6.24.2024
L'Appello dell'Infoibato
I live in Italy with my wife, our two daughters and a cat called Shiwon. I'm a teacher and a lawyer. I like reading and writing. My best items are for fiction, poetry and theatre. I'm a great dreamer though I'm not young anymore (anagraphically at least). I also like movies such as spy stories and action's movies. One of my best are English 007's movies.
6.10.2024
Il Manuale del Perfetto Orologiaio
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6.06.2024
Il Manuale del Perfetto Orologiaio
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Capitolo Quarto
«Ecco, signor duca, nel raffronto tra le due mappe, si può apprezzare lo
sviluppo della capitale in direzione nord», disse l’architetto Biagio Rossetti
stendendo sul ripiano del tavolo due ampie carte rilevatrici.
Il duca Ercole I d’Este si era concentrato sulle due mappe della città di
Ferrara. Una, di colore giallo, riportava la data del 1471 e ritraeva la città già ampliata da suo padre Borso; la seconda, di colore bianco e senza
data, redatta dallo stesso architetto estense, pur avendo lo stesso formato
della vecchia, riempiva la vasta area
che dal Castello Belfiore e dal Palazzo Schifanoia, portava sino al Po
di Volano, praticamente al confine con il territorio della Repubblica di Venezia.
«Non dimenticate di realizzare una possente cinta muraria a ridosso del
fiume. Non sia mai che i Veneziani ritentino per quella via, la sortita già
fallita per la via del mare», disse il duca, annuendo soddisfatto.
«Se vostra Eccellenza me lo conferma, qui, a ridosso della cinta muraria,
io ho previsto la costruzione di una fortezza capace di ospitare una
guarnigione fissa di cinquecento soldati e sino a quattrodici bocche da fuoco,
puntate sul fiume».
«Confermo. Procedete quanto più speditamente potete», ordinò il potente
duca che non vedeva l’ora di vedere la capitale dei suoi domini protetta anche
nel punto più debole, quello settentrionale.
Così era iniziata, per
volontà del duca Ercole I d’Este, alla fine del XV secolo, la realizzazione
della direttrice nord, uno dei due assi ortogonali che abbracciavano lo spazio
dell’addizione erculea che univa idealmente Palazzo Ducale alla Porta degli
Angeli, a difesa delle incursioni delle temute milizie venete. Oltre alla cinta
muraria e a un profondo fossato ricolmo dell’acqua di uno dei bracci del delta
del Po su cui anche allora si ergeva la capitale del Ducato, scavalcabile
soltanto da un agile ponte levatoio, il duca aveva ordinato al grande
architetto ferrarese che venisse costruita attorno alla Porta degli Angeli una
fortezza militare.
Ai dodici cannoni a bocca di fuoco 120 voluti
da Ercole I, più tardi, suo nipote Ercole II ne fece aggiungere un tredicesimo,
il cannone denominato “La Giulia”, che suo padre Alfonso aveva fatto fondere con il metallo della
statua di Giulio II che i ferraresi avevano abbattuto per festeggiare la morte dell’odiato papa Della Rovere.
Attorno a quella
fortezza si era andato sviluppando, piano, piano, un agglomerato che, oltre agli alloggi e alle mense dei militari
comprendeva tutta una serie di botteghe artigianali, di cascine agricole, di
allevamenti di bestiame di diversa natura e numerose magioni, per lo più
precariamente costruite con paglia impastata a
mattone crudo a presidio di orti e frutteti che, numerosi più delle case, abbellivano quella vasta superficie, nota con
il nome di Bellaria, che si estendeva
dalla città medioevale originaria sino alla novella cinta muraria
settentrionale e che doveva restare comunque scarsamente popolata ancora per
molti secoli.
Questo agglomerato,
sorto senza un piano urbanistico preciso, ma che non di meno, aveva conquistato
l’altisonante appellativo di Borgo del Barco, aveva creato una fiorente rete
economica di scambi e commerci che, grazie ai contributi versati in termini di
conferimenti annonari, tributi civili e decime religiose, era riuscita a farsi
riconoscere dalla amministrazione comunale centrale dalla quale comunque
dipendeva sia, ovviamente, dal punto di vista militare, sia dal punto di vista
amministrativo e religioso. Fra quelle botteghe e baracche del Barco del Duca, come
veniva indicato ufficialmente nelle carte, a ridosso di un’enorme porcilaia con annesso un macello, di cui si servivano tutti gli allevatori del borgo, spiccava una costruzione in pietra dove, per
anni, aveva operato una taverna che, dietro l’ambigua denominazione di “Osteria
del Buon Samaritano”, ospitava una
casa di meretricio che alleviava non solo le inevitabili solitudini dei
soldati di stanza nella fortezza, ma serviva ad allietare anche le noiose
serate dei giovani guardiani degli orti e degli artigiani del Borgo.
La taverna era stata
chiusa dalle autorità alla fine del 1500, anche se certi documenti sembravano
attestare invece la data del 1577, quando in città erano stati accertati alcuni
casi di un morbo che, ai sintomi della peste sembrava sommare i caratteri di
una nuova malattia nota con il nome di sifilide. La casa era stata confiscata a
seguito di una condanna penale che era stata inflitta ai gestori e proprietari
dell’infame osteria, ma il clamore e la paura che quella notizia avevano
suscitato in tutta Ferrara erano stati così eclatanti che nessuno aveva voluto
più abitare in quella casa, soprannominata dopo la chiusura, la casa colombiana.
Fu lì che il vice legato
Pasini Frassoni decise di sistemare l’emissario spagnolo del cardinale Garzia
Mellini e il suo seguito. Ed è certo che don Pedro Domingo Mendoza Martinez, se
anche avesse mai saputo la storia degli alloggi a lui riservati da quel
referente togato, non avrebbe avuto alcuna riserva ad occuparli, tanto più che
quella nomea popolare, ai suoi orecchi, sarebbe suonata come un’eco delle
prodigiose gesta dei suoi valorosi antenati conquistadores.
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6.01.2024
Il manuale del perfetto orologiaio
Capitolo Terzo
«E tu come ti chiami?»
«Sono Giuditta, la nipote dell’Anselmo».
«Io però non ti avevo mai visto prima d’ora».
«In effetti non è da tanto che sto qui al Magazzino
ad aiutare lo zio…»
«Eh sì che ti avrei notata se ci fossi stata. Non
puoi passare mica inosservata, sorbole!»
Giuditta fu lusingata da quelle parole. Lei ci era
abituata ai complimenti, anche se era strano che a farglieli fosse quella donna
dall’accento così buffo e dal fisico mastodontico. Fuori lo sciabordio
dell’acqua, senza soluzione di continuità, segnava lo scorrere del tempo.
«Sei davvero molto bella, lo sai?», aggiunse ancora
il donnone dal buffo accento forestiero.
Giuditta, per niente imbarazzata, arrossì non di
meno lievemente.
«Mo’ certo che lo sai! Chissà quanti uomini ti han
già messo gli occhi sopra!», disse ancora la donna.
«Io mi chiamo Maturina e sono la padrona della casa
alla Sconcia, giù al Borgo San Giorgio. Tu sai cos’è la Sconcia, nevvero?»
Giuditta lo sapeva. E non soltanto perché nei
registri di magazzino figurava quel nome per la fornitura del sapone e di certe
pezze di lino. Aveva sentito quel nome in bocca a molti uomini. Tra i tanti
complimenti ricevuti, lontano dalle orecchie attente di Anselmo, c’era stato
persino qualcuno che le aveva confessato che neanche alla Sconcia aveva visto
una ragazza più bella di lei.
Ma Giuditta aveva imparato ad ascoltare senza
rispondere.
«Se un giorno ti stancassi di fare la magazziniera a tuo zio, vienimi a trovare alla Sconcia. Per una ragazza bella e sveglia come sei tu, avrei una proposta che è qualcosa più di una semplice offerta di lavoro!»
«Ci penserò!», rispose in un modo sicuro Giuditta,
finendo di conquistare l’anziana donna. Poi, udendo la voce di Anselmo che
cercava la nipote, le due donne passarono a parlare della commessa che la
Maturina era venuta a fare per la sua Sconcia.
Giuditta
Maier aveva da poco compiuto 18 anni e da due anni, da quando era rimasta
orfana, stava nella casa dello zio, che l’aveva ospitata insieme ai suoi
fratelli più piccoli.
Suo padre Jacopo, discendente di una delle più ricche famiglie di conversos fuggite alla persecuzione dell’inquisizione spagnola e rifugiatesi a Ferrara dopo il decreto di espulsione del 1492, era un affermato commerciante di tessuti e filati e si trovava nelle Fiandre con sua moglie, per una delle numerose fiere internazionali che da tempo ormai attiravano in quella ricca regione numerosi commercianti da tutto il mondo, quando entrambi vennero aggrediti e uccisi.
Aveva
conosciuto sua moglie, Olimpia Zatterini, la madre di Giuditta e degli altri
cinque figli maschi, nel corso di uno dei tanti contatti commerciali che
intratteneva con la famiglia di lei, che poco a poco si era costruita una
piccola flotta di barche e navigli, grazie alla quale gestiva molti dei
traffici di merci lungo il fiume Po e dal suo delta lungo le coste
dell’Adriatico anche sino a Venezia e ai suoi mercati.
Era
bastato che una sola volta i loro sguardi si incrociassero e quella ragazza
dalla figura slanciata e formosa l’aveva subito conquistato.
Il
padre di Olimpia, concordate le modalità dell’unione e l’entità della dote,
aveva comunicato alla figlia la sua volontà di maritarla al facoltoso mercante
e le nozze erano state celebrate dopo i doverosi preparativi.
Nonostante i quasi venti anni di differenza il loro matrimonio poteva dirsi riuscito ed era stato allietato subito dalla nascita di Giuditta, seguita, come già detto, a cadenza biennale, da cinque figli maschi: Rubio, Daniele, Marco Levi, Giuseppe e Beniamino.
Giuditta
aveva preso il fisico della madre: le lunghe gambe e la vita stretta, che non
abbisognava di cinture e corsetti per mettere in risalto il petto sodo e
prosperoso, slanciavano in alto la sua figura, valorizzando la sua fronte alta
e la folta chioma bruna. Ma quest’ultima, così come gli occhi scuri, le labbra
carnose e il naso aquilino, la cui misura era percepita in modo attenuato
grazie agli zigomi assai alti e pronunciati, doveva averli ereditati dalla
complessione paterna, dato che la madre era piuttosto chiara di carnagione e
con un visino dai lineamenti assai delicati, seppure innestati nel fisico
slanciato già descritto all’attento lettore.
Anche il carattere di Giuditta era un sicuro retaggio della linea paterna: forte, determinato, volitivo, introspettivo, ingegnoso, empatico e con un innato fiuto per gli affari. Uno zio materno di nome Anselmo, scapolo trentacinquenne, l’aveva presa con tutti gli altri cinque nipoti maschi, nella sua casa di Pontelagoscuro, un’ampia costruzione di due piani che aveva annessi i magazzini della flotta fluviale Zatterini.
In
quei magazzini arrivavano via terra parte le merci che il ducato d’Este allora
esportava (mais, riso, pesce, filati e cotone) e vi confluivano, dal
fiume, alcune delle le merci importate:
sale, carta, spezie, maioliche, grano
(quando le ricorrenti carestie lo imponevano) ed altri alimenti.
Fu
da quei magazzini che piano, piano Giuditta, si sentì attratta, come per
vocazione o per destino, anche se lo zio Anselmo l’aveva intesa avviare al
vertice dell’amministrazione della casa, come si conveniva ad una donna di
quella condizione sociale, in quella precisa epoca.
E fu lì che una sera, mentre suo zio le spiegava i criteri di stoccaggio e classificazione delle diverse merci che confluivano nello sterminato magazzino, e lei lo seguiva con quel suo sguardo attento e vivace, che si sentì addosso, per la prima volta, le mani tremanti e bramose di un uomo.
Giuditta,
superato con un guizzo repentino della mente il primo istante di smarrimento,
lo lascio frugare a suo piacimento tra le pieghe delle sue vesti.
La sua mente fredda e razionale, guidata dal suo istinto femminile, andava percependo che quella concitazione frenetica e ansimante, che lei prese subito dopo ad assecondare con improvvisata ed istintiva accondiscendenza, poteva fornirle uno smisurato potere sugli uomini. E questo le piacque, trovandone conferma quando lo zio, smettendo di dimenarsi, cadde sfinito ed appagato sopra di lei. In quel contatto finale, più che durante l’amplesso, Giuditta, senza che pronunciasse una sola parola, avvertì il tacito ringraziamento che il corpo rilassato di suo zio tributava al suo, riacquistando il suo respiro regolare, quasi assopendosi, dimentico della realtà e per un lungo istante rapito in un’altra dimensione e in un altro tempo. E fu ancora lì che aveva conosciuto Maturina, un giorno che era venuta a visionare certi filati e certe stoffe che le occorrevano per gli arredi della sua casa di tolleranza, lì alla Sconcia del Borgo San Giorgio di Ferrara.
Quando,
due anni dopo quell’incontro, suo zio le comunicò che aveva parlato con il
vicario diocesano e che sarebbe stato agevole, previo pagamento di un congruo
compenso, ottenere una dispensa per poter celebrare il loro matrimonio (data la
stretta parentela esistente), Giuditta si ricordò dell’offerta che aveva
ricevuto, quel giorno che si erano conosciute, da quella strana donna dal buffo
accento forestiero.
Fu
proprio allora che capì che era giunto il momento di andare a parlare di affari
alla Sconcia di Maturina.
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In viaggio come un Pellegrino
In questo ponte della Festa di tutti i Santi mi sono recato in pellegrinaggio a Roma con l'UNITALSI. L'itinerario prevedeva la vis...



