credo, conosciate almeno di fama.  Sollecitategli   una vigilanza pronta e attenta, soprattutto nei confronti di Domenico Marotto dei Carpineti, che da fonti certe mi risulta essere transitato dal libro paga del defunto papa Giulio II a quello del suo successore Leone X».

«Sarà fatto eccellenza»

«Visto che siete là, chiedete a Cato se abbia notizie della banda di Cantello di Frassinoro; anch’essa sconfina spesso nella vicina Garfagnana e non sarebbe male se Cato la tenesse d’occhio o magari la portasse dalla sua parte».

«A quanto ne so io Cantello di Frassinoro è rimasto quel cane sciolto che era; sempre pronto però, in cambio di soldi, a servire chiunque» disse Rainulfo.

«Bene. Prendete questi cinquanta ducati e dateli a Cato come anticipo per i suoi futuri servigi. Questi altri cinque sono per le vostre spese e il vostro disturbo. Partite immediatamente e contattatemi subito al vostro ritorno».

Come messo il duca aveva scelto Rainulfo Alberghetto, un suo uomo d’arme, coraggioso ma anche conosciuto dai banditi di Cato per essere stato uno di loro, prima che lo inserisse nelle sue guardie con incarichi speciali, a seguito di un episodio di valore, in cui il giovane bandito lo aveva difeso a rischio della sua stessa vita.

La collaborazione del bandito Cato con gli Estensi risaliva al 1510 quando il duca Ferrante, si era opposto, con l’aiuto della banda di Castagneto, anche al tempo da lui capeggiata, alle milizie pontificie che, dopo essersi impadroniti di Reggio e Modena, volevano allungare le mani anche sul Frignano e sulla Garfagnana.

In quell’occasione aveva conosciuto e reclutato il giovane Rainulfo, che gli aveva fatto scudo con il suo corpo durante un concitato parapiglia con alcuni papalini particolarmente intraprendenti e focosi.

Come ordinatogli il messo partì immediatamente. A spron battuto, in poco meno di due ore, da Ferrara giunse a Bologna, dove cambiò, alla posta, il suo cavallo. Dopo essersi rifocillato a dovere partì per il Frignano. Adesso era a circa metà strada; ma la seconda metà del tragitto era assai più lenta e più ardua da percorrere.

Rainulfo decise di procedere attraverso il passo Calderino. Si inerpicò per il versante appenninico, senza più spronare il suo cavallo, ma lasciando che fosse l’animale a scegliere la giusta l’andatura; in certi tratti particolarmente scoscesi e pericolosi, smontava da cavallo e proseguiva a piedi, incoraggiando il valoroso quadrupede a proseguire, guidandolo per le briglie. Sotto i suoi occhi vide il paesaggio mutare gradatamente.

 Boschi di quercia e castagno si alternavano a siepi, prati e a coltivazioni di cereali. Sui versanti più ripidi trovò estesi terrazzamenti di vigneti e orti con annesse dimore più o meno imponenti a seconda dei terreni circostanti.

Vi passò al largo, così come si tenne lontano dal castello dei Montecuccoli; anche se la famiglia era devota al duca, non voleva correre il rischio che si venisse a sapere della sua missione; doveva restare un segreto per tutti. Puntò invece direttamente alla locanda del Guercio, in località di Castagnedola. Il guercio in realtà non era il padrone, la locanda era in realtà di una mezzana di Guiglia; lui era soltanto l’uomo che l’aveva sottratta all’attività di prostituta, che svolgeva nel suo paese, quando l’aveva conosciuta.

La locanda era frequentata dagli sgherri di Cato e qualcuno lo avrebbe trovato lì di sicuro. Vi stazionavano come parte della loro strategia di controllo del territorio. Si sarebbe presentato e dopo un buon bicchiere avrebbe chiesto di essere accompagnato da Cato. Era inutile rischiare di essere assaliti e magari feriti a morte da qualche giovane affiliato che non lo conosceva e lo avrebbe potuto scambiare per uno sprovveduto viaggiatore, sperdutosi in quei scoscesi territori di nessuno.

 In tutta la provincia ducale, che comprendeva sia il Frignano e sia la Garfagnana, particolarmente nelle zone di confine, proliferavano infatti numerose bande di malviventi. Non tutti però erano sudditi del duca d’Este. Spesso accadeva che si associassero tra loro estensi, lucchesi, fiorentini e perfino lombardi. Questi malavitosi erano alquanto smaliziati e conoscevano bene i problemi e i cavilli della diversità di giurisdizione che favoriva un po’ tutti, reciprocamente, nella commissione dei reati in uno stato confinante, in quanto la perseguibilità era correlata a una estradizione difficile, se non impossibile, da ottenere. Per cui, commesso il reato, subito dopo, ripassavano il confine e se ne tornavano da dove erano venuti.

Il reato risultava così commesso in uno stato i cui organi giudiziari, senza la presenza fisica del reo non potevano agire; ed erano costretti a chiedere allo stato che li ospitava la cattura e poi la consegna ai propri organi di polizia.

 Ma se già era difficile la cattura per i reati commessi nello stesso stato, immaginiamo cosa potesse significare per le milizie locali la cattura per dei reati commessi altrove, in danno, presumibilmente, di cittadini stranieri.

 Quei territori erano così diventati una terra di nessuno, dove gli onesti vivevano nella paura, se non nel terrore e si viaggiava a rischio,  non soltanto dei propri danari e dei propri beni personali, ma soprattutto  a rischio della propria vita. E gli ignari forestieri venivano spesso brutalmente assassinati perfino da banditi che agivano a viso scoperto, incuranti e certi che l’avrebbero fatta franca.

 

 

 

 

 

Ai tempi in cui Rainulfo Alberghetto faceva parte della banda di Cato,   la locanda del Guercio, era frequentata anche dagli uomini affiliati ai Carpineti ma lui li avrebbe riconosciuti dal modo di vestire e di muoversi: gli uomini di Domenico Marotto  vestivano quasi come delle guardie regolari, con una camicia bianca con maniche lunghe a sbuffo, un pantalone a mezzo polpaccio; in  estate, poi,  la loro divisa   era completata da una specie di gilet smanicato e delle scarpe basse, mentre in inverno indossavano degli stivali  e delle casacche di panno pesante. Portavano con sé, senza mai separarsene, uno schioppo con avancarica a pallettoni;   quelli della banda di Cato, al contrario, vestivano in maniera più libera e fantasiosa, anche se tutti o quasi tutti i componenti indossavano dei copricapo di forma conica, agghindati con stringhe di cuoio o talvolta con nastri colorati,  avevano le gambe avvolte, con delle fasce di protezione che arrivavano sino alle ginocchia e si proteggevano dal freddo con degli ampi cappottacci di panno grezzo.

Al contrario degli altri, questi ultimi   giravano quasi sempre disarmati,  anche se gli si leggeva in faccia che erano dei pendagli da forca, pronti  a scannare la propria madre per meno di cinque ducati d’oro. E le armi da fuoco le avevano comunque nascoste nei pressi, sempre pronti ad imbracciarle in caso di bisogno, mentre in tasca avevano un affilato coltello, ufficialmente per i bisogni del desinare.

Non di meno, anche gli scagnozzi dei Carpineti, nonostante l’apparenza di guardie regolari, quando c’era da menar le mani o tirar di coltello, a danni di qualcuno che difendeva in maniera esagerata i suoi beni, non si tiravano certo indietro.

Il capo banda di Castagneto, Cato, fedele al duca d’Este, in realtà, non era un comune e volgare bandito di montagna. Egli era piuttosto un soldato d’armi, un mercenario, lo si sarebbe potuto perfino definire, non scevro da capacità organizzative e di comando, e non privo di una certa sua cultura.

Se non ci fosse stata la famiglia rivale dei Montecuccoli, ai quali non si erano voluti sottomettere, i Castagneto di Cato avrebbero agito alla luce del sole, in piena legalità.

Ma anche in quel modo inusuale e atipico, essi servivano lo stesso duca estense, il quale apprezzava i servigi offerti dalla   famiglia di Cato da Castagneto che, in senso lato, poteva ricomprendere anche Giuliano del Sillico e i Tanari di Gaggio, nella misura in cui essa costituiva un temperamento e un contraltare alla banda di  Domenico Bressi Marotto dei Carpineti, rivale di Cato e alleato  del papa.

Cato di Castagneto accolse con prontezza di spirito e buona predisposizione d’animo il messaggero del duca Ferrante. Con animo lieto e senso di gratitudine s’intascò i cinquanta ducati d’oro.

«È sempre un piacere rivederti Rainulfo Alberghetto» esclamò dopo averlo abbracciato e dopo avere intascato i suoi ducati. «E sono altresì lieto di compiacere il nostro amato duca Ferrante.  Riferiscigli che per lui sono pronto a gettarmi nel burrone più profondo di Pontecchio, dove le bande di quei gaglioffi, clericali amici del papa, si sono rifugiati!»

Rainulfo sorrise per le iperboli del suo antico sodale. Non era cambiato affatto.

 

 

 

 

«Ti fermi per il pranzo? Abbiamo tirato il collo a due capponi niente male, grassi quanto basta per sfamarci tutti quanti in abbondanza, non è vero ragazzi?» disse rivolto ai suoi sgherri, quando ormai si erano accomodati in una roccaforte semi diroccata che fungeva da rifugio e protezione dopo le loro frequenti scorribande. I suoi uomini assentirono con un grugnito di piacere e un ghigno di soddisfazione, senza smettere di giocare, chi ai dadi, chi alle carte; qualcuno perfino agli scacchi.

«Sua eccellenza il duca mi ha raccomandato di tornare subito a riferirgli l’avvenuta commissione!»

«E tu l’hai fatta! E anche bene! Bevi almeno un altro bicchiere di vino!»

«Senti», aggiunse ancora Cato mentre il messo beveva il buon vino offertogli «dirai al duca che quando lui reputi pronta l’occasione decisiva per liberarsi definitivamente della banda dei Carpineti, noi siamo pronti al suo servizio!»

«Glielo dirò», disse Rainulfo posando il bicchiere e levandosi in piedi. Sapeva bene che il suo ex sodale Cato non agiva certo per motivi politici o per amore del suo duca. Rivaleggiando con la sua, la banda dei Carpineti lo costringeva a dividere il pingue bottino costituito dalle case e dalle fattorie del Frignano e della Garfagnana, esposte e disponibili ad ogni saccheggio e grassazione che praticamente restavano impuniti. Ma certo evitò di dirlo al suo vecchio compagno di soperchierie.

«Potrei schiacciarli per sempre con l’aiuto di alcuni fidati alleati; insieme possiamo arrivare a mettere insieme sino a trecento uomini, tutti coraggiosi e opportunamente armati. Glielo dirai al signor duca?»

 

 

 

 

«Stai pur tranquillo che glielo dirò» lo rassicurò Rainulfo.

«E che si affaccino pure Mimmo Marotto e i suoi sgherri, a tentare di importunare il nuovo commissario del duca nostro padrone! Riferiscigli pure di stare tranquillo che la nostra banda sarà vigile, notte e giorno, sull’incolumità del nuovo commissario e di tutti i suoi interessi, contro le bande rivali e contro lo stesso papa di Roma!» gli gridò dietro mentre quello già era risalito a cavallo per ripercorre all’incontrario la stessa strada fatta all’andata.

 

 

 

 

 

 

 

 

In viaggio come un Pellegrino

  In questo ponte della Festa di tutti i Santi mi sono recato in pellegrinaggio a Roma con l'UNITALSI. L'itinerario prevedeva la vis...