2.22.2025

Il Manuale del Perfetto Orologiaio

 


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Capitolo Terzo

 

 

 

«E tu come ti chiami?»

«Sono Giuditta, la nipote dell’Anselmo».

«Io però non ti avevo mai visto prima d’ora».

«In effetti non è da tanto che sto qui al Magazzino ad aiutare lo zio…»

«Eh sì che ti avrei notata se ci fossi stata. Non puoi passare mica inosservata, sorbole!»

Giuditta fu lusingata da quelle parole. Lei ci era abituata ai complimenti, anche se era strano che a farglieli fosse quella donna dall’accento così buffo e dal fisico mastodontico. Fuori lo sciabordio dell’acqua, senza soluzione di continuità, segnava lo scorrere del tempo.

«Sei davvero molto bella, lo sai?», aggiunse ancora il donnone dal buffo accento forestiero.

Giuditta, per niente imbarazzata, arrossì non di meno lievemente.

«Mo’ certo che lo sai! Chissà quanti uomini ti han già messo gli occhi sopra!», disse ancora la donna.

«Io mi chiamo Maturina e sono la padrona della casa alla Sconcia, giù al Borgo San Giorgio. Tu sai cos’è la Sconcia, nevvero?»

Giuditta lo sapeva. E non soltanto perché nei registri di magazzino figurava quel nome per la fornitura del sapone e di certe pezze di lino. Aveva sentito quel nome in bocca a molti uomini. Tra i tanti complimenti ricevuti, lontano dalle orecchie attente di Anselmo, c’era stato persino qualcuno che le aveva confessato che neanche alla Sconcia aveva visto una ragazza più bella di lei.

Ma Giuditta aveva imparato ad ascoltare senza rispondere.

«Se un giorno ti stancassi di fare la magazziniera a tuo zio, vienimi a trovare alla Sconcia. Per una ragazza bella e sveglia come sei tu, avrei una proposta che è qualcosa più di una semplice offerta di lavoro!»

«Ci penserò!», rispose in un modo sicuro Giuditta, finendo di conquistare l’anziana donna. Poi, udendo la voce di Anselmo che cercava la nipote, le due donne passarono a parlare della commessa che la Maturina era venuta a fare per la sua Sconcia.

Giuditta Maier aveva da poco compiuto 18 anni e da due anni, da quando era rimasta orfana, stava nella casa dello zio, che l’aveva ospitata insieme ai suoi fratelli più piccoli.

Suo padre Jacopo, discendente di una delle più ricche famiglie di conversos fuggite alla persecuzione dell’inquisizione spagnola e rifugiatesi a Ferrara dopo il decreto di espulsione del 1492, era un affermato commerciante di tessuti e filati e si trovava nelle Fiandre con sua moglie, per una delle numerose fiere internazionali che da tempo ormai attiravano in quella ricca regione  numerosi commercianti da tutto il mondo, quando entrambi vennero aggrediti e uccisi.

Aveva conosciuto sua moglie, Olimpia Zatterini, la madre di Giuditta e degli altri cinque figli maschi, nel corso di uno dei tanti contatti commerciali che intratteneva con la famiglia di lei, che poco a poco si era costruita una piccola flotta di barche e navigli, grazie alla quale gestiva molti dei traffici di merci lungo il fiume Po e dal suo delta lungo le coste dell’Adriatico anche sino a Venezia e ai suoi mercati.

Era bastato che una sola volta i loro sguardi si incrociassero e quella ragazza dalla figura slanciata e formosa l’aveva subito conquistato.

Il padre di Olimpia, concordate le modalità dell’unione e l’entità della dote, aveva comunicato alla figlia la sua volontà di maritarla al facoltoso mercante e le nozze erano state celebrate dopo i doverosi preparativi.

Nonostante i quasi venti anni di differenza il loro matrimonio poteva dirsi riuscito ed era stato allietato subito dalla nascita di Giuditta, seguita, come già detto, a cadenza biennale, da cinque figli maschi: Rubio, Daniele, Marco Levi, Giuseppe e Beniamino.

Giuditta aveva preso il fisico della madre: le lunghe gambe e la vita stretta, che non abbisognava di cinture e corsetti per mettere in risalto il petto sodo e prosperoso, slanciavano in alto la sua figura, valorizzando la sua fronte alta e la folta chioma bruna. Ma quest’ultima, così come gli occhi scuri, le labbra carnose e il naso aquilino, la cui misura era percepita in modo attenuato grazie agli zigomi assai alti e pronunciati, doveva averli ereditati dalla complessione paterna, dato che la madre era piuttosto chiara di carnagione e con un visino dai lineamenti assai delicati, seppure innestati nel fisico slanciato già descritto all’attento lettore.

Anche il carattere di Giuditta era un sicuro retaggio della linea paterna: forte, determinato, volitivo, introspettivo, ingegnoso, empatico e con un innato fiuto per gli affari.

Uno zio materno di nome Anselmo, scapolo trentacinquenne, l’aveva presa con tutti gli altri cinque nipoti maschi, nella sua casa di Pontelagoscuro, un’ampia costruzione di due piani che aveva annessi i magazzini della flotta fluviale Zatterini.

In quei magazzini arrivavano via terra parte le merci che il ducato d’Este allora esportava (mais, riso, pesce, filati e cotone) e vi confluivano, dal fiume,  alcune delle le merci importate: sale, carta, spezie, maioliche,  grano (quando le ricorrenti carestie lo imponevano) ed altri alimenti.

Fu da quei magazzini che piano, piano Giuditta, si sentì attratta, come per vocazione o per destino, anche se lo zio Anselmo l’aveva intesa avviare al vertice dell’amministrazione della casa, come si conveniva ad una donna di quella condizione sociale, in quella precisa epoca.

E fu lì che una sera, mentre suo zio le spiegava i criteri di stoccaggio e classificazione delle diverse merci che confluivano nello sterminato magazzino, e lei lo seguiva con quel suo sguardo attento e vivace, che si sentì addosso, per la prima volta, le mani tremanti e bramose di un uomo.

Giuditta, superato con un guizzo repentino della mente il primo istante di smarrimento, lo lascio frugare a suo piacimento tra le pieghe delle sue vesti.

La sua mente fredda e razionale, guidata dal suo istinto femminile, andava percependo che quella concitazione frenetica e ansimante, che lei prese subito dopo ad assecondare con improvvisata ed istintiva accondiscendenza, poteva fornirle uno smisurato potere sugli uomini. E questo le piacque, trovandone conferma quando lo zio, smettendo di dimenarsi, cadde sfinito ed appagato sopra di lei. In quel contatto finale, più che durante l’amplesso, Giuditta, senza che pronunciasse una sola parola, avvertì il tacito ringraziamento che il corpo rilassato di suo zio tributava al suo, riacquistando il suo respiro regolare, quasi assopendosi, dimentico della realtà e per un lungo istante rapito in un’altra dimensione e in un altro tempo.

E fu ancora lì che aveva conosciuto Maturina, un giorno che era venuta a visionare certi filati e certe stoffe che le occorrevano per gli arredi della sua casa di tolleranza, lì alla Sconcia del Borgo San Giorgio di Ferrara.

Quando, due anni dopo quell’incontro, suo zio le comunicò che aveva parlato con il vicario diocesano e che sarebbe stato agevole, previo pagamento di un congruo compenso, ottenere una dispensa per poter celebrare il loro matrimonio (data la stretta parentela esistente), Giuditta si ricordò dell’offerta che aveva ricevuto, quel giorno che si erano conosciute, da quella strana donna dal buffo accento forestiero.

Fu proprio allora che capì che era giunto il momento di andare a parlare di affari alla Sconcia di Maturina.

 

 

 

 

 

 

2.19.2025

Il Manuale del perfetto orologiaio

 


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Capitolo Secondo

«Le ho gabbate una volta, quelle sottane» – si vantava Pietro Marino con gli amici della Nuova Accademia, riferendosi ai religiosi della Congregazione pontificia che lo avevano processato negli anni novanta del secolo precedente – «e le gabberò novellamente anche ‘stavolta!»

«Quante ne abbiam fatte con gli Incerti, eh Pietro?», interpose Girolamo Aleardi.

«E soprattutto quante ne faremo ancora!», rispose Pietro Marino sollevando il calice stracolmo di vino.

«Giusto», interloquì Ciro di Pers, facendo tintinnare il suo calice con quello dei suoi sodali. «Brindiamo al nuovo che avanza!»

«Brindo ai dolci e femminili visi, che degli Incerti i cuori affranti, ieri allietarono conquisi, e cogli Increduli in avanti, a scapito di Ludovisi, conquisteremo ancor festanti!», improvvisò Gabriello Chiabrera, levando a sua volta il calice. 

Un coro di evviva, di prosit, ad maiora, e altri auspici che inneggiavano alle nobili frontiere delle nuove conoscenze, ma anche alle crapule più prosaiche e volgari, si levarono in risposta ai versi improvvisati dal poeta; e altri ne seguirono quella notte, come altre notti a seguire.

 

Pietro Marino De Regis, chiamato “Il Carminate”, era uno dei 144 membri, tra poeti, musicisti, pittori  e artigiani,  che avevano contribuito nel dicembre dell’anno del Signore 1623 a fondare  la Nuova Accademia degli Increduli di Ferrara.

Si trattava in realtà di una rifondazione della precedente Accademia degli Incerti, sorta sempre a Ferrara molti anni prima e sciolta nel 1597 dalla Congregazione dell’Indice Paolino, per avere osato tradurre la Bibbia in volgare.

Egli era uno dei pochi sopravvissuti che poteva fregiarsi di essere appartenuto alla precedente fondazione accademica ferrarese.

Lo stesso  Pietro Marino, all’epoca già provetto  orologiaio, nonché promettente e giovane poeta,  era scampato però alla condanna personale,  in virtù di uno stratagemma di natura legale: gli avvocati degli imputati erano riusciti infatti a dimostrare che la Bibbia in volgare era stata composta dal 5 al 14 ottobre 1582, un periodo temporale che il papa  Gregorio XIII, decidendo di riformare il calendario giuliano, aveva dovuto abolire per decreto, onde correggere le imprecisioni del precedente calcolo giuliano, recuperando il tempo in esso perduto.

In quanto “vacuum ac nullus”, avevano chiosato gli abili difensori degli imputati accademici (avvocati direttamente nominati dal duca d’Este, che con quella mossa aveva inteso difendere, ad un tempo, un componente del suo casato, affiliato all’Accademia ed il suo stesso Ducato, da sempre nelle mire espansionistiche dello Stato Pontificio), in quel periodo non poteva essere validamente ascritto alcun crimine a chicchessia, in quanto “quod nullum est, nullum producit effectum”.

E non si sa se furono i brocardi di giustinianea memoria, profusamente decantati dai quei provetti principi dello Studium Juris Estense, capitanati da Renato Cato ovvero l’influenza del loro potente patrono, ovvero ancora il timore  del cardinale Aldobrandini di guastare i già difficili  rapporti con la Francia (Alfonso II d’Este era nipote del re francese  Enrico II per parte di madre ed era di casa presso la sua corte), fatto sta che il Tribunale della Congregazione dovette assolvere tutti gli autori imputati.

Certo è che le Note Difensive redatte dallo Studium Estense furono intelligentemente fatte circolare, seppure in copia informale e per conoscenza, nelle più importanti corti europee, ciò che mise in seria difficoltà la cerchia aldobrandina, sempre attenta a non turbare troppo gli equilibri diplomatici.

La Congregazione sfogò però tutta la sua rabbia potente contro l’Accademia, ordinandone lo scioglimento e contro l’editore Manuzio di Venezia, acerrima nemica dello Stato Pontificio, che aveva pubblicato la traduzione vietata in mille esemplari andati a ruba, e che comunque aveva pensato bene di   rimanere contumace nel processo. E il duca Alfonso II, ormai al tramonto della sua vita, stanco e senza figli, sullo scioglimento dell’Accademia chiuse tutti e due gli occhi perché comunque l’assoluzione degli imputati, tra cui quella del suo nipote affiliato che tanto gli era caro, fu considerata negli ambienti politici e diplomatici dell’epoca, una sua vittoria personale.

Ne era passata di acqua sotto i ponti da quel tempo! Estintasi la linea diretta della casata degli Estensi (Alfonso, nonostante i suoi due matrimoni, era morto senza eredi legittimi diretti) lo Stato Pontificio era riuscito finalmente ad inglobare i territori ferraresi del ducato sotto la sua sovranità, ed al posto dei duchi d’Este ora regnava a Ferrara un Legato Pontificio.

E quegli accademici, rimasti orfani dei grandi mecenati estensi, seppure sfrattati da villa Marfisa, avevano continuato ad unirsi in segreto, aggregando giovani talenti, per niente impauriti dai nuovi sovrani tonacati.

 

2.12.2025

Il manuale del perfetto orologiaio

 


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Capitolo Primo

Le spie della Congregazione, in un dettagliato dispaccio, avevano informato il vice legato di Ferrara, Francesco Pasini Frassoni, che Pietro Marino De Regis, noto il Carminate, con la complicità di altri membri dell’Accademia degli Increduli, stava scrivendo un libro che propagandava le idee rivoluzionarie diffuse da Copernico nel libro proibito “De Revolutionibus Orbium Celestium”, messo all’Indice sin dal 1616.


L’alto prelato, che surrogava il titolare Giovanni Garzia Mellini, nominato da papa Gregorio XV come successore di Pietro Aldobrandini, per fare le sue veci a Ferrara, pensò bene di mettersi   subito in contatto con il cardinale suo diretto superiore, quantomeno per una duplice ragione.

In primis perché il cardinale era il capo della Congregazione per la difesa della Fede e quindi non voleva rischiare che l’importante notizia gli arrivasse da altri; in secundis egli voleva sapere da Sua Eminenza come procedere, dandogli conferma così della sua fedeltà e della subordinazione, quantomeno formale. Conosceva inoltre assai bene le mire del grande porporato e già circolavano voci sulla salute precaria di papa Ludovisi. Una sua elevazione al soglio pontificio avrebbe significato per lui un sicuro avanzamento nella carriera ecclesiastica; forse la titolarità della legazione vacante e, in prospettiva, anche una investitura da porporato.

E nella peggiore delle ipotesi, se fosse riuscito a far incriminare il De Regis, poteva pur sempre contare nella confisca delle sue lucrose proprietà, accresciutesi dopo la morte della madre e del patrigno, tra cui gli stava particolarmente a cuore la cascina di Lemole, in Greve di Chianti, che avrebbe potuto così unire a una piccola proprietà limitrofa ereditata dai suoi avi, senza contare la rendita di 20.000 scudi d’oro che essa rendeva all’anno all’eretico Carminate.

Originario di una famiglia che vantava in passato ricche ascendenze, ma al presente, scarsi mezzi economici e finanziari, Pasini Frassoni aveva studiato grazie al generoso interessamento di uno zio materno, anch’egli prelato, ben addentro nelle gerarchie della curia pontificia.

Grazie agli intrallazzi e ai soldi dello zio, era giunto al grado di Consigliere della Segnatura Apostolica, ma lì si era reso conto che l’ascesa al potere vero era per lui troppo arduo.


Entrato nelle grazie del potente cardinale Garzia Mellini, era stato nominato vice legato a Ferrara, ma la sua ambizione lo faceva puntare molto più in alto.

Intanto approfittava di ogni buona occasione per incrementare il patrimonio che i suoi avi avevano dissolto per incapacità e per sfortuna. 

La primavera aveva già scacciato da un pezzo uno dei più rigidi inverni degli ultimi vent’anni (tutti i ferraresi, a memoria d’uomo, non ricordavano di aver visto  il Po ghiacciato prima di allora), quando il vice legato scelse il più sveglio e il più giovane tra i suoi collaboratori e lo inviò a Roma dal cardinale Garzia Mellini per informarlo di quanto le spie locali della Congregazione gli avevano riportato.

«Mi avete fatto chiamare eccellenza?», chiese don Giuseppe Canaselli, dopo che ebbe udito la voce del suo superiore invitarlo ad entrare.

«Certo, certo, vieni avanti», disse il vice legato sollevando gli occhi dalle carte che stava esaminando.


Il giovane prelato si avvicinò timidamente al tavolo da lavoro dell’importante delegato. Lo aveva scelto come suo secondo segretario per la sua discrezione, che sconfinava nella timidezza, ma soprattutto per la sua prodigiosa memoria, che lo aveva colpito al tempo in cui era stato suo insegnante di greco e latino.

«Siediti», gli disse indicandogli una delle sedie che stavano davanti a lui. «Vuoi bere qualcosa?», aggiunse dopo che il giovane si fu seduto sul bordo della sedia, con gli occhi bassi sulle mani che aveva posato in grembo.

«No, grazie, eccellenza. Io non bevo».

E infatti il suo incarnato era alquanto pallido, pensò Pasini Frassoni. Si lisciò prima il mento e poi la gola, sin dove il colletto rigido dell’abito talare glielo permisero. La nostra chiesa si regge sui sacrifici e sulla rettitudine di questi giovani, pensò ancora con cuore grato l’alto prelato. Poi intrecciò le mani grassocce sul prominente girovita.

«Sei mai stato a Roma?», chiese abbandonandosi nella sua comoda poltrona.

«Una volta, da ragazzo, accompagnai mio padre e mio zio che si recavano da un ricco committente per una pala d’altare».

Ricordava che il giovane discendeva da una famiglia di rinomati pittori. Ma la sua intelligenza e la sua natura riflessiva lo avevano attratto nell’orbita della madre chiesa; tanto più che la bottega dei parenti pittori era stata riempita a sufficienza con i fratelli e i cugini nati prima di lui.

«E la strada te la ricordi?»

«Non tanto per la verità. Ricordo però che si partì più o meno in questa stagione. In altri periodi dell’anno le strade dissestate rallentano di parecchio l’andatura delle carrozze».

«Ho un’importante ambasciata per te; da portare a Roma, e da riferire personalmente al cardinale Giovanni Garzia Mellini. Te la senti?»


«Comandate pure eccellenza», disse sempre con gli occhi bassi il giovane chierico.

Così, a metà maggio, Giuseppe Canaselli partì per la delicata ambasciata. E a inizio giugno era già di ritorno.

Insieme alle istruzioni del cardinale riportò la notizia che le condizioni di salute del papa Gregorio XV si erano aggravate e che i cerusici di corte pensavano che il peggio fosse ormai inevitabile. Pertanto i grandi elettori, seppure in via informale, avevano di già iniziato le grandi manovre che precedevano il Conclave ormai imminente.

 A maggior ragione occorreva che il cardinale papabile agisse con prudenza e con sagacia. Sia queste informazioni, sia le dettagliate istruzioni che riguardavano il caso gravissimo della Nuova Accademia degli Increduli, erano state impartite al giovane chierico, di rientro da Roma, totalmente in forma verbale. 


 E meno male che egli godeva di una memoria prodigiosa (affinatasi nello studio dei classici e della grammatica della lingua greca in particolare), perché le istruzioni che gli erano state dettate a voce dal cardinale medesimo, erano assai minuziose e andavano riferite al vice legato tali e quali.

Il vice legato capì, ancor prima di apprenderne il contenuto, che si trattava di questioni riservatissime (le istruzioni collegate al suo ufficio di vice legato giungevano solitamente per iscritto).

Dal contenuto delle istruzioni ebbe inoltre conferma che il suo diretto superiore contava sull’appoggio della Spagna per la scalata al soglio pontificio (anche se personalmente non escludeva che lo scaltro porporato tramasse nascostamente per assicurarsi anche qualche voto dalla Francia).

Il cardinale lo informava che doveva giungere   a Ferrara un suo emissario, un abile hidalgo spagnolo specializzato nelle indagini e negli interrogatori degli eretici e che contava su di lui per fornire al militare ispanico tutti i mezzi necessari per espletare il suo incarico, senza che mai, per alcun motivo, dovesse figurare il suo nome.

Ma ad agosto, quando giunse a Ferrara la notizia della elezione di Maffeo Virginio Romolo Barberini al soglio pontifico, con il nome di Urbano VIII, dell’hidalgo spagnolo preannunciato, Pasini Frassoni non aveva visto neppure l’ombra.

Non poteva certo sapere che don Pedro Domingo Mendoza Martinez, accompagnato dal suo fido Tenoch Tixtlancruz e da Padre Alonso Ramirez de Barranquilla, S.J., sarebbe giunto a Ferrara soltanto a settembre dell’anno 1623 già inoltrato.

 

 

2.09.2025

I Salmi in Rima al Decimo Posto della Top 100

 


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I SALMI

(Contiene i 150 Salmi del Libro omonimo, in rima e in versi endecasillabi, con variabili ipometrie  soprattutto nei versi finali)

 

 

SALMO PRIMO

Le due vie

D’in tra le vie del Signore son quelle

L’una dell’empio, l’altra del gїusto

Che differenti son come due stelle

Ch’ora silenti, ora in gran trambusto

Stanno, o  sotto una differente pelle

Fanno diverse foglie d’ altro fusto.

Quelle del giusto non cadranno mai

Disperse saranno quelle  dell’empio

[e ora il primo salmo sai]

 

 

SALMO SECONDO

Il Re Messia

Perché popoli congiunti cospirano

E ricercano  un potere fallace?

Perché  verso il Cielo essi  non mirano

A pregare Colui che dà la pace?

Beati tutti coloro che esultano

Nell’unico Dio vero che è capace

Di darti in possesso tutte le genti

Di costituirti padrone e sovrano

[ sopra i corpi e sopra le menti!]

 

2.06.2025

La Giornata del Ricordo




L’APPELLO DELL’INFOIBATO

Primo Premio Terzo Gruppo - Sezione G

Concorso Letterario Internazionale

 “L’Esodo Istriano-Fiumano-Dalmata”

 

Se trovate in un burrone profondo

uno scheletro legato con il fil di ferro

 a un altro scheletro,

 legato a un altro scheletro

e a un altro ancora,

quello sono io.

 

Non cercatemi in un fosso qualunque!

Io giaccio

 in quei recessi contorti

che si chiamano foibe.

 

Avvolgetemi, ve ne prego,

 in un drappo bianco

E restituitemi ai miei cari,

alla mia Patria e alle cose di Dio.

 

Non odio nessuno e perdono tutti.

 

Solo un’ultima cosa vi chiedo:

aprite gli occhi dei vostri figli

sulla verità!

 

 

                       Cagliari 10 febbraio 2004

 

https://albixandpoetry.wordpress.com/2025/02/06/letteratura-in-premio/

In viaggio come un Pellegrino

  In questo ponte della Festa di tutti i Santi mi sono recato in pellegrinaggio a Roma con l'UNITALSI. L'itinerario prevedeva la vis...