10.26.2024

I giornali annunciano il sequestro di De André e Dori Ghezzi

 


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Capitolo Ottavo

 

Il giorno seguente era giovedì e di buon mattino, come d’abitudine, Dario affiancava Doddore nella cura degli animali e insisteva nella sua intenzione di imparare   a mungere le capre, ma il pastore non era disposto neppure a farlo provare.  Per il resto accettava volentieri il suo aiuto.

Quella mattina stava per l’ennesima volta chiedendogli il permesso sempre negato quando il pastore gli impose di tacere.

«Shhh! Hai sentito?»

«Che cosa?»

«Ascolta!»

Il giovane si fermò con lo sgabellino in mano. Si udì il richiamo di un uccello che a lui parve un suono conosciuto. Subito dopo si udirono i cani abbaiare.

«Questo è Marino» disse Salvatore alzandosi dallo sgabellino e mollando le prosperose mammelle della capra che stava mungendo. L’animale mosse il testone cornuto, che sembrava enorme, forse anche a causa della tosatura di giugno, che rendeva più slanciato il corpo dell’animale.

Quando l’uomo fu sul ciglio della scarpata che guardava a valle, rispose al richiamo. Marino apparve alla loro vista, lasciando l’albero che lo nascondeva ai loro occhi. Si inerpicò lentamente per il sentiero sassoso che portava su all’ovile. La sua salita era resa più difficile da un pesante zaino che gli pendeva sulle spalle e due grandi buste che portava con sé, una per mano.

«Olà, Marì! Dai che ce l’hai quasi fatta!» lo incoraggiò Doddore. Marino gli tese le due sacche che lui passò a Dario e allungò una mano per aiutarlo nell’ultimo tratto di salita.

«Salute a voi!», disse approdando al loro livello e liberandosi del pesante zaino. «Vittorio?»

Come evocato dalla domanda, l’uomo si affacciò sulla soglia e lo salutò con la mano.

«Ciao. Muoviti che c’è un bel caffè che ti aspetta!»

«Bene» disse Marino. «E io ti ho portato i giornali» gli rispose sorridendo.

Nonostante all’ovile ci fosse una piccola radio a transistor e un televisore portatile in bianco e nero, che ricevevano un segnale alquanto debole e pochi canali, quei giornali erano l’unica vera finestra sul mondo e, soprattutto, sulle novità che riguardavano il sequestro di Fabrizio De André e Dori Ghezzi.

I quotidiani che l’uomo aveva portato con sé quella mattina, furono un tuffo al cuore per Dario. Quelli di martedì 28 agosto, ma soprattutto quelli del mercoledì erano pieni di notizie del rapimento di Fabrizio De André e Dori Ghezzi, avvenuto nella notte del lunedì nella residenza dell’Agnata. La coppia era sola al momento del sequestro. Dario lesse con un misto di esaltazione e di preoccupazione i titoli dei giornali ricevuti. “Banditi-padroni in Sardegna: rapiti Fabrizio De André e Dori Ghezzi” riportava a tutta pagina uno di quelli sardi. “Il cantautore De André rapito con la sua compagna in Sardegna” titolava, invece, in maniera più contenuta il più importante quotidiano nazionale.

 

 L’auto, una Citroen Quattro Cavalli targata Milano, sulla quale i due probabilmente erano stati prelevati, era stata ritrovata, dopo due giorni, nei pressi del porto di Olbia. Le indagini erano state affidate a un capitano dei Carabinieri ed era atteso in città il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, amico personale del papà di Fabrizio, che avrebbe forse coordinato le indagini. Si era già costituito un gruppo di lavoro che faceva capo alla procura di Tempio, competente per territorio e dove lavorava un giudice istruttore esperto in storie simili. Si sospettava che l’auto fosse stata abbandonata in quel luogo con lo scopo di depistare gli inquirenti. Gli ostaggi dovevano trovarsi infatti da tutt’altra parte, tra gli inaccessibili dirupi o in qualche caverna della Barbagia più profonda, immersa nella vegetazione impenetrabile.

Tutto il resto era frutto di illazioni, ipotesi, indignazioni, minacce, lamentele e analisi più criminali che sociologiche.

I sentimenti di Dario oscillavano tra la soddisfazione per la competenza mostrata dai compagni sequestratori, puntuali e precisi nel colpire la ricchezza privata da cui ricavare le risorse per realizzare la rivoluzione pubblica e i sensi di colpa per essere, seppure in quella sorta di semi incoscienza con cui oramai si stava abituando a convivere, un complice di quell’azione di forza diretta contro un suo amico d’infanzia. Uno che anche se apparteneva alla ricca borghesia, alla classe degli odiati capitalisti, era sempre una persona che gli aveva mostrato amicizia e solidarietà.

 Si rammaricò di quella situazione, di quel suo stato d’animo conflittuale e cominciò a chiedersi se non fosse stato più corretto per lui spiattellare tutto quanto, così da riscattarsi, almeno salvando il suo amico e la sua donna.

Ma, subito dopo, si diceva che lui non poteva essere un giuda, un pentito, un traditore. Non voleva. D’altronde il suo amico Fabrizio lo aveva già tradito, perché caso mai avrebbe dovuto parlare prima che lo rapissero, quando aveva saputo dell’intenzione di quegli uomini sconosciuti. Se invece lo raccontava adesso, sarebbe stato traditore due volte, in quanto avrebbe tradito anche i suoi compagni, senza contare lo sgarro fatto ai Sardi.

E poi, in fondo lui cosa sapeva veramente? Sarebbe stato in grado di guidare i baschi, come li chiamava Doddore, al nascondiglio dove era tenuto prigioniero Fabrizio? È anche vero che lui vedeva il pastore che li ospitava allontanarsi con la bisaccia piena di viveri in direzione della montagna, ogni qualvolta Marino giungeva al rifugio. Prova che soltanto lui, fungendo da vivandiere, doveva conoscere il nascondiglio preciso dove i due erano tenuti prigionieri in attesa del riscatto. Ma chissà in quale forra, caverna, macchia boschiva si trovava il suo amico!

E finalmente, era giusto che chi era vissuto nella ricchezza fosse esposto alle rivendicazioni di chi era povero! Quello era il prezzo da pagare per essere nati nell’agiatezza. Era questa una giustizia terrena, più solida e concreta di altre giustizie inesistenti, sulle quali campavano gli addomesticati dall’oppio delle religioni!

Era in buone mani, lo avrebbero liberato sano e salvo, dopo il pagamento del riscatto e sarebbe tornato alla sua bella vita fatta di agi materiali e ricchezza e il sequestro sarebbe rimasto soltanto un vago ricordo. Anzi, conoscendolo, ne avrebbe ottenuto un godimento spirituale, da quella avventura così rischiosa e truce. Capace di ricavarne perfino dei soldi, più di quanti ne avrebbe sganciati la sua famiglia!

Quando un domani, lui e i suoi compagni avessero preso il potere, avrebbe confessato tutto a Fabrizio personalmente. E lì, si sarebbe capito finalmente la vera natura del suo amico. Magari avrebbe ammesso di essere stato, seppure in quel modo involontario e violento, partecipe del successo del proletariato, della vittoria sulle ingiustizie, della rivalsa degli ultimi verso gli eterni primi, i ricchi di sempre.

Marino sembrò leggergli nei pensieri, mentre seduti alla grande tavola sorseggiavano il caffè, mentre lui e Vittorio divoravano i giornali con le notizie del sequestro.

«Che c’hai Dario, ti vedo perplesso?»

«Mi sto semplicemente chiedendo che significato abbiano, nel contesto rivoluzionario, questi sequestri di persona» rispose, poggiando il giornale che stava consultando. In realtà era preoccupato per il suo amico e la sua compagna, ma non voleva dirlo.

«Davvero non lo capisci?» intervenne Doddore, accalorandosi.

«No» affermò seccamente.

«Lascia che glielo spieghi io» disse Marino che non voleva dare via libera agli eccessi verbali del suo amico pastore. Aveva preso in simpatia il giovane dal primo giorno e in qualche modo aveva un istinto protettivo e di simpatia nei suoi confronti.

«Il sequestro di persona per noi comunisti è una semplice operazione di giustizia redistributiva. È un modo come un altro per cercare di livellare le sperequazioni sociali. Non dare retta alle menate che si leggono sui giornali, sulla odiosità del reato, sulla brutalità dei pastori cattivoni, selvaggi e spietati che considerano gli uomini sequestrati al pari delle bestie.»

«In effetti se non ci fossero le classi sociali, questo tipo di reato non esisterebbe, se ci pensi bene» intervenne Vittorio che sull’argomento si era evidentemente documentato.

Messa in quei termini Dario vide la questione sotto una luce totalmente diversa.

«In pratica chi si è impossessato arbitrariamente e con arroganza dei mezzi di produzione adesso dovrà rendere conto ai tribunali del popolo della sua condotta e subire la giusta punizione» ribadì Marino con calma.

«E comunque una cosa giusta l’hanno scritta i giornali. Nei sequestri noi abbiamo sostituito le pecore con gli uomini, ma l’abbiamo fatto per due buoni motivi. Gli uomini rendono più soldi e poi non belano» intervenne Doddore con una risata di soddisfazione.

Tutti risero della battuta. Dario sperò ardentemente che la famiglia di Fabrizio, da vera borghese, non fosse più attaccata al patrimonio che al proprio congiunto. Pensò anche che se la borghesia fosse stata veramente coerente, in generale non avrebbe mai ceduto al ricatto dei sequestratori. Ma anche questo pensiero rimase tra i suoi sentimenti in quella contorta vicenda.  E lui sentiva, nel profondo del suo animo, che per lui quella storia non si sarebbe conclusa bene, anche se sperava che almeno Fabrizio e la sua compagna potessero venirne fuori sani e salvi.

 

 

10.24.2024

Dario riflette sul sequestro di Dori e Fabrizio

 


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Capitolo Settimo

 

Dario e Vittorio si sistemarono nella stanza da letto, mentre Doddore dormiva nella sala. Stendeva una stuoia e si copriva con una pelle di capra. Il giovane, per rispetto all’età del loro ospite che, anche se non era vecchio, aveva almeno il doppio della sua età, si schermì dicendo che giustamente doveva toccare a lui dormire per terra.

«Qui non è questione di età, ma di abitudine» affermò il pastore. « A parte il fatto che tu sei un ospite e quindi non potresti mai dormire per terra, sappi che io l’ho sempre fatto, almeno qui all’ovile. Quando sono in paese è un’altra cosa, ma qui si dorme per terra» aggiunse l’uomo.

I giorni seguenti furono alquanto monotoni, ma intensi nella loro regolarità. Dario affiancava il pastore nell’attività lavorativa quotidiana, che iniziava all’alba, con la mungitura delle capre e la preparazione del formaggio. Poi il pastore le portava al pascolo, nell’area adiacente all’ovile. La pulizia del capannone toccava a Dario, che avrebbe voluto imparare a mungere e a fare il formaggio, ma l’uomo era stato molto evasivo riguardo alle sue richieste. La sera l’uomo, dopo il suo riposo pomeridiano, raggiungeva il suo gregge, con cui rientrava poco prima del tramonto. I giorni in cui faceva troppo caldo, il gregge lo riportava con sé all’ora di pranzo. In tal caso avrebbero ricevuto il secondo pasto della giornata nel capannone. Quello che, quantomeno agli occhi estranei, era il suo principale spiegò a Dario che con l’arrivo del maltempo, le uscite al pascolo si sarebbero diradate e le capre avrebbero mangiato sempre nel capannone. Ecco perché c’era tutto quel foraggio ammassato. Dario si rese conto, con il tempo, che quell’uomo dall’aspetto così freddo, quasi altero, era in realtà una persona alla mano, sincera nei suoi propositi, anche se restava complessivamente chiuso e forse restio, per natura, a mostrare i suoi sentimenti.

Tuttavia piano piano il giovane forestiero stava conquistando la fiducia del pastore. Dario si era accorto che all’inizio Doddore lo aveva quasi sottoposto a diverse prove per saggiare il suo temperamento. Lui si era mostrato disponibile a ogni richiesta di quello che, almeno per copertura, risultava fungere da suo datore di lavoro, assecondando con entusiasmo le sue richieste, anche quando quell’uomo dal carattere ruvido, abituato forse a trattare più con gli animali che con i propri simili, appariva scontroso e scortese. Il pastore cominciò ad aprirsi e a rispondere con maggiore cordialità alle domande che il giovane, incuriosito, gli porgeva. Dario gli chiedeva tutto quello che gli passava per la testa sulla vita dei pastori, sulle tradizioni e sulla cultura sarda. Così il giovane si stava appassionando alla storia della terra di sua madre che aveva completamente ignorato sino ad allora.

Il pranzo si consumava a mezzogiorno e la cena al tramonto del sole, quando ancora il riverbero della luce solare era sufficiente a rischiarare l’ampia sala dove si consumavano i pasti.

A tavola, prima, durante e dopo i pasti, si svolgevano grandi chiacchierate. Non si può certo dire che il suo sedicente datore di lavoro fosse culturalmente impreparato. I suoi ragionamenti collimavano con i massimi sistemi di Vittorio, anche se il Sardo sognava una Sardegna libera dalle servitù militari e indipendente dai legami politici con Roma.

Quando si ritiravano per il riposo pomeridiano, stanchi delle chiacchiere e appesantiti dal vino, Dario, che non riusciva a dormire, prese l’abitudine di uscire a passeggiare.

Lo richiamava lo scorrere del fiume, l’unico rumore che si udiva nel silenzio di quella calura estiva, escluso un improvviso fruscìo, dovuto al movimento di qualche volatile che si spostava da un albero all’altro.

Si sedeva sul dosso della sponda del fiume a osservare l’acqua e lo stormire delle fronde, fumando e pensando. I discorsi dei suoi amici gli frullavano in testa insieme a mille altre cose e si stava convincendo della giustezza della scelta che aveva fatto di aderire alla lotta armata. Anche se la notizia che avessero scelto di sequestrare il suo amico Fabrizio insieme alla sua compagna Dori, gli aveva causato non pochi disagi interiori. Vittorio lo aveva rassicurato che nei loro piani c’era soltanto quello di tirare su un po’ di quattrini. Il loro gruppo aveva anticipato i soldi, per le spese di organizzazione del sequestro, e che erano frutto delle rapine compiute dai compagni di Genova e Torino in precedenza. Il gruppo era composto da una mezza dozzina di orunesi, di cui Doddore era il referente, e da un trio di bittesi. Gli stessi che erano transitati per l’ovile, capitanati da un coetaneo e amico dello stesso pastore orunese, padrone dell’ovile che li ospitava.

Oltre ad aiutare i compagni Sardi, ne avrebbero avuto un ritorno economico; senza contare il ritorno di immagine che il sequestro avrebbe dato alla costituenda colonna delle Brigate Sarde.  Insomma Fabrizio non correva alcun rischio e neppure la madre di sua figlia Luisa Vittoria, detta Luvi. Ma Dario non aveva bisogno che glielo dicessero gli altri che una persona sequestrata era comunque esposta a parecchi rischi. Senza contare l’infelice battuta di cattivo gusto che uno dei giovani banditi bittesi aveva fatto su Dori Ghezzi e che a lui non era piaciuta per niente.

Per Dario non era un problema ideologico. Fabrizio era un figlio della opulenta borghesia ed era giusto che il padre dovesse sborsare un po’ di soldi per finanziare la lotta armata. Il suo patema d’animo non era sicuramente quello. Lui non amava, secondo la sua etica comportamentale, il tradimento dell’amicizia sincera e autentica che li aveva uniti dall’infanzia e ancora lo legava a Fabrizio.

Un giorno, mentre era immerso in questi e in altri pensieri, vide sopraggiungere un uomo. Aveva in mano un falcetto e si mise a tagliare dei giunchi che andava ammucchiando sulla sponda del fiume. L’uomo procedeva con colpi secchi e sicuri della piccola falce che stringeva nella mano sinistra, mentre ricurvo, con la destra afferrava, a mazzi, i vegetali che andava tagliando.

Dalla sua posizione non poteva vedere Dario, che si trovava in una posizione rialzata rispetto a lui. Quando ne ebbe ammassato un bel mucchio, il tizio si mise a tagliare delle canne. Indossava dei corti stivaletti di gomma che affondavano nell’acqua non troppo profonda del fiume. Anche le canne furono ammucchiate sulla sponda, accanto ai giunchi.

Dario sentì l’impulso di andare ad aiutarlo. Avvicinandosi si accorse che l’uomo non era vestito con gli abiti tipici del pastore. Era magro, con la pelle cotta dal sole e un viso asciutto incorniciato da una barba lunga e grigia. Nonostante i suoi agili movimenti, Dario giudicò che dovesse essere abbastanza avanti negli anni. A maggior ragione riteneva giusto offrirgli quella mano d’aiuto.

«Posso essere d’aiuto?» chiese. Si trattava di una domanda retorica, in quanto nel dirlo si era già preso sulla spalla destra il fascio delle canne. L’uomo parve alquanto sorpreso ma si limitò a puntargli addosso gli occhi piccoli e vispi. Per tutta risposta, infatti, si avviò con i giunchi sotto braccio. Dario lo seguì.  Il vecchio emise un fischio e subito comparve un pastore tedesco che si mise a lato dell’uomo. Adesso entrambi procedevano lungo un impervio percorso che li condusse più in alto rispetto al fiume.  Si fermarono a ridosso di una capanna circolare che aveva la base in pietra e la parte alta ricoperta di frasche.

«Dove le metto?» chiese il giovane, che si accorse di avere il fiatone. Ma anche questa sua domanda rimase senza risposta. Il vecchio era già entrato nella capanna. Si limitò a farle cadere per terra e a dare un’occhiata in giro. Notò poco distante una capretta che frugava tra le rocce, con il muso alla ricerca di qualche filo d’erba o di qualche ramoscello ancora verde. Ogni volta che spostava il capo, si udiva il tintinnio d’un campanaccio che doveva portare legato al collo. Quel suono si univa al mormorio lontano del fiume che scorreva più in basso. Tutt’attorno regnava una fitta vegetazione. La capanna sembrava integrarsi a perfezione in quel paesaggio. Da un ricovero di frasche non molto discosto si udì un nitrito, seguito subito da un forte raglio. Poi il silenzio si impossessò nuovamente del luogo.

Trascorso un po’ di tempo stava per andarsene, dopo avere scrollato le spalle, quando il vecchio riemerse. Aveva in una mano ancora dei giunchi ma non così freschi come quelli che aveva appena tagliato. Nell’altra, aveva uno sgabello di legno e glielo porse, ancora senza parlare. Notò che non aveva più gli stivali ai piedi ma indossava un paio di scarponi. Lui si sedette sopra un’enorme pietra piatta e squadrata, incastrata per terra, a lato dell’ingresso della capanna, che sporgeva come un trono rudimentale.  E si mise a intrecciare subito i vimini raccolti. Il cane si era accucciato ai suoi piedi e sonnecchiava tranquillo.

Dario osservava con interesse il lavoro dell’uomo. I movimenti delle sue mani gli ricordarono i vecchi che da bambino aveva osservato al porto di Genova, mentre riparavano le reti della pesca. Il vecchio procedeva sicuro, ripetendo all’infinito gli stessi agili movimenti. L’unica differenza era nel risultato che cresceva nelle sue mani. Dario immaginò il fondo di una sedia o magari il ripiano di un cestino. Girò lo sguardo attorno e osservò meglio la capanna. I rami, che coprivano la parte superiore, arrivavano sino alla sommità e da un lato spiccava il comignolo di un camino.

Dopo avere fumato un’altra sigaretta, decise di tornare all’ovile di Doddore. Lui e Vittorio a quest’ora si sarebbero svegliati e preferiva farsi trovare nelle vicinanze. Tuttavia non sapeva come accommiatarsi da quel vecchio silenzioso. Avrebbe voluto tendergli la mano e presentarsi, ma ripensandoci, sarebbe stata una gaffe colossale se l’uomo fosse stato sordomuto e poi gli sembrava scortese interrompere quelle mani laboriose che continuavano senza sosta a intrecciare sapientemente quei giunchi secchi. Optò per un saluto con un cenno della mano. Però, non poteva andare via senza restituire lo sgabello; per cui si avvicinò alla capanna, posò lo sgabello vicino all’ingresso, mormorando un grazie e con un gesto rivolto all’anziano si accinse a ridiscendere verso il fiume. Da lì sarebbe risalito verso l’ovile. Il vecchio sembrò salutarlo con gli occhi, sollevando appena lo sguardo dal suo lavoro. Ma fu soltanto un attimo o magari una sua impressione. Forse l’uomo era davvero sordomuto.

Al suo rientro all’ovile trovò Salvatore già in piedi che armeggiava con la macchinetta del caffè.

«Lo vuoi anche tu un caffè?»

«Volentieri» rispose, sedendosi al piccolo tavolo della cucina. Stava per chiedergli se conoscesse il vecchio che aveva conosciuto quando sopraggiunse Vittorio.

«Sei stato a fare un giro?» gli chiese il suo amico.

«Ho conosciuto un vecchio, dall’altra parte del fiume» disse Dario per tutta risposta.

«È per caso uno che vive in una pinneta di frasche? Uno che intreccia cestini di vimini e fa lavori di incisione sul legno?» intervenne Doddore.

«Sì, proprio lui. Ma è per caso sordomuto?»

«No» rispose il pastore ridendo. «Lo chiamano Su Spagnolu, este unu casticatu» proseguì in sardo, sempre ridendo.

«Casticatu? Cosa vuol dire?» chiese il giovane incuriosito.

 «È un tipo strano. Mezzo matto» confermò Doddore toccandosi la testa.

«Stai attento quando vai in giro, a non attirare l’attenzione» gli disse Vittorio in tono serio. «È pericoloso questo vecchio?» soggiunse rivolto a Salvatore.

«Tranquillo. L’uomo parla poco e quando lo fa si esprime in un linguaggio molto stretto, un misto di sardo e spagnolo. I baschi avrebbero bisogno di un interprete per comunicare con lui».

«Ciò non toglie che ci voglia prudenza» replicò Vittorio rivolto a Dario, addolcendo il tono della voce.

«A proposito di baschi e di prudenza, dopo il caffè voglio mostrare a Dario una cosa importante» disse il pastore, levandolo dall’imbarazzo.

Subito dopo averlo bevuto si spostarono infatti nella sala grande.

Doddore spostò il tavolo che campeggiava al centro della sala e provvide a scostare il tappeto sopra il quale poggiavano i suoi piedi.

«Se per qualunque motivo io non fossi qui, quando vedi spuntare i baschi o altre persone pericolose, qui sotto c’è una botola, che attraverso un passaggio sotterraneo conduce a valle. Fai entrare Vittorio e poi rimetti tutto a posto. Tu puoi giustificare la tua presenza qui in ovile, qualificandoti come un mio cugino sassarese per parte di tua madre, tanto più che sei incensurato e non hai niente da temere. Ma Vittorio non lo devono trovare qui per nessuna ragione» disse, rivolgendosi soprattutto a Dario.

«Sperando che ci sia il tempo per fare tutte queste manovre» osservò Dario, tanto per dire qualcosa.

«Tranquillo che di tempo te ne avanzerà. L’accesso all’ovile, come hai potuto sperimentare tu stesso, è alquanto impervio. In ogni caso i miei cani fiutano i baschi a distanza e ti avviseranno del loro arrivo quando ancora saranno lontani» lo tranquillizzò con sicurezza.

«E adesso, se vi fa piacere, vi propongo una partita a carte» aggiunse mentre rimetteva a posto il tappeto e il tavolo. «Dopo ci aspetta la pulizia del capannone e il secondo pasto delle capre» affermò ancora rivolto al giovane amico di Vittorio.

 

 

 

 

 

10.19.2024

A su Gorropu

 

 


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Capitolo Sesto

 

La mattina, Marino ci tenne a fargli visitare la città. Lo portò in giro, nei dintorni e poi sul Monte Ortobene. Lì visitarono il Museo Archeologico nazionale. Gli spiegò con orgoglio alcuni tratti salienti dei bronzetti e delle sculture che testimoniavano la grandezza dei loro antenati, compresi quelli della madre di Dario, che lui, in realtà, non aveva mai tenuto in grande considerazione.

Quella sera, Marino gli comunicò che il giorno dopo sarebbero partiti presto. Dario avvertiva di nuovo quella barriera che gli era sembrata esistere tra loro nel momento del loro primo incontro. Quella magica empatia che si era stabilita dopo il pranzo sembrava essersi dissolta.

Il giorno successivo, di buon mattino, dopo una frugale colazione, mentre ancora la città era avvolta nel silenzio, risalirono in macchina.

Dario notò che la macchina aveva raggiunto la periferia della città, oltre la stazione e la zona industriale e avere superato Prato Sardo per imboccare una strada provinciale. Nella segnaletica aveva fatto in tempo a leggere “Orgosolo” come prima indicazione.

«Non ti dispiace se metto una cassetta di Fabrizio De André? Mi hanno regalato da poco il suo ultimo lavoro. Si chiama Rimini, probabilmente lo conosci già.»

«Non mi dispiace affatto. Anzi, mi fa piacere.»

Dario capì che l’uomo non aveva più voglia di parlare. E lo lasciò alla sua guida silenziosa, immergendosi nei suoi pensieri.

Dopo un bel tratto di strada, Dario sognava che quel complesso nuragico il cui profilo si stagliava in lontananza, conducesse a un vecchio pozzo sacro, attraverso un sentiero assolato. Il paesaggio ai bordi della strada aveva qualcosa di desertico, anche se in lontananza si poteva immaginare che le montagne, ancora avvolte nella nebbia, fossero ricoperte da una vegetazione sempre verde.

Quando l’automobile, invece di imboccare la strada per Orgosolo, come si era immaginato, si infilò in una stradina sterrata sulla sinistra della provinciale, Dario si scosse dal torpore dei suoi sogni fantasiosi.

«Pensavo stessimo andando a Orgosolo!»

«E che ci andiamo a fare a Orgosolo?» disse Marino senza distogliere lo sguardo dalla strada.

Visto che il compagno di viaggio non aveva nessuna intenzione di aggiungere altro, Dario si abbandonò di nuovo alle note e alle parole della cassetta che continuava a gracchiare dal mangiacassette dell’auto. Pensò che su quella strada sconosciuta, che proprio in quel momento stava percorrendo, lo aveva spinto la delusione della rivoluzione del sessantotto nella quale ingenuamente aveva creduto. E se aveva deciso di abbandonare i sogni e le utopie, per scendere sul terreno della lotta armata, lo aveva fatto perché si era accorto che in tanti, anche tra gli operai, si erano rinchiusi nel proprio orticello, diventando perfetti ingranaggi della società capitalistica e consumistica. Era a questo che lui si era ribellato. Non sarebbe mai diventato un birillo nelle mani di giocatori rapaci e predatori. Non voleva diventare una mera unità produttiva, quasi un numero di serie, da inserire in una catena produttiva e spendere la sua vita dentro una tuta blu, senza anima e senza speranza.

Mentre lui seguiva i suoi pensieri, l’auto si inerpicava ancora sul costone della montagna. All’improvviso si arrestò in uno spiazzo sterrato.

«Siamo arrivati?» chiese sorpreso.

«Non ancora» disse Marino scendendo dall’auto. «Seguimi. Ci aspetta una bella passeggiata» aggiunse subito dopo, inoltrandosi nella fitta vegetazione.

A Dario sembrava di percorrere un sentiero mai battuto prima.

All’inizio procedettero per un lungo tratto, attraverso una bassa vegetazione composta da cisti, ginestre e altri cespugli ai quali Dario non avrebbe saputo dare un nome sicuro.  Poi Marino, che lo precedeva, cominciò a farsi largo a forza di braccia tra corbezzoli, olivastri e ginepri. Il terreno appariva accidentato per la presenza di numerose pietre.  Tuttavia lui procedeva sicuro e Dario lo seguiva a fatica ma con fiducia. Quando già gli dolevano le braccia e le gambe, in quel continuo e impervio saliscendi, sbucarono in un’ampia vallata dominata da alberi di alto fusto, per lo più querce e sughere.

«Vieni, riposiamo un poco» disse Marino dirigendosi in uno spiazzo ombreggiato. «Stanco?» aggiunse appena furono seduti su due rocce sporgenti, porgendogli una borraccia che aveva estratto dallo zaino poggiato a terra.

Dario non avrebbe voluto ammettere di esserlo, ma le sue membra indolenzite gli suggerirono di non giocare troppo a fare il duro. Non era davvero il caso.

«Abbastanza» si limitò a dire con un sospiro, restituendo la borraccia, non prima d’avere bevuto con avidità un lungo sorso d’acqua. Intorno non sembrava esserci anima viva. Il silenzio era interrotto soltanto dal fruscìo degli alberi e dal richiamo di qualche volatile che si spostava da una fronda all’altra. Un sordo mormorìo che sentiva provenire da sottoterra, gli suggerì che da qualche parte dovesse sfociare un fiume sotterraneo.

«Forse è meglio che mangi qualcosa di sostanzioso» propose Marino porgendogli del pane e del formaggio.

«Manca ancora molto?» chiese Dario con tono di rassegnazione.

«Siamo circa a metà strada» rispose la sua guida già impegnata a masticare.

Lo imitò cercando di fare durare il più possibile quel pasto improvvisato. Finito di mangiare si sarebbe steso volentieri a dormire ai piedi dell’albero, ma non disse niente.

Nonostante la stanchezza, ripresero la marcia a passo più spedito. Adesso bisognava stare attenti soltanto alle pietre, sulle quali facevano leva per procedere sempre più in alto. A mano a mano che procedevano Dario vedeva avvicinarsi le creste dei monti che aveva osservato da lontano. Ora apparivano più marcate e non erano più un profilo indistinto all’orizzonte. Dopo l’ennesima salita, Marino parve indugiare osservando da lontano una costruzione rustica che si stagliava in fondo a uno spiazzo, protetta alle spalle da uno sperone roccioso e attorniata da alberi.

Sporgendosi di lato a una quercia robusta, si portò le mani alla bocca ed emise un suono prolungato, quasi un canto di civetta e poi si nascose subito dietro il tronco tendendo l’orecchio. Dalla costruzione uscì una figura maschile che si guardò attorno. Marino ripeté quel suono lamentoso e subito l’uomo rispose con lo stesso segnale, replicato due volte.

«Andiamo» disse Marino rilassandosi ed esibendo un sorriso di soddisfazione.

L’uomo ci aspettò sul ciglio del piccolo altipiano, al quale accedemmo per un canalone, che forse in inverno dava sfogo alle acque piovane in discesa dai monti soprastanti. Tese la mano anche a Dario per superare con un balzo l’ultimo tratto. E fu allora che lo riconobbe. Era lo stesso uomo che aveva visto in compagnia di Vittorio all’Agnata. Si sorprese a ricordare che quella sera Fabrizio, venuto a conoscenza che lui aveva deciso di ripartire, dopo cena aveva preso la chitarra in mano. Da quando era suo ospite non l’aveva mai fatto. Del resto, era risaputo che il suo amico non amasse molto esibirsi in pubblico, ma invece quella fu una serata indimenticabile e a Dario era sembrato che la sua anima e quella di Fabrizio si fondessero insieme mentre intonavano le note della “Guerra di Piero” e “Bocca di Rosa”.

 

«Benvenuti a Su Gorropu» disse l’uomo quando entrambi furono approdati al suo livello.

«Ciao Salvatore. Vittorio è già qua?» chiese Marino ringraziando.

«È dentro. Ci sono anche gli altri» rispose l’uomo precedendoli verso il caseggiato.

Il fabbricato consisteva in una vera e propria casa. Vi si accedeva per una grande stanza con un ampio caminetto e una finestra che si affacciava sulle montagne retrostanti. Poi vi erano una cucina, un bagno e una camera, alquanto spoglia, con due lettini. Accanto all’abitazione, un capannone ospitava un piccolo gregge di capre che costituiva in pratica la copertura per Salvatore, detto Doddore che, a ogni buon conto, era un vero pastore di professione.

Al centro della prima stanza capeggiava un lungo tavolo intorno al quale sedevano quattro persone. Uno era Vittorio, gli altri tre erano vestiti come il padrone di casa, anche se i colori degli indumenti erano più scuri. Due erano più o meno della sua stessa età, il terzo era decisamente più avanti negli anni.

Non ci furono presentazioni formali, ma soltanto dei saluti frettolosi, anche se cordiali. Doddore, l’uomo a cui Dario poteva dare finalmente un nome, procurò due sedie per i nuovi venuti. Appena tutti e sette gli uomini furono accomodati, Vittorio si rivolse al più anziano dei tre visi nuovi che Dario aveva trovato entrando. «Oh, Bainzu, quindi mi confermi che la data fissata è quella del 27 agosto?»

«Sì» rispose l’uomo. «Da informazioni sicure sappiamo che il giorno prima partiranno tutti gli ospiti, compresi i suoceri con la figlia piccola di De André e Dori Ghezzi.  Ci sarà soltanto la coppia che dobbiamo prelevare e tutto sarà più facile» affermò l’uomo.

Dario sentì un brivido lungo la schiena. Vittorio sembrò accorgersi del suo improvviso disagio. «Tutto a posto Dario?» gli chiese.

«Sì, certo. Sono soltanto stanco» si affrettò a rispondere.

«Avrai tempo di riposare. Tu resterai qui con me e con Doddore» disse Vittorio per rincuorarlo.

«E stai tranquillo, i tuoi amici li tratteremo bene» sentenziò il più anziano dei tre.

«Purché qualcuno paghi il dovuto» commentò ridendo uno dei due giovani.

«Io veramente sono amico di Fabrizio» disse tanto per rompere il ghiaccio.

«Allora non ti dispiace se balleremo un po’ di Casatschok con Dori Ghezzi?» suggerì con una risata il terzo sconosciuto, che non aveva ancora parlato.

La battuta piacque soltanto all’altro giovane, quello che aveva parlato dei soldi.

L’anziano che il pastore aveva chiamato Bainzu gli rivolse uno sguardo alquanto torvo.

«Non so con chi tu le abbia fatte certe cose, ma con me non le farai di sicuro» gli disse l’anziano con tono gelido.

Il giovane smise subito di ridere e si acquietò come un cane bastonato. «L’ho detto così, per scherzare» ammise con tono dimesso.

«Sarà meglio per te» lo rimbeccò ancora severamente quello che sembrava il capo indiscusso del terzetto. 

«Con la nostra parte di soldi ci procureremo tante di quelle donne che non rimpiangerai né il Casatschok, né il tango e neppure il “Ballu tundu”» disse l’altro giovane per spezzare la tensione.

«Quindi è a “Sa Grutta e s’Astori” che dovrò portarvi le vivande?» chiese Doddore.

«Sì» confermò il pastore anziano.

«C’è già qualcuno lì?»

«I tuoi compaesani» rispose ancora l’uomo.

«Ho capito. Mangiate qualcosa con noi prima di andare via?» propose il padrone di casa alzandosi in piedi.

«No» rispose l’anziano, alzandosi anche lui. «Probabilmente stanno arrostendo qualcosa anche per noi lassù». Gli altri due lo imitarono.

«E tu Marino, cosa fai?»

«Io rientro in città. Tornerò tra qualche giorno con le provviste»

«Va bene. E non dimenticare un po’ di giornali» gli raccomandò Vittorio.

«Contaci» lo rassicurò Marino.

E mentre i tre sconosciuti prendevano la via del monte, Marino si avviò, questa volta in discesa, per lo scosceso canalone.

A Su Gorropu restarono Dario, Vittorio e Doddore. In attesa dello sviluppo degli eventi e dell’arrivo di notizie.

10.18.2024

Dario incontra Barbagia Rossa

 


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Capitolo Quinto

 

 

Di buon mattino Dario lasciò l’Agnata. Fabrizio aveva insistito perché fosse accompagnato da un suo collaboratore almeno sino a Tempio. In sua presenza, alla stazione Arst, comprò un biglietto per Sassari, anche se sapeva bene che questa volta avrebbe proseguito per Nuoro. Ma non disse niente a nessuno di questa sua intenzione.

Durante il viaggio si perse nei suoi pensieri, osservando il paesaggio agreste che si susseguiva chilometro dopo chilometro. Muretti di pietre a secco contrassegnavano il paesaggio ai lati della strada, limite e confine delle numerose tanche, spesso adibite a pascolo delle mucche e delle greggi, con fitti gruppi di macchia mediterranea a perdita d’occhio, che si inerpicavano nelle valli e nei monti circostanti. L’odore del cisto, del lentischio, del ginepro, della menta selvatica e degli altri aromi della vegetazione penetravano dai finestrini socchiusi e si percepivano più intensamente ogni volta che il pullman si fermava per fare salire qualche passeggero o per consentire a chi già fosse a bordo di scendere.

A Sassari scese per sgranchirsi le gambe e comprare un biglietto di prosecuzione sino alla sua meta di destinazione.

Scendendo a sud, il paesaggio si fece ancora più selvaggio e i centri abitati meno frequenti. Ma il sonno, a un tratto, ebbe il sopravvento sui suoi pensieri e si addormentò.

Una volta giunto a Nuoro, Dario preferì telefonare. Dopo molti squilli, quando stava per riattaccare la cornetta, una voce profonda si udì dall’altro capo del telefono.

«Chi è?»

Dario si ricordò che Vittorio gli aveva suggerito la massima discrezione, parlando il meno possibile al telefono e sempre senza fare nomi.

«Sono l’amico continentale che dovevate ospitare i mesi scorsi…»

«È sicuro di avere fatto il numero giusto. Questa non è una casa vacanza per continentali.»

Prima che quello riattaccasse Dario pensò bene di sbilanciarsi un poco.

«Mi mandano i compagni di Genova e non per vacanza.»

Dopo un attimo di incertezza, l’altro sembrò capire. «Dove sei?»

«Alla stazione dei pullman, in via La Marmora.»

«Aspettami che vengo a prenderti.»

Dario riattaccò e si guardò in giro. Sentiva un po’ freddo, anche se il sole, alto sopra l’orizzonte, sembrava essersi deciso a riscaldare un po’ l’aria.  Decise di sgranchirsi le gambe e si mise a passeggiare in cerca di un bar. Dopo un buon caffè si accese una sigaretta e si riavviò verso la stazione dei pullman. Notò subito un tipo, con gli occhiali e una barba rada e grigia, che lo osservava. Si aspettava di vedere l’uomo che aveva visto con Vittorio nella boscaglia dell’Agnata, ma non era lui. Intanto perché era vestito in maniera molto normale.

«Sei tu il genovese?» gli chiese sottovoce. Ostentava indifferenza e parlò senza quasi guardarlo.

«Piacere sono…»

«Seguimi» lo interruppe l’altro, voltandogli le spalle. «Le presentazioni le facciamo dopo.»

L’uomo, sulla quarantina, aveva parcheggiato la sua auto poco lontano. In macchina scoprì che si chiamava Marino. Gli disse che aveva sentito Vittorio al telefono, la sera prima, e che sapeva tutto.

«Quindi Fabrizio De André è un tuo amico d’infanzia?» chiese l’uomo dopo un rapido scambio di nomi e di formalità.

Anche se la domanda fu pronunciata con tono ammirato, l’assenso di Dario non fu dello stesso tenore.

«Caspita! Lo sai che è il mio cantautore preferito?» domandò Marino. «Ma che tipo è questo Fabrizio De André? Io l’ho sempre considerato uno di noi, magari un po’ troppo anarchico e troppo poco inquadrato, ma in ogni caso un uomo di sentimenti e di idee nelle quali mi riconosco pienamente» continuò, visto che Dario si era limitato, come prima, ad annuire.

«Non è mai stato uno di noi» disse finalmente Dario, dandosi un tono saccente.

«No?» chiese quello deluso. «E perché?»

«Il padre è impaccato di soldi e anche lui, in fondo, è nato benestante e al di là delle apparenze resta un borghese.»

«Ah! Ma pensa! Io credevo che fosse un tuo amico» esclamò Marino sorpreso.

 «Che c’entra? Una cosa è essere stati amici nell’infanzia, un’altra è constatare che ancora oggi ci separa un abisso ideologico ed economico. Anzi, questa nuova consapevolezza, getta anche un’ombra sulla nostra infanzia.»

«In che senso?»

«Nel senso che, con il tempo, ti rendi conto che tu nella vita non hai avuto un belin, mentre altri sono cresciuti nella ricchezza e continuano a farlo. Non hai visto che cosa si è comprato nelle campagne di Tempio?» aggiunse Dario, contento di sorprendere il suo interlocutore.

«No, ma ne ho sentito parlare, anche se non sono mai stato lì. Non mi ero immaginato una cosa di lusso, però.»

«Beh, io non parlo di lusso. Ma quella tenuta enorme, con tutti quegli animali, deve valere una fortuna.»

«Allora hanno visto bene i bittesi» replicò Marino.

«In che senso? E chi sono questi bittesi?»

«Ogni cosa a suo tempo» disse l’uomo fermando l’auto sul bordo della strada. «Siamo arrivati.»

La palazzina stile anni cinquanta davanti alla quale si erano fermati aveva un aspetto anonimo in quella che appariva sicuramente la periferia di Nuoro. In lontananza Dario osservò il profilo dei monti, oltre una vallata sul cui ciglio vi erano sparsi altri edifici sorti nello stesso periodo o forse anche un decennio dopo.

«Lascia pure qui il tuo bagaglio. Dopo pranzo ti mostrerò dove potrai sistemarti. Ti faccio strada in cucina. Ti dovrai accontentare di un pranzo freddo e improvvisato» disse l’uomo appena furono dentro casa.

Il pranzo era freddo, seppure quel pane asciutto, quel formaggio e quella salsiccia avevano un profumo e un gusto che Dario apprezzò e soprattutto quel vino rosso gli rallegrò l’animo e mise entrambi di buonumore. Dopo il caffè si trattennero ancora in cucina, a chiacchierare. Una canna che Marino gli passò, dopo avergli semplicemente chiesto se gli piacesse fumare, gli sciolse la lingua definitivamente, abbattendo le barriere della diffidenza che prima si erano frapposte tra loro. L’uomo che aveva davanti, adesso gli ispirava una totale fiducia. Dario gli confidò i suoi sentimenti rivoluzionari, ma anche i dubbi e la crisi che lo avevano investito dopo quell’azione di fuoco in cui era morto il sindacalista dell’Italsider.   Evidentemente la sua sincerità gli piacque e lo ascoltò con profonda partecipazione, annuendo ogni tanto, come per incoraggiarlo a continuare il suo racconto.

«Ma lo sai che io sono qui, a Nuoro, senza sapere il vero motivo che ha spinto Vittorio a mandarmi da te? Non mi fraintendere. Io sono convinto e leale verso di lui e verso la nostra causa, ma certe volte vorrei sapere di più, capire meglio…non so se tu mi comprendi. »

«Certo che ti capisco. Ma guarda che qualche volta è meglio non sapere e non intendere, credimi».

«Che significa?» chiese Dario che ormai aveva fiducia in quell’uomo.

«Voglio dire che ciascuno di noi deve svolgere il suo ruolo, dando ciò che ha e ciò che può, senza porsi troppo domande e senza cercare di analizzare ciò che a volte è meglio non comprendere…»

«Continuo a non capire» affermò Dario accendendosi una sigaretta. Sentiva la gola secca e bevve un abbondante sorso d’acqua.

«Ti faccio un esempio pratico. Prendi me. Io sulle armi ho le tue stesse perplessità, ma ti ammiro perché sei riuscito a fare parte di un commando armato. Io non sarei capace, non è soltanto questione di coraggio, credimi. È che io ho la vocazione per fare altro. Vittorio e i miei amici bittesi e non soltanto quelli lo hanno capito e non mi chiederebbero mai di fare parte di un gruppo d’assalto o di partecipare a un’azione di fuoco…»

Dario lo guardò con aria interrogativa, senza parlare. Marino sembrò interpretare correttamente la sua aria sorpresa, perché continuo a raccontare.

«Io svolgo una funzione da intermediario tra il mondo pastorale, che conosco bene, dato che mio padre produceva formaggi e da piccolo mi portava con sé, in giro per gli ovili a ritirare il latte che gli serviva per la sua impresa nascente e il mondo degli intellettuali dei quali faccio parte in qualità di insegnante.»

«E quindi?»

«Quando sento dire qualcosa da qualcuno, non faccio domande. Ho introdotto Vittorio nella realtà agropastorale e il mio compito è finito là. Sono a disposizione del movimento per altri compiti ma non sarei capace di fare altro. Credimi se ti dico che non è stato facile per me accettare, ma sono convinto che fosse la cosa giusta, in questo momento storico, e l’ho fatto, restando fedele, in un certo senso, alla mia vocazione non violenta.»

«Ma perché Vittorio è voluto entrare in contatto con il mondo dei pastori?» chiese ancora Dario che adesso cominciava a capire chi fosse quell’uomo silenzioso che aveva visto nelle campagne dell’Agnata in compagnia di Vittorio.

«Io questo non lo so. Posso intuirlo e poi, più che Vittorio sono stati i suoi amici guerriglieri a chiedermelo.»

«Amici guerriglieri?», chiese Dario d’istinto, sentendosi subito dopo uno sciocco.

«I giornali li chiamerebbero terroristi o fuorilegge ma loro preferiscono autodefinirsi guerriglieri e combattenti per la liberazione della Sardegna dal giogo colonialista.»

«Quindi anche i pastori lottano per una Sardegna comunista, libera dall’oppressione capitalistica?»

«Vittorio e gli altri ne sembrano convinti»

«Tu no?» domandò ancora ingenuamente il giovane.

«Molti di loro lottano e agiscono per degli ideali ma non siamo tutti uguali al mondo.»

Anche stavolta Marino sembrò leggere nella mente di Dario le perplessità che avevano suscitato le sue parole.

«D’altronde, alcune volte mi ritrovo a riflettere su cosa pensano i sassaresi e i cagliaritani, cioè la maggioranza numerica dei Sardi, di questa nostra lotta rivoluzionaria. Se anche vincessimo, ci seguirebbero di buon grado? L’accetterebbero?»

«Nelle nostre riunioni ho sempre sentito dire, da quelli che ne sanno più di me, che sono le élites a prendere il potere. Le masse devono seguire, perché hanno bisogno di essere guidate.»

« L’ho letto anche io da qualche parte. Ma vedi, noi Sardi siamo troppo fatalisti per credere davvero nella vittoria finale. Personalmente ho sempre pensato che sarebbe stato diverso se non fosse morto un certo editore, uno con i soldi e la testa da condottiero. Lui sì che ci credeva nella rivoluzione, anche se alcuni dicono che avesse confuso la Sardegna con Cuba.»

Marino, invece di soddisfare l’aria interrogativa che aveva visto ancora dipingersi sul viso del suo interlocutore, questa volta si alzò di scatto dopo avere guardato il suo orologio da polso.

«Devo uscire a telefonare. Vieni che ti mostro la tua stanza. Mettiti a tuo agio, io ritorno subito».

Andando via Marino gli rivolse un ultimo saluto. «Guarda che il telefono, qui in casa, funziona. Dipende soltanto da quello che devi dire e a chi tu debba telefonare.»

10.17.2024

Il Manuale del perfetto orologiaio

 

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Capitolo Quinto

«Eccellenza, gli ospiti spagnoli sono giunti e chiedono di essere ricevuti», disse il primo segretario con una certa agitazione nella voce, affacciandosi alla porta dello studio che il vice legato aveva lasciata aperta in attesa dell’arrivo di quegli ospiti lungamente attesi.

«Finalmente! È tutto il santo giorno che li aspetto», disse rivolto al suo interlocutore, interrompendolo. Poi, rivolto al suo braccio destro aggiunse: «Falli accomodare e poi recati subito in sala da pranzo. Che tutto sia pronto a dovere per il desinare degli ospiti!»

Un uomo dal fisico atletico e dall’età indefinibile e apparente, tra i quaranta e i cinquant’anni, fece il suo solenne ingresso nell’ufficio. Seppure non tanto alto, aveva un passo marziale, in linea con la foggia dei suoi abiti, che avevano qualcosa di militaresco. La barba e i baffi, ben sagomati, erano neri e leggermente spruzzati di grigio, come la sua folta capigliatura. Che fosse un militare venne confermato dal colpo di tacchi che diede, scattando sugli attenti, per presentarsi al padrone di casa, andatogli incontro in segno di accoglienza e rispetto.

«Don Agostino Barozzi ho il piacere di presentarvi don Pedro Domingo Mendoza Martinez, inviato di sua maestà il re di Spagna Filippo IV! Don Pedro, lasciate che vi presenti il Presidente del Tribunale dell’Inquisizione di Ferrara, confermato in sede da Sua Santità, il nuovo papa Urbano VIII», disse subito dopo avere dato il suo caldo benvenuto all’ospite ed essersi a sua volta presentato, volgendosi all’indietro verso l’ imponente figura di un  religioso vestito di bianco.

All’Hidalgo don Pedro, quell’accoglienza in pompa magna, piacque soltanto a metà. Apprezzò l’utilizzo della lingua spagnola, che i due prelati italiani, da buoni diplomatici, padroneggiavano assai bene.

E gli piacque, tutto sommato, la figura rotonda e gioviale del vice legato. Forse perché lo superava in statura; inoltre la sua stretta di mano, debole e soffice, denotava un carattere poco bellicoso, anche se gli suggeriva, per esperienza, di guardarsi le spalle dalle sue azioni segrete.

Ciò che più di tutto lo mise a disagio, anche se soltanto a un livello epidermico, fu però quel domenicano, dall’aspetto troppo fiero e troppo gaudente, per quel suo ruolo di inquisitore.

«Ma, come mai, siete solo, eccellenza?», chiese Pasini Frassoni guardando oltre le spalle dell’hidalgo spagnolo.

«Il mio servitore non ama le riunioni conviviali; e padre Alonso de Barranquilla si è trattenuto in carrozza per completare i suoi vespri», disse il cavaliere spagnolo. «Vi sarei grato se ci poteste fare accompagnare ai nostri alloggi. So che il nostro comune amico vi ha raccomandato l’esigenza di una nostra autonomia».

«È tutto pronto, in tal senso. Tuttavia, il nostro comune amico, non mi perdonerebbe mai se vi facessi andar via senza avervi invitato a mangiare qualcosa con noi, dopo un così lungo viaggio! Vi farò accompagnare ai vostri alloggi subito dopo cena».

«Permettetemi allora che io vada a chiamare il mio accompagnatore e assistente spirituale Padre Alonso de Barranquilla e a dare disposizioni al mio servitore!» disse l’hidalgo ringraziando l’ospite per la sua gentilezza.

«Non incomodatevi, manderò uno dei miei servi» lo incalzò Pasini Frassoni.

Non aveva tuttavia finito di parlare che un sacerdote, alto e magro, rigorosamente vestito di nero, fece il suo ingresso nell’ufficio del vice legato. L’uomo fece sparire il suo breviario nelle capaci tasche della tonaca prima di presentarsi. Nonostante la sua giovane età, il gesuita mostrava una grande sicurezza.

Il tempo di fare le presentazioni del nuovo venuto che Don Giuseppe si affacciò sulla soglia.

«In sala è tutto pronto per la cena!», disse rivolto al suo diretto superiore.

«Benissimo. Don Giuseppe accompagna i nostri ospiti a rinfrescarsi dal viaggio e poi portali in sala da pranzo», ordinò il padrone di casa. «Volete che faccia chiamare il vostro servitore?», aggiunse poi rivolto ai due nuovi arrivati.

«Non c’è bisogno. Ha con sé delle cose personali che non lascerebbe mai incustodite; e poi, come vi ho già detto, non è un tipo che ama troppo le compagnie numerose» lo giustificò l’hidalgo.

«Piuttosto non sarebbe male fargli arrivare qualcosa di caldo da mangiare», interpose il padre gesuita.

«Non si preoccupi. A questo provvederò immediatamente io», lo rassicurò il padrone di casa.

Poco dopo i quattro si ritrovarono in una sala dove troneggiava una tavola imbandita di tutto punto. Il vice legato e il presidente del tribunale avevano atteso in piedi i loro due commensali.

«Prego accomodatevi. Spero vi piaccia la cucina italiana», disse il vice legato indicando agli ospiti i loro posti.

Dietro ogni sedia vi era un cameriere, che prontamente facilitò la loro seduta, scostando opportunamente le sedie dietro di loro.

«Amiamo abbastanza la vostra gradevole cucina, ma a tavola vorrei parlarvi di alcune cose alquanto riservate», rispose l’Hidalgo, posando il suo sguardo sospettoso sui camerieri.

Con un cenno degli occhi Pasini Frassoni licenziò i quattro camerieri. Intanto il coppiere aveva iniziato a versare il vino nei calici. Gli occhi intensi dello spagnolo si posarono su di lui, più che sul contenuto che aveva versato nei calici.

«State tranquillo don Pedro, si tratta di un fido servitore sordomuto», lo tranquillizzò il vice legato.

L’hidalgo annuì con un cenno d’intesa, cominciando a intuire la sottile intelligenza che animava il suo anfitrione italiano.

«Vi do il benvenuto con questo Savignon, tanto per iniziare», disse Pasini Frassoni levando in alto il calice. «Propongo questo primo brindisi in onore del re di Spagna», aggiunse subito dopo, mentre i calici tintinnavano.

«Al re Felipe e al papa Urbano», aggiunse Padre Alonso de Barranquilla.

Dopo il brindisi il padrone di casa invitò i commensali ad assaggiare il primo piatto, che lo stesso mescitore sordomuto, in mancanza di altro personale, provvide a versare nei piatti, attingendo da una zuppiera che troneggiava al centro della tavola.

Un gradevole profumo di zucchero e di latticini si levò dalla zuppiera e dai piatti fumanti.

«Buono davvero questo riso alla turchesca!», commentò per primo don Agostino Barozzi, che era un vero buongustaio.

«Il cuoco lo ha arricchito anche con farro e mandorle» disse il padrone di casa, apprezzando il complimento del suo connazionale.

«Davvero saporito», convenne il gesuita, sorridendo. Aveva dei denti piccoli e scuri, ma il suo sorriso denotava un animo gentile. Evitò di dire che lo avrebbe gustato meglio con un cucchiaio di legno, ma in fondo si era già rassegnato alle usanze italiane.

«Prima di tutto vorrei parlare del mio metodo di lavoro» disse don Pedro rivolgendosi al vice legato. Il padrone di casa annuì, notando che l’hidalgo, per niente in imbarazzo nell’uso della forchetta e del tovagliolo, aveva appena assaggiato il gustoso primo piatto.

«Non vi è piaciuto il riso?» chiese non di meno al suo ospite.

«È saporito, forse anche troppo, per il mio palato. E poi presumo che abbiate degli altri piatti da farci gustare. Mi voglio riservare uno spazio anche per dopo», rispose l’hidalgo gustando ancora un po’ di vino, per fare onore comunque alla buona tavola imbandita per lui.

Come evocato dalle parole dello spagnolo comparvero due camerieri che portavano due vassoi di arrosti: uno colmo di crostacei e di pesci del Po, l’altro di carni bianche. L’hidalgo, che aveva fatto cenno di continuare il suo discorso sulle sue modalità operative, si era bloccato all’apparire dei due camerieri. Aspettò pazientemente che il dapifero trinciasse i fagiani e mondasse abilmente i pesci della portata. L’hidalgo, per tutto il tempo gli aveva tenuto gli occhi addosso.

 Con un cenno eloquente di congedo, Pasini Frassoni li congedò tutti e tre. Poi, sempre senza parlare, fece intendere al coppiere che era ora di cambiare calici e qualità del vino.  Con gesti rituali il sordomuto provvide a colmare i nuovi calici di cristallo di un liquido rosso rubino.

«Ho pensato che con gli arrosti il vino più adatto fosse il Fortana».

«Ottima scelta», convenne don Agostino, che aveva già bevuto dell’acqua, dopo avere vuotato il calice del vino bianco e, soprattutto, il piatto di riso e farro.

L’hidalgo sollevò il calice per un ulteriore brindisi. Sembrava quasi rassegnato a quel cerimoniale ma si vedeva che i suoi interessi e la sua testa stavano da un’altra parte.

«Come vi dicevo», riprese infatti dopo avere gustato un piccolo sorso di rosso «io ho bisogno di una certa autonomia nel mio lavoro di indagine».

«In che senso?», interpose don Agostino dopo avere fatto schioccare la lingua sul palato, in segno di apprezzamento per il gusto del vino Fortana.

«Nel senso che noi seguiamo i nostri metodi e le nostre procedure in maniera autonoma. Per questo abbiamo chiesto un alloggio ampio e isolato» disse   don Pedro Domingo Mendoza Martinez, sempre rivolto al vice legato. Non poté fare di osservare, comunque, con quanta lascivia il domenicano ingurgitasse i gustosi gamberoni di fiume.

«Però voi sapete che potete contare su di noi per ogni tipo aiuto. Il nostro comune amico mi ha raccomandato di non negarvi alcun appoggio possiate necessitare per il successo della vostra missione».

«Vi ringrazio e conto davvero sul vostro appoggio, soprattutto dandomi le opportune informazioni sull’Accademia capitanata da quel Pietro Marino De Regis segnalatami dal mio illustre committente e sui suoi indegni sodali».

«Potete contarci in toto, don Pedro», lo rassicurò il vice legato.

«Quanti soldati mi potete mettere a disposizione?», rilanciò subito lo spagnolo, dimostrando di voler subito giungere al sodo.

«Ho già pensato anche a quello. Alla fortezza del Barco vi è un plotone di soldati che si alternano nell’arco delle ventiquattrore. Il comandante, per mio incarico, è già stato informato del vostro arrivo».

«Sa già che lui e i suoi uomini saranno sotto il mio diretto comando per tutto il tempo in cui starò qui in missione?»

«Sì, certo. Glielo preciserò ulteriormente, se ci tenete»

«Certo che ci tengo. E vi ringrazio per ciò che farete per assicurarmi la più ampia autonomia».

«Ma non è che sorgano poi problemi di giurisdizione con il nostro comune amico? Sapete bene quanto egli sia geloso delle prerogative e delle competenze dell’umile ufficio che qui rappresentiamo…», intervenne a dire don Agostino, ch’era già passato a degustare i fagiani arrosto.

Don Pedro capì che un uomo di legge come il vice-legato poteva restare influenzato dal discorso del domenicano che, evidentemente, non era soltanto un mangione. Ma lo spagnolo conosceva bene l’animo umano e sapeva come muoversi anche sul piano dialettico.

 «Anche io sono soltanto un umile servitore del re Filippo IV, ma sono qui per incarico del nostro comune amico onde assicurare alla giustizia divina l’anima di numerosi  peccatori eretici. Non è forse così Padre Alonso?»

Il gesuita assentì in direzione dell’hidalgo con uno dei suoi sorrisi intelligenti e mansueti.

«Ma state pur sicuri che dopo il pentimento e la confessione degli eretici, il loro corpo vi verrà consegnato per le giuste punizioni. E con il loro corpo anche i loro beni materiali rientreranno nella loro naturale giurisdizione; e sarete voi ad occuparvene, dal momento della confessione in poi» concluse lo spagnolo con un’espressione del viso che assomigliava più a un ghigno che a un vero sorriso.

Quest’ultimo inciso piacque assai all’ambizioso vicario che in realtà non ce l’aveva con il De Regis in funzione delle sue letture (lui stesso stava consultando avidamente certi scritti di Copernico, rinvenuti negli archivi estensi che in parte erano rimasti a Ferrara dopo la Devoluzione), ma puntava alla confisca delle sue proprietà (indispensabile corollario della sentenza di condanna per eresia in forza delle norme inquisitorie in vigore). Non di meno non volle che il domenicano avvertisse da parte sua una scarsa considerazione per le sue corrette considerazioni e ci tenne a tranquillizzarlo in tal senso.

«State tranquillo don Agostino che provvederò personalmente a informare il nostro comune amico della misura e delle forme con cui abbiamo utilizzato la sua delega nei confronti del nostro ospite, qui in missione per conto di lui!»

Dopo cena il vice legato accompagnò i suoi ospiti in una saletta riservata ove, con grande stupore di tutti, dispiegò sopra un tavolo quadrato, una dettagliata mappa che comprendeva sia la vecchia città medievale, sia l’addizione erculea, comprensiva del tragitto che di lì a poco il terzetto spagnolo avrebbe percorso in direzione dell’edificio che un tempo aveva ospitato l’Osteria del Buon Samaritano.

Pasini Frassoni li informò che li avrebbe fatti accompagnare da Cristoforo Messìppo, un abile cavallerizzo e suo conduttore personale, che avrebbe mantenuto i contatti riservati tra le due sedi. Gli mise inoltre a disposizione, uno scalco- credenziere e  due delle sue migliori inservienti, una cuoca e l’altra pulitrice e rassettatrice. Omise ovviamente di informare l’astuto hidalgo che in realtà si trattava di tre fidatissimi agenti della sua segreteria personale, incaricati di riferirgli nel dettaglio tutto quanto sarebbe avvenuto nella sede operativa prescelta per gli interrogatori degli inquisitori spagnoli.

Preso nota di alcune altre fondamentali informazioni sull’Accademia degli Increduli e su Pietro Marino De Regis, Don Pedro Domingo Mendoza Martinez e Padre Alonso de Barranquilla si avviarono nel cocchio personale del vice legato, condotto da Cristoforo Messìppo.

Li seguiva dappresso il carro con le vivande e le masserizie, nonché con il bagaglio della commissione inquisitoria iberica (escluso il bauletto di Tenoch, che lo legò sul dorso del suo  cavallo, in sella al quale affiancava il cocchio che conduceva il  suo padrone)  guidato dallo scalco e credenziere.

Una luna piena e velata li accompagnava.

Messìppo pensò che l’indomani tutta Ferrara sarebbe stata avvolta nella nebbia.

Ma non disse niente. Il suo padrone gli aveva raccomandato infatti di mostrarsi indifferente a tutto e di tutto osservare senza dare nell’occhio.

In viaggio come un Pellegrino

  In questo ponte della Festa di tutti i Santi mi sono recato in pellegrinaggio a Roma con l'UNITALSI. L'itinerario prevedeva la vis...