7.31.2024

Memorie di scuola

 


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Anno Scolastico 1962-63

 


Dopo l’esperienza di Giorgino tornai al mio paese, dove mi aspettava il fiocco giallo della terza elementare.

Le nuove scuole elementari di via Matta non erano state ancora ultimate, per cui il Comune comunicò ai genitori che i propri figli avrebbero continuato a frequentare le scuole elementari nel vecchio Convento dei Cappuccini.

Tornai così nell’antico edificio seicentesco, secolarizzato con la legge del 29 maggio 1855, la prima di una serie di leggi con cui il Regno di Sardegna prima, e il Regno d’Italia poi, acquisirono l’ingente patrimonio ecclesiastico al patrimonio statale, nell’ambito di quel movimento politico ed economico teso a combattere la c.d. “manomorta”, ovvero l’accumulo delle proprietà immobiliari nelle mani degli ordini religiosi.

Il Convento era stato assegnato al Comune nel 1866, con l’obiettivo di adibirlo a scopi di natura pubblica.

Ci avrebbe pensato poi Mussolini, nel 1929, coi Patti Lateranensi, a risarcire la Chiesa per quelle espropriazioni, contribuendo così a costituire il primo nucleo di quella gestione finanziaria che grazie a uomini onesti e capaci come l’ing. Bernardino Nogara e ad ecclesiastici, non meno capaci, ma sicuramente meno onesti, come il cardinale Marcinkus, ha portato il Vaticano, ed il suo braccio finanziario, lo IOR, al vertice delle potenze finanziarie off shore, o paradisi fiscali che chiamar li si voglia, del mondo globalizzato.

Ma a quel tempo certe cose non si sapevano; e se qualcuno le sapeva non veniva certo a dirle a noi.

Insomma queste scuole si trovavano in uno dei quartieri storici del mio paese: su Guventu, che comprendeva, oltre alle strade attorno al vecchio convento dei Cappuccini, anche la via Cimitero, che univa il camposanto e la Piazza Chiesa, attraverso la via Roma.

L’altro quartiere storico era quello che si snodava attorno alle vie Siviller e alla via Baronale costruite attorno al Castello quattrocentesco dei Marchesi di Alagon e di Siviller, antichi feudatari del re Aragonese Martino, fiero avversario della giudicessa Eleonora d’Arborea, poi decaduti in epoca sabauda.

Infine c’era il mio quartiere, relativamente nuovo, ricompreso tra la Piazza del Municipio, la stazione ferroviaria e lo Zuccherificio (che allora produceva alla grande, dando lavoro a un sacco di gente, direttamente e indirettamente, con l’indotto, come si usa dire oggi).

Ognuno di questi quartieri aveva la sua banda di ragazzini. Quella de su Guventu era capeggiata da Mariano, un tipetto dalla fama da duro, che non permetteva ai ragazzini degli altri quartieri di entrare nel suo, senza buscarle di santa ragione. Ricordo una sfida epica con lui e la sua banda, fatta di lanci di pietre (a mano libera e con la fionda, “su tirallasticu”, che noi stesso realizzavamo con una forcella di legno di fico a “Y”, due strisce di camera d’aria in disuso e una pezzetta di cuoio forata ai lati).

In testa porto ancora il ricordo di quella e di altre sfide: “is staffeddasa”, ovvero dei tagli visibili sulla cute, dovute all’impatto con i sassi taglienti.

A me toccava di stare in prima fila. L’obbligo mi discendeva dal fatto che io ero stato prescelto come capo-banda. Non tutti, però, erano stati concordi nella scelta del capo; mi ricordo in particolare un caro amico di quei tempi andati: Rodolfo; avevamo la stessa età ma lui era più alto e robusto di me; quindi rivendicò per sé, non so dietro a quale altro pretesto, la leadership; mi sfidò apertamente un pomeriggio d’estate, levandosi la maglietta e mostrando la corazza di cuoio che gli copriva tutto il busto e che, a suo dire, lo rendeva invincibile e degno del comando. Più tardi mi confessò che si trattava di un busto ortopedico che gli era stato prescritto per risistemare non so bene quale sporgenza ossea; ma in quel momento credetti soltanto che si trattasse di un escamotage inventato per togliermi il bastone del comando faticosamente conquistato.

Alla vista di quella corazza, che Rodolfo scoprì con un urlo di minacciosa sfida, tutti i componenti della banda ammutolirono di colpo; ma quando capirono che non intendevo cedere il comando senza lottare si disposero in cerchio attorno a noi; ci studiammo a lungo, con finte e occhiatacce di sfida; io intuii che se mi avesse afferrato, corazza o non corazza, mi avrebbe stritolato; allora, istintivamente, escogitai un trucco che mi sarebbe servito negli anni a venire per atterrare avversari ben più temibili: mi lanciai in avanti afferrandolo dietro ai polpacci; poi, tirando con forza verso di me, lo atterrai pesantemente; paradossalmente, quella corazza, che lui credeva il suo punto di forza, si dimostrò invece quell’handicap che in effetti era, impedendogli di divincolarsi dalla presa in cui lo avevo steso, con il peso del corpo e le mie ginocchia sulle scapole che lo inchiodavano a terra. Alla mia affannosa domanda “t’arrendisi?” , lo spaventato amico non poté fare altro che rispondere con un mesto assenso e il boato della banda decretò la mia vittoria; Rodolfo si dimostrò un valido e leale luogotenente in tutte le nostre scorribande.

Il capo banda del quartiere “Castello”era un certo Francischeddu. Con lui ricordo un litigio nei gradini del bar di Isidoro (“su bar de Sidoru”, lo chiamavamo noi in Sardo) che mi procurò il distacco e la perdita di tutti i bottoni della mia prima camicia (la ricordo bene perché era la mia prima camicia, una camicia che, come usava al tempo, era stata di uno dei miei fratelli più grandi; una camicia verde, mezze maniche con taschino), ma anche il rispetto di Francischeddu col quale, se pure non diventammo amici, almeno ci salutavamo senza più guardarci in cagnesco.

A scuola ci assegnarono il maestro Camerini, un siciliano che divenne amico di mio padre; a parte il difetto di pronuncia (quaccio più quaccio fa occio, somaro!) si dimostrò un ottimo insegnante, che istituì il servizio bibliotecario (allora sconosciuto al mio paese) avviando alla lettura decine di scolari (me compreso) che conobbero così “Il piccolo Lord”, “I ragazzi della via Paal”, “Incompreso” e i classici senza tempo: “Pinocchio”, “Ventimila leghe sotto i mari”, “I tre Moschettieri”.

Alla radio impazzavano Paul Anka, Celentano, Modugno, Gene Pitney, Adamo e Bobby Solo (con la celeberrima “Una lacrima sul viso”) e Gigliola Cinquetti con la sua indimenticabile “Non ho l’età”, vincitrice del Festival di Sanremo in quell’anno 1964.

Ma la nostra età, invece, avanzava, eccome! Adesso la mia età si scriveva con due cifre e ci aspettava la quarta elementare, nelle scuole nuove di zecca, finalmente più vicine a casa!

7.25.2024

Il profeta Geremia

 


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Missione di Geremia

 

Io no, Signore! Io non so parlare!

Son troppo giovane, come potrei

Fra Te e il tuo popolo saper mediare?”

 

Ma il Signore Jahvèh, Dio dei Giudei

Per profeta già mi aveva prescelto

Che ancora mi formava in seno lei,

 

così che di lingua e di passo,  svelto

dovetti  esercitarmi a divenire;

per fedeltà a Dio in quella, e in questo

 

per fuggire, fuggire e ancor fuggire

dalle aggressioni di questa  mia gente!

Perché, madre, non m’hai fatto morire

 

Quando ero nel tuo grembo? Così  niente

Avrei visto di tormenti e dolore

E lì sarei rimasto eternamente!

 

7.24.2024

Memorie di Scuola




2.
Anno scolastico 1961-1962




In seconda elementare ci aspettava il fiocco celeste.

Invece a novembre arrivò la piena del fiume Mannu. La nostra casa, con negozio annesso, fatto di mattoni crudi (il famoso mattone chiamato in Sardo “ladiri”, un composto a crudo di argilla frammista a paglia), fu invasa dall’acqua.

Ricordo ancora la notte che le acque del fiume invasero la parte bassa del paese: una fila interminabile di ombre, più che di persone, di ogni età, una dietro l’altra, si recavano in processione verso la parte alta del paese; la notte avremmo trovato rifugio nell’asilo comunale di via Renzo Cocco (magistrato e illustre compaesano); io ero con mia madre, che aveva in braccio mio fratello Alessio e che forse era già incinta di Gioachino (con Pina sarebbero stati gli ultimi tre figli di una catena di undici anelli, nati nell’arco temporale di 22 anni); gli sfollati invocavano San Biagio (il santo patrono del paese), ma anche Santa Barbara e San Giacomo (protettori, in coppia, delle genti sotto la tempesta), qualcun altro invocava sant’Isidoro; mia madre era devota della Madonna ed alle sue cure si affidava con fiducia e devozione anche in quell’occasione, come tante altre nella vita (comprese le ultime tre maternità, severamente sconsigliate dai medici ma da lei volute con assoluta convinzione), così intonò con le pie donne del paese l’Ave Maria in Sardo (Santa Maria, mamma de Deusu, prega po nosatrus peccadoris…).

E mentre pregava mia mamma, allora incinta del penultimo dei miei fratelli e con in braccio il terzultimo, guidava i più piccoli di noi verso l’asilo (uno dei ricoveri allestiti per gli sfollati, che si trovava appena sopra il cinema di Vittorio, dove la domenica gli uomini, con 100 lire e i ragazzi con sole 50 lire, potevano assistere alla proiezione dei film di Ursus, di Ercole o di Ringo prodotti a Cinecittà; oppure a quelli di Joselito o di Cantinflas, freschi dal Messico, ma doppiati in lingua italiana).

Mio padre, come tutti gli uomini, era rimasto indietro, aiutato dai figli più grandi, per salvare il salvabile. Tra il salvabile mio padre aveva incluso, oltre alla merce e agli attrezzi da lavoro, messi al sicuro nel piano superiore della casa, anche le galline, che allora erano ospitate nel pollaio dello sterminato orto che si estendeva dietro la nostra casa (cinque dei miei fratelli vi hanno in seguito edificato ampie case singole, con annesso giardino di 300 mq; ed esiste ancora la vecchia casa padronale, con 400 mq di giardino annesso).

Ma purtroppo le galline morirono tutte; mio padre tentò di cucinarle, spacciandole per galline di macelleria, ma il loro sapore era così disgustoso che dovette mangiarsele praticamente da solo, perché tutti ci rifiutammo di mangiarle; per punizione ci cucinò le fave ” a macco”, delle orribili fave secche, cucinate con bietola selvatica che a me non piacevano per niente (solo venti anni dopo scoprii di essere carente di un enzima, il G6PD mi pare, che praticamente mi rendeva fabico, intollerante alle fave, con pericolo di morte in caso di consumo).

A salvarmi dalla carne delle galline morte annegate e dalle fave a macco ci pensò il Comune. Per alleviare le famiglie colpite dal disastro ambientale, i bambini di seconda elementare furono avviati in una sorta di colonia invernale organizzata a Giorgino dalle ACLI. Fu lì che conobbi il maestro Aventino Serra.
Il maestro Serra ci voleva bene. Era un vecchio maestro, di quelli di una volta.

Quando ci dava i temi da svolgere (roba semplice, da bambini di seconda elementare) soleva premiare il migliore con una caramella di menta o d’anice. Erano delle caramelle strette e lunghe, avvolte in una carta verde e plasticata. Le ho riviste da poco, ma ovviamente non hanno lo stesso sapore di un tempo.

Il maestro Serra ci insegnava anche la bella grafia. Una volta mi portò in giro per le altre classi a mostrare come io vergassi la lettera “f”. Più che una “f”, la mia lettera minuscola della parola “fieno” pareva una vespa dal ventre gonfio; il maestro Aventino era così sorpreso dalla mostruosità di questa mia lettera che forse, portandomi in giro per le altre classi, voleva scoraggiare gli altri scolari dal commettere lo stesso abnorme errore. Forse. Non saprei dire neanche oggi. In qualche modo mi fece sentire protagonista: nel bene o nel male non saprei davvero.

Di quell’anno scolastico 1961-1962 ricordo le canzoni di Mina, di Celentano, di Rita Pavone e di Fred Bongusto.

A Giorgino, a chiusura della colonia estiva, vennero organizzati una partita di calcio e un concorso canoro. Al concorso canoro arrivai secondo cantando la canzone “Una rotonda sul mare” di Fred Bongusto (il primo premio me lo strappò un ragazzo che cantava
Viva la pappa col pomodoro” di Rita Pavone, che allora spopolava in TV con Gian Burrasca); mentre alla partita di calcio la mia squadra perse perché “Truciolo” (purtroppo ricordo solo il suo soprannome), all’ultimo minuto, mi fregò la palla che stavo per infilare in rete e segnò dall’altra parte; ho dalla mia la scusante che giocavamo a piedi nudi e sulla sabbia.

7.18.2024

Memorie di scuola

 

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Capitolo Primo

 

I miei ricordi di scuola più lontani son legati a cinque colori. Il primo fiocco, quello della prima elementare, nell’anno scolastico 1960-61, era di colore rosa.

Ricordo anche un grembiule nero con le tasche; dei quaderni dalla copertina nera; un banco di legno a due posti, con il piano inclinato, troppo alto per la maggior parte di noi. In cima al banco, sul bordo superiore, una scanalatura che ospitava, per ogni scolaro, la stilo e un foro dal diametro di circa cinque centimetri dove alloggiava il calamaio con l’inchiostro nero.


 

All’estremità inferiore della stilo un foro serviva per fissarvi il pennino. Si intingeva il pennino nel calamaio e si facevano delle pagine di aste, di quadrotti e di circoletti; per giornate intere; in classe e a casa; quaderni interi di aste, cerchietti e quadrotti; poi si passava alle lettere dell’alfabeto: vocali e consonanti; maiuscole e minuscole, in sequenza; quaderni interi: in classe e a casa.

 L’ultimo foglio del quaderno riportava le tabelline: occorreva mandarle giù a memoria; in classe e a casa: quella del 2, poi quella del 3, quella del 4 e così via. Il mio maestro della prima elementare si chiamava Giorgio Maxia. Era figlio di ricchi possidenti: lui e suo fratello avevano studiato entrambi ed erano divenuti insegnanti grazie al diploma quadriennale delle Scuole Magistrali.

 

Le loro terre le lavoravano i mezzadri (poco più di vent’anni dopo, nel 1982, la legge De Marzi-Cipolla avrebbe abolito quell’istituto giuridico così atavico e forse troppo punitivo per i braccianti senza terra e senza lavoro. Ma a quel tempo io certe cose non le pensavo nemmeno).

Il mio maestro mi apprezzava molto; me lo dimostrava quando, a fine mattinata, mi assegnava la tessera del refettorio scolastico comunale di qualche bambino titolare che fosse risultato assente a scuola. Allora, anziché rientrare a casa, me ne andavo alla mensa comunale: con quella tessera mi spettava un pasto completo: la pastasciutta la saltavo perché sembrava un impasto di colla.

 

 Se c’era la minestra di riso oppure il minestrone, invece, lo mangiavo volentieri; scartavo anche la fettina, che assomigliava spesso ad  una suola di scarpa e le uova sode, che all’interno si presentavano con  un colore verde-giallo poco rassicurante; neanche il formaggino, a volte striato di verde sotto la confezione, mi attirava. Ciò che mi attirava di più erano certi panetti di marmellata di una nota casa svizzera: delle vere leccornie!!! Quella confezione da sola valeva il mio viaggio alla mensa scolastica.

Quando mi vedeva in piazza, il mio maestro, mi mandava al tabacchino a compragli le sigarette. Fumava le Alfa; sul pacchetto bianco spiccava infatti una lettera Alfa dell’alfabeto greco dal colore rosso.

 

Da grande ho scoperto che quelle sigarette facevano letteralmente schifo, peggio anche delle Nazionali senza filtro; o forse ero solo viziato dalle Esportazioni con filtro e dalle Diana che scroccavo, di nascosto, a mio padre e ai miei fratelli. Mi dava centocinquanta lire e mi regalava le venti lire di resto. Era il suo modo per dimostrarmi la sua simpatia ed il suo apprezzamento per l’impegno scolastico. Quel ventino dal colore di bronzo mi rendeva felice e correvo subito a comprarmi delle caramelle e un cono di zucchero da dieci lire. Ma se si era a Carnevale allora mi compravo una maschera da cow-boy con l’elastico ai lati (la seconda scelta era la maschera da indiano Sioux) e un pacchetto di coriandoli.

 


Quando pioveva, la strada per raggiungere la scuola diventava una pozzanghera. I marciapiedi non esistevano ancora al mio paese e le strade, per la maggior parte, non erano asfaltate. Mio padre mi regalò un paio di stivali di gomma affinché non restassi con i piedi bagnati tutta la mattina e non rovinassi le scarpe (che comunque non erano certo le scarpe da passeggio che si usano oggidì).

Ricordo che il Comune distribuiva alle famiglie dei bisognosi delle scarpe. Io mi ritenevo fortunato: la mia famiglia, pur essendo assai numerosa, era considerata benestante. Anche se mio padre ripeteva che i veri ricchi erano i proprietari terrieri che risultavano sconosciuti al Fisco e non presentavano neppure la dichiarazione dei redditi.

 


Mio padre era un commerciante; uno di quei grandi uomini che, nel loro piccolo, con inenarrabili sacrifici e tanto lavoro, hanno contribuito a ricostruire l’Italia distrutta dalla guerra. Lui però rimpiangeva la vita militare e i gradi di maresciallo che aveva abbandonato, con stipendio sicuro, malattia e ferie pagate. Malediceva sempre il governo che, non ho mai capito con quale diabolico stratagemma, lo aveva convinto a cancellarsi dagli albi degli artigiani (lui che aveva le mani d’oro di orologiaio) per convincerlo a divenire un commerciante.

Col senno di poi, capisco però che con quel capitale che aveva immobilizzato nel negozio (tra oreficeria, gioielleria, articoli da regalo, sveglie e orologi) a quei tempi, quando i titoli di stato spuntavano un tasso annuale del 15%, avremmo potuto vivere di rendita. Ma la generazione di mio padre (ed il suo carattere fondamentalmente onesto, unito alla mentalità biblica del piacere-dovere di guadagnarsi il pane col sudore della fronte) era fatta di una tempra dura, tutta casa e lavoro. Sarebbe stato impensabile mangiare senza lavorare.

Ma il boom covava sotto le ceneri dell’Italia distrutta dalla guerra. L’Italia, in quegli anni, gettava le basi per la crescita enorme che sarebbe passata alla storia con il nome di “boom economico”.

 

 

7.11.2024

Il popolo delle torri

 


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Capitolo Primo

 

 

Itzocar si svegliò all’alba. La notte era trascorsa, nonostante tutto. Riprendendo coscienza di sé, si rendeva conto finalmente di cosa fosse successo. Gli eventi si erano accavallati troppo in fretta per poterli subito focalizzare freddamente. Adesso, nel fresco del mattino non ancora riscaldato dal sole nascente, la sua mente ricostruiva quanto successo il giorno prima. I servi, come di consueto, gli avevano fatto trovare il latte di capra appena munto. Sorseggiandolo, come in un lampo, rivide suo figlio Damasu sollevare il braccio contro di lui; Elki cadere sotto il suo tremendo fendente; suo figlio, con la sorpresa e il terrore dipinti sul viso, gettare il suo pugnale per terra e scappare; poi era scoppiato il caos. Una cosa era certa, oggi come ieri: quel colpo era diretto a lui; suo figlio voleva ucciderlo.

Perché? Che cosa aveva sbagliato con il suo primogenito? Quali torti aveva commesso nei suoi confronti? Non lo aveva forse fatto designare, dopo avere superato la prova di ammissione tra i guerrieri, a succedergli come capo tribù? Non gli aveva assegnato, in parti uguali con suo fratello Rumisu, un gregge di mille capi di bestiame? Ma allora, perché? Cosa c’era dietro quel gesto così insano, così folle, così contro natura? Solo una smodata voglia di assurgere al potere prima del tempo?

Eppure non aveva letto alcun odio negli occhi del figlio, quando per un interminabile istante, era rimasto con la mano levata che stringeva ancora il coltello insanguinato di quel sangue fraterno che doveva essere il suo. Meraviglia  e paura, forse anche vergogna, per avere osato tanto, per avere fallito;

 

 

 

ma non vi aveva letto odio; no, suo figlio non poteva odiarlo. Nella storia del suo villaggio, e nelle altre storie che si tramandavano per bocca dei vecchi cantadores, si era sentito di figli che odiavano i padri, sino a ucciderli, o a venirne uccisi; ma mai a tradimento; piuttosto in un’ordalia, che a volte i padri accettavano per lasciare che gli dei delle acque sacre decretassero chi ancora fosse  il più forte, legittimato a comandare, nel villaggio.  E mai, mai, un figlio aveva osato macchiare la cerimonia sacra del rientro e della riconsegna delle insegne del comando.

Una domanda salì alla mente del capo tribù, come un lampo improvviso: chi aveva armato la mano di suo figlio?

Intanto, in preda a queste riflessioni, era giunto in vista al recinto dove Rumisu si apprestava a liberare le sue greggi per condurle al pascolo. Lo vide, prima ancora di sentirlo, raggruppare gli animali, con quei movimenti e quei richiami che un pastore ripete con la solennità che gli proviene dall’innato costume a dominare le greggi, ma senza violenza o malanimo, quasi con amore, come se animali e uomini fossero una sola entità, sacra e da rispettare. Al contrario del fratello, Rumisu si era da subito dedicato alla cura delle greggi, con tutta l’anima e con tutto se stesso. Avevano sposato due sorelle e sua moglie gli  aveva già dato due figli, un maschio e una femmina.

«Bentornato, padre»,  esclamò quando fu a portata di voce.

No, Rumisu non c’entrava per niente in quella brutta storia. Era rimasto sorpreso anche lui per il gesto del fratello. Gli aveva letto ancora incredulità e sorpresa sul viso, quando Damasu era fuggito via, e lui finalmente, passato  quel drammatico istante, si era reso conto di tutto e si era guardato attorno, per vedere se il pericolo fosse cessato con la fuga del suo mancato assassino.

«Grazie figlio mio. Mi aiuti a scegliere due caprette da immolare agli dei delle acque per richiedere la guarigione di Elki? Sceglile tra le mie, naturalmente».

«Se permettete, padre, vorrei sceglierne due delle mie. Voglio offrirle io in sacrificio».

«Sì, certo! Agli dei piaceranno doppiamente!» assentì con intimo giubilo Itzocar. «Mandamele con uno dei servi alla residenza dei sacerdoti, giù al pozzo sacro».

«Sarà fatto».

«Vienimi a trovare coi tuoi figli quando sarai rientrato dai pascoli».

«Va bene», rispose Rumisu salutando il padre, che subito si avviò in direzione del pozzo sacro.

Il sole adesso era già ben visibile all’orizzonte e illuminava il villaggio che piano, piano riprendeva vita. I pastori lasciavano le capanne, dopo averle rifornite del latte per la colazione e adesso si sarebbero recati ai pascoli con le loro greggi, mentre le donne avrebbero provveduto alle loro incombenze domestiche. Questa era la vita del villaggio, da tempo immemore; neanche le feste e le cerimonie, pur frequenti e attese dagli abitanti, riuscivano a cambiare.

Le capanne occupate dai sacerdoti si estendevano tutt’attorno al pozzo sacro, come per proteggere il regno degli dei delle acque. Lì era stato sistemato il fido amico Elki. Chissà come aveva trascorso la notte, l’uomo che gli aveva salvato la vita. Sua moglie era certo che quel gesto di protezione fosse stato premeditato dal grande sacerdote. Non aveva saputo o voluto predisporre alcun’altra difesa contro quel parricidio annunciato; per paura che allertando le guardie coinvolte nel complotto, i traditori potessero essere messi sul chi vive e magari decidere una modalità più complessa per il loro sanguinario piano. Elki aveva valutato e voluto il vantaggio della sorpresa che i suoi dei gli avevano offerto; e l’aveva sfruttato, a rischio però della sua stessa vita. In cuor suo fu grato all’amico e al sacerdote che aveva rischiato la sua vita per lui. «Gli dei danno e gli dei prendono», pensò ancora. Per un uomo che lo voleva morto, ce n’era stato un altro che lo aveva salvato dalla morte. Solo che il primo era suo figlio! Quel pensiero sembrò afferrargli il cuore e strizzarlo sino ad espungervi tutto il sangue, in uno stillicidio infinito. Sarebbe mai guarito da quell’afflizione?

Ma adesso occorreva reagire! E subito! Ci sarebbe stato tempo per piangere, dopo! Adesso doveva stanare tutti i traditori che si celavano nel villaggio.

Damasu non poteva aver agito da solo. Non era un pazzo. Gli venne in mente che in quel terribile istante, in cui lui lo aveva colto, subito dopo il gesto omicida, per una frazione di secondo suo figlio aveva indugiato con lo sguardo rivolto alla folla, come se si aspettasse un aiuto concreto, un sostegno, un intervento in suo favore. A chi aveva rivolto suo figlio quello sguardo che cercava soccorso? Evidentemente doveva sapere che in mezzo alla folla c’erano delle persone che stavano dalla sua parte; ma queste persone chi erano? E perché non erano intervenute in suo aiuto?

Cercò di sforzarsi di ricordare: lo sguardo di Damasu che cercava soccorso si era diretto alla sua sinistra, verso uno dei due ingressi del recinto sacro, quello settentrionale, da cui era rientrato, seguito da una moltitudine di persone. Oltre al suo seguito, tutti quelli che si erano accodati a lui, all’ingresso nel recinto; mentre gli altri, quelli alla sua destra li aveva trovati già schierati, quando si era diretto al sedile a lui riservato, nella serie ininterrotta che correva lungo la circonferenza del recinto in pietra. Era impossibile battere la pista della memoria. Ci voleva qualcos’altro per ricostruire quei terribili eventi.

Sembrava che Manai, il numero due della gerarchia sacerdotale del villaggio, lo aspettasse, quando giunse in prossimità del pozzo sacro.

«Come ha passato la notte il nobile Elki?» gli chiese subito il re dopo i convenevoli di rito.

«L’ho vegliato tutta la notte. Sono riuscito a cacciar via il demone del ferro che gli ha morso le carni: a forza di impacchi di acqua fresca del pozzo; poi gli ho indotto il sonno con un decotto a base di acacia, cardo, genziana e melissa. E gli sono stato al fianco tutto il tempo».

«Ha parlato?», chiese ancora Itzocar con un gesto di apprezzamento per le cure profuse all’uomo che gli aveva salvato la vita.

«Solo frasi senza senso, prima che io gli levassi l’eccessivo calore dal corpo».

«Ce la farà?» domandò poi osservando il suo amico sacerdote che dormiva con un viso disteso.

«Credo di sì. Gli dei sono con lui e ha un fisico ancora forte».

«Intendo offrire due capretti agli dei dell’acqua per la sua guarigione. Poi ho bisogno di riunire il Gran Consiglio. Puoi presenziare al posto di Elki?»

«Sarà un onore per me presenziare, o re di Kolossoi! Mi farò sostituire al capezzale di Elki e verrò subito dopo il sacrificio».

«Bene, disse Itzocar! » avviandosi. «Ecco il servo di Rumisu che giunge a proposito! Ti aspetto nella sala delle udienze, subito dopo il sacrificio agli dei delle acque! Bada di non contraddirmi se dirò che Elki ha fatto dei nomi!»

«Non oserei mai fare una cosa del genere, mio re!» rispose Manai.

Anche se il potere religioso godeva di una certa indipendenza, il  capo tribù Itzocar era considerato al di sopra di tutti gli uomini del villaggio. Solo gli astri e gli dei potevano più di lui, sulla terra.

 

 

In viaggio come un Pellegrino

  In questo ponte della Festa di tutti i Santi mi sono recato in pellegrinaggio a Roma con l'UNITALSI. L'itinerario prevedeva la vis...