4.25.2025

Canti di Gioventù

 



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La Ballata del ‘68

I

Ci avevano detto
tornatevene a casa
ripiegate le vostre bandiere
dimenticate i vostri slogan!

Il sessantotto è già finito
ritorna la pace
vi sia servito di lezione!

Cambiare il mondo
ma che pazzia
e non a caso son capelloni:
qui ci vorrebbe chi dico io!

Ecco li vedi
questi drogati
che scendono in piazza
a gridare stronzate!

 

 

 

 


E poi che c'entra il Vietnam?

Finalmente si sono decisi
ad usare il pugno di ferro:
disperdete quella folla!

II

Olà compagni
uscite di casa
rispolverate le vostre bandiere
torniamo a urlare i nostri slogan!

Il '68 non è mai finito
e ancora adesso, vogliamo la pace
crocifiggiamo chi dico io!

I nostri nemici
di ieri son qui
per lottare insieme con noi
per costruire un mondo migliore!

 

 

 

 


E voi baroni
cominciate a tremare
il vostro dominio
ha i giorni contati:
fuori i baroni dalla scuola!

 

III

E dicono sempre

Restatevene a casa

Dimenticate i vostri slogan.

Ci siamo noi

Che risolviamo tutto

Guardate il mondo coi nostri occhi!

 

Villasor 1977

4.22.2025

Dedicato a papa Francesco

 Voglio cantare di papa Bergoglio

che il giorno dopo Pasqua se n"e' andato

da questo tempo fuggevole e voglio

dirvi qualcosa anche del papato.


Il nome da lui scelto fu perfetto

per far capir la Chiesa che intuiva

veniva eletto pero' non moriva

il suo predecessore Benedetto.




Francesco, quello antico, ricordava,
l'amor per la Natura e i poverelli
ed anche il Nuovo adesso riportava
all'attenzione gli ultimi fratelli.
Non da tutti pero' l'egualitaria
istanza del neo papa, fu gradita,
non dalla vecchia curia refrattaria
ad ogni innovazione stabilita.
Neppure dai vetusti tridentini
nostalgici del vecchio tempo andato
di quando il clero i motti suoi latini
e il volgo preferiva impreparato
per ergersi e dall'alto professare
a chi le antiche formule ignorava
e con paternalismo propinare
una dottrina ormai che ristagnava.
Lasciando ancora fuori dalle chiese
chi nella vita, per mille ragioni,
o per sventura aveva disattese
le loro formule di perfezioni.
Un grande papa che non giudicava
un grande uomo di forza e coraggio
che con tenacia ieri scardinava
le prigioni dell'antico retaggio
Spero che t'accolga con un sorriso
tu ch'eri battezzato Jorge Mario
Colui di cui autentico Vicario
tu fosti in terra e oggi in Paradiso.

4.14.2025

I Thirsenoisin




Capitolo 6

Aristea era rimasta davvero impressionata quando, al mattino, su invito del gran sacerdote Elki, aveva partecipato a una cerimonia propiziatoria al pozzo sacro di Turas, poco distante dalla reggia, nei pressi delle tombe dove riposavano, nel loro sonno eterno, gli antenati del villaggio. Il rito era officiato per ingraziare agli dei il viaggio che Itzocar e il suo seguito avevano intrapreso il giorno prima per partecipare al raduno settennale delle tribù federate al santuario del villaggio nuragico di Gisserri. Damasu era partito presto per degli affari e Rumisu era su, nei pascoli, a vigilare sulle innumerevoli greggi che appartenevano alla loro famiglia, le più numerose e profittevoli di tutte; quindi era toccato a lei e a sua madre Irisha partecipare in rappresentanza della famiglia reale.

«Tholoi, Dedaloia, Iaccu, Maimone, Dumuzu, Babai, Attis e Adone!», era stato l’incipit della giaculatoria che il gran sacerdote Elki aveva iniziato a recitare, scendendo i gradini delle scale che conducevano alla base del pozzo sacro, per deporre il contenuto del bacile con il sangue dei capretti offerti in sacrificio agli dei delle acque.

Solo il gran sacerdote poteva scendere quei sacri gradini, aveva sempre sentito dire Aristea. Mentre Elki scendeva, col suo incedere lento e solenne, Aristea aveva visto l’ombra del gran sacerdote, sdoppiarsi e capovolgersi, riflessa sull’acqua e sulla parete di fronte alle scale. Tutti i presenti avevano trattenuto il fiato a quella magica visione. Lei aveva indicato quell’eccezionale fenomeno a sua madre, che le stava a fianco; nella sua giovane ingenuità non aveva capito che tutti gli altri presenti, invece, in qualche modo, se l’aspettavano; forse l’avevano osservato altre volte; o magari ne avevano sentito parlare. Sua madre le fece un cenno impercettibile come per dirle di tacere e di osservare con attenzione. Ma il gesto, in realtà, voleva suggerirle di guardare e imparare. Aristea poté sentire il rumore del sangue versato nell’acqua, prima che il gran sacerdote si chinasse per sciacquare il bacile, in maniera che niente andasse perduto. Con l’acqua che riportò su, asperse i presenti, cominciando da sua madre e da lei; tutti chinarono il capo per ricevere meglio quella benedizione. Elki continuava a recitare le sue misteriose giaculatorie, con una cantilena che quasi rapiva in estasi l’animo turbato di Aristea. Fu in quel preciso istante che decise che sarebbe tornata al pozzo, da sola. Aveva qualcosa da chiedere anche lei agli dei dell’acqua, ed era qualcosa che solo lei poteva chiedere. Avvertì quell’esigenza come una sfida. Chi lo aveva stabilito che solo il gran sacerdote potesse interpellare gli dei? Perché gli uomini dovevano sempre imporre la loro volontà escludendo le donne da ogni decisione?

In quel turbamento le parve quasi che fossero gli stessi dei delle acque a suggerirle quei pensieri e a infonderle il coraggio di sfidare le convenzioni sociali di quella società arcaica e patriarcale. Il sole emanava ancora i suoi riverberi di luce quando Aristea, lasciata la reggia, nelle vesti di un’anonima popolana, uscì e si avviò in direzione della fonte, con un recipiente in mano, come una qualsiasi donna che avesse dimenticato di provvedersi dell’acqua necessaria per la cena.

Solo che invece di svoltare a sinistra, verso la fonte, dove tutti riempivano le loro brocche, lei tirò dritta e si diresse con passo deciso verso il declivio che conduceva al pozzo sacro. Gran parte del coraggio che aveva sentito riscaldarle il petto al mattino, era però scomparso. Il cuore le batteva forte, come non lo aveva mai sentito battere. Ebbe l’impulso di tornare indietro, presa dal terrore di commettere qualcosa di irreparabile che potesse nuocere a lei e alla sua famiglia. Ma il suo orgoglio riuscì ad avere la meglio sulla paura. Posò il bacile sui banchi dell’ingresso e prese a scendere i gradini. Ad ogni passo sentiva il suo cuore battere sempre più forte. Non era sicura che sarebbe giunta ai piedi della scalinata in pietra. Stava per risalire, terrorizzata che il cuore le potesse scoppiare in petto, quando udì delle voci. Il suo istinto la rese di colpo più razionale: non poteva farsi trovare lì; chiunque fosse, il gran sacerdote, o uno dei suoi allievi, lei non voleva essere smascherata. Discese in fretta gli ultimi gradini che la separavano dal fondo e si nascose, come poté, in una delle nicchie votive che notò nella luce che la luna rifletteva nell’acqua. L’acqua, in quel tratto iniziale le aveva bagnato i piedi sino alle caviglie, ma quel provvidenziale rifugio, addosso alla parete interna del pozzo, la sottrasse all’acqua e alla vista diretta dei nuovi arrivati.

Si augurò che l’acqua non proiettasse la sua ombra, com’era avvenuto al mattino, con l’ombra del gran sacerdote. Si tranquillizzò guardando lei stessa nello specchio d’acqua. Non vi erano ombre alcune, né di lei, né di quelli che stavano sopra di lei. Ma le voci, invece, si erano fatte più distinte. La prima voce che riconobbe fu quella di suo fratello Damasu.

Si fece forza per non uscire ad abbracciarlo e spezzare così quell’angoscia che l’attanagliava. Qualcosa di misterioso le imponeva però di restare nascosta. Le ritornò all’improvviso la stessa sensazione di forza e coraggio che l’aveva sorpresa al mattino. Suo fratello non era solo. Si udì un’altra voce più scura. Anche essa aveva qualcosa di vagamente familiare. Ci furono delle presentazioni e poté udire degli altri nomi. Mandis, Norace, Arzan, Birrali, Kerbin, Tharrana. Tutti nomi a lei sconosciuti, mai sentiti; a parte il primo; dove lo aveva udito nominare? Era quello dalla voce scura, che parlava e parlava, mentre gli altri intervenivano a monosillabi; adesso si udivano solo Damasu e l’altro, quello della voce scura. Il loro tono era teso, carico di emozioni; lei le percepiva, anche lì, in fondo al pozzo. A un tratto dovette trattenere un urlo che le salì impetuoso alla gola. Quegli uomini parlavano di uccidere il re! Suo padre Itzocar sarebbe caduto sotto i fendenti del suo pugnale di capo; e per mano di Damasu! Al suo rientro da Gisserri!

Era forse uno scherzo di quel pozzo magico? Gli dei si prendevano gioco di lei perché aveva osato infrangere la legge sacra?

O la volevano punire per avere osato discendere i gradini sino a immergersi coi sandali ai piedi nell’acqua? Forse sarebbe impazzita e le acque l’avrebbero inghiottita per sempre; nessuno l’avrebbe mai ritrovata. Almeno non si sarebbe dovuta sposare contro la sua volontà.

Un momento! Adesso parlavano di lei. Altre voci, e risate di complicità, di congratulazioni e di assenso si udivano e scendevano distinte nel pozzo , per poi perdersi nelle sue cavità. Ma Aristea le afferrava prima che scivolassero via.

Lei avrebbe dovuto sposare un certo Usala e tutti quegli sconosciuti sarebbero diventati parenti di Damasu. Anche un certo Gairo! E Kolossoi sarebbe stato grande, come al tempo dei giganti di pietra che svettavano ovunque, nel villaggio, custodi del passato e guardiani del presente. Kolossoi sarebbe divenuto anche più grande di allora, alleandosi a Nora, la città che avrebbe dominato i mari insieme al villaggio di Damasu!

Oh no! C’era da impazzire sul serio. Le venne l’impeto di uscire e mettersi a urlare; che lei non si sarebbe sposata con nessuno; piuttosto voleva morire sull’istante, in quel pozzo sacro, che aveva osato violare, in barba ai divieti delle antiche consuetudini. Restò come paralizzata, in attesa che parlassero ancora.

Ma le voci si erano spente. Lei attese un bel po’ prima di trovare la forza di uscire dal suo nascondiglio in fondo al pozzo.

Le gambe le tremavano e le lacrime le rigavano il volto, senza sosta. Riprese la sua brocca, vuota come quando era arrivata, sperando di non essere riconosciuta. E se quegli uomini malvagi l’avessero vista? Se avesse incontrato suo fratello Damasu? Cosa gli avrebbe detto? Rientrata alla reggia non ci fu verso che prendesse sonno. Troppi fantasmi le ballavano davanti. Gli spiriti del pozzo la sbeffeggiavano, i morti della vicina tomba dei giganti si erano accorti anch’essi della sua presenza e la odiavano, additandola al grande sacerdote, come una reproba sacrilega. Si alzò dal letto. Doveva confidarsi con qualcuno. Andò in camera da sua mamma. Appena la vide, Irisha, capì che era successo qualcosa di molto grave. Abbracciò la sua bambina con fare protettivo.

«Che c’è figlia mia? Perché piangi? Hai forse sognato s’Orku Malaittu?»

«Vogliono uccidere Itzocar!» riuscì a dire Aristea stringendosi alla madre. Tremava come una foglia.

Nella fioca luce lunare che penetrava dalle feritoie della sua stanza, sua madre si alzò, fece stendere sua figlia nel letto e si diede da fare per accendere il fuoco. Subito dopo cercò in una delle sette nicchie scavate nella parete, che contenevano le erbe medicinali contro i sette mali: in altrettanti vasi c’erano i rimedi contro i mali dell’apparato digestivo, contro il mal di gola, contro il mal di testa, contro l’ansia, l’aritmia e i disturbi cardiaci, contro l’artrite e il mal di denti, contro i dolori mestruali e contro le ferite di armi da taglio.

Aveva imparato da sua madre le proprietà di ogni erba e l’ordine in cui disporle, il modo di somministrarle e le dosi. Ogni infuso, decotto o cataplasma aveva effetti diversi, a seconda della sua composizione, a seconda che prevalesse un’erba, una pianta, una foglia o un’essenza di radice.

Mise nell’acqua bollente dei fiori di melissa, camomilla e menta, in modo che la prima, da sola, fosse all’incirca il doppio delle altre due prese insieme. Dopo dieci minuti l’infuso era pronto. Irisha ci soffiò sopra a lungo prima di porgerlo alla figlia, che per tutto il tempo era rimasta con gli occhi sbarrati e ancora umidi di pianto.

«Bevi piano e raccontami il tuo sogno!» la incoraggiò porgendole la ciotola con l’infuso.

Aristea ne bevve un lungo sorso, restituendola alla madre, che pazientemente si era seduta di lato.

«Non è stato un sogno!»

Aristea ci mise un bel po’ a raccontare tutto quanto le era occorso da quando aveva disceso i gradini del pozzo sacro. All’inizio Irisha pensò che sua figlia fosse uscita di senno e che le sue erbe, da sole, non sarebbero bastate a riportare la sua ragione dal fondo del pozzo dove doveva essere precipitata, forse quella stessa mattina. Ma alla fine sua figlia riuscì a convincerla, fornendo tanti di quei dettagli che le fecero capire che quella terribile storia era vera. Conosceva bene sua figlia e sapeva che la ragazza non era affatto una stupida.

Era anzi una grande osservatrice, anche se di carattere ribelle. D’altronde sua figlia non poteva conoscere Mandis. Non era neppure nata quando Itzocar lo aveva bandito dal villaggio. E oggi capiva che invece avrebbe dovuto ucciderlo, come imponevano le leggi antiche. Un nemico che vive è un nemico che ti odierà per sempre. E una vendetta che arriverà a colpirti, comunque, prima o poi.

Evitò naturalmente di rimproverarla per aver violato le leggi sacre del villaggio. Anzi, se la storia fosse risultata autentica, come in effetti sembrava, quella condotta sacrilega era da ricondurre alla volontà degli dei delle acque, che da sempre proteggevano Itzocar.

Da quando era nato, secondo i racconti che aveva udito dai vecchi; da quando vincitore su Mandis, nel momento in cui l’aveva atterrato nell’ultimo duello per la conquista del trono, la pioggia aveva cominciato a cadere dal cielo.

«Dormiamo, ora, figlia mia» disse Irisha accingendosi a spegnere il fuoco. «Domani ne parlerò con Elki. Ma tu devi promettermi di non parlarne con nessuno. Se c’è una congiura contro il re, potrebbero esserci delle spie, anche nei visi di chi si professa amico. Mandis ha ancora degli amici, qui al villaggio, e la sua famiglia è una grande famiglia: una delle più antiche e numerose di Kolossoi!» Aristea promise a sua madre di non parlare, ma prima chiese di essere perdonata per quello che aveva fatto. Non solo per il sacrilegio del pozzo, ma per essersi ribellata alla volontà di suo padre.

Promise, con le lacrime agli occhi, che se suo padre si fosse salvato, essa avrebbe acconsentito alla sua volontà e avrebbe sposato Arca Salmàn, il figlio del capo tribù di Gisserri. L’antico alleato di suo padre e della sua gente. Sua madre l’ abbracciò con grande trasporto, benedicendola per le sue parole e per i suoi sentimenti.

«Stanotte è meglio che tu dorma accanto a me. Nel posto vuoto di tuo padre!» le disse con dolcezza.

Aveva il cuore pieno di orgoglio per quella sua figlia. Anche se adesso i suoi pensieri e il suo cuore erano pieni di ansia e di preoccupazione per tutto quello che comunque era accaduto e per tutto quanto stava comunque per accadere. Per una figlia che ritrovava si accorgeva che all’orizzonte si profilava la perdita del suo figlio maggiore.

E comunque fosse finita quella brutta storia, la sua vita, la sua famiglia, dopo non sarebbe mai più stata la stessa. Irisha presagiva tutto questo, nel suo cuore; e i suoi presagi raramente si sbagliavano. Ma era anche una donna forte; la regina, moglie e figlia di un re pastore, discendente di donne e uomini che avevano saputo affrontare carestie, lotte, disgrazie, guerre fratricide e assalti esterni. Avrebbero superato anche quella tragedia. Aristea, intanto, dopo tante notti inquiete, sfinita dalle peripezie della sera, ma tranquillizzata dai suoi proponimenti e dalla presenza di sua mamma, per la prima volta, dopo innumerevoli notti di sonno agitato, si era addormentata serenamente.

4.06.2025

Il Manuale del perfetto orologiaio

 


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Capitolo Settimo

 

 

 

«Qual buon vento ti porta alla Sconcia, bella ragassuola!», esclamò allegramente Maturina, abbracciando Giuditta.

«Sono venuta per parlare di quella proposta che è qualcosa più di una semplice offerta di lavoro, come avete detto voi quel giorno che ci siamo conosciute».

«Certo, ricordo bene. Come mai ti sei decisa proprio adesso?»

«Mi sono stancata di fare la magazziniera!» Giuditta evitò di riferirle che il vero motivo era la proposta di matrimonio che lo zio Anselmo le aveva fatto. Non era il caso che quella furbona bolognese lo sapesse.

«E tuo zio Anselmo come l’ha presa?», chiese l’acuta matrona, cercando di infondere un tono neutro alla sua domanda.

«Lo zio non può dire niente. Ho dei segreti, qui dentro, che potrebbero nuocere non poco ai suoi affari», disse la giovane poggiando la mano destra all’altezza del prosperoso seno.

Maturina intuì, più che capire; e comunque la ragazza le parve molto sicura di sé; ed era molto bella; forse più di quanto non lo fosse stata lei in gioventù; proprio la persona che ci voleva per rilanciare gli affari della sua maison.

«Vieni, prendi il tuo bagaglio che ti faccio vedere la tua sistemazione; strada facendo parleremo di affari. Hai già fatto colazione?»

«Sì, certo».

«Bene. Qui siamo al terzo piano e ci viviamo soltanto io con il mio compagno; e adesso tu, che occuperai queste tre stanze che sono libere. Del primo piano tu non dovrai interessarti, ma te ne voglio informare lo stesso: è chiamato il piano dei Baiocchi, e ci sono  dodici camere, suddivise in tre classi: la terza classe, da 20 quattrini (ovvero quattro baiocchi), si affitta per un quarto d’ora; la seconda, da trenta quattrini (o sei baiocchi) vale mezz’ora; la prima classe, da mezzo scudo (ovvero 50 baiocchi) vale un’ora intera».

Giuditta ascoltava la matrona con la stessa attenzione con cui aveva ascoltato suo zio Anselmo quando aveva preso a spiegarle il funzionamento dello stoccaggio delle merci nel magazzino di Pontelagoscuro. Visto che la giovane donna la seguiva Maturina continuò.

«Quello che interessa a te è il secondo piano. Attraverso queste scale vi si accede direttamente. Non si può accedere a questo piano né dal piano terra e né dal primo piano. L’altro che ti mostro adesso è accessibile  dallo stallaggio: la nostra clientela selezionata, scende dalla carrozza, imbocca le scale segrete e arriva qui, da questa porticina qui, vedi? Adesso è chiusa a chiave.  Per accedere a questo piano occorre possedere due chiavi: una per la porta che sta nelle stalle di rimessa, ove gli ospiti privilegiati possono alloggiare i loro cocchi e i loro cavalli. E l’altra è per questa porta qui.  Questo si chiama il piando degli scudi: d’oro o anche d’argento, non ha importanza; vanno bene tutti, veh?  anche i ducati, veneziani, milanesi o toscani, purché d’oro e di argento».

Nel dirlo, alla matrona brillavano gli occhi. Lei aveva un debole per l’oro e l’argento.

«E io?», chiese Giuditta interessata.

«Tu dovrai gestire le ragazze del piano. Per i clienti e le tariffe non ti preoccupare; a tutto penserò io; tu devi verificare pulizia e portamento delle stanze e delle ragazze e che tutto si svolga con regolarità. Noi lavoreremo fianco a fianco e io ti darò il dieci per cento netto dei compensi del piano e in più potrai ricevere chi vuoi, ai prezzi che decidi tu, nella stanza a te riservata; e quegli incassi saranno tutti tuoi: te li incassi tu e te li tieni tu. Che ne pensi, ragazza bella?»

«Penso che va bene»

«Bene. Adesso torniamo di sopra. Dopo pranzo ti presenterò le ragazze del piano e potrai cominciare da subito. Per un po’ di giorni ti seguirò da vicino ma quando avrai preso in mano la situazione potrai fare da sola. Così io potrò interessarmi del tanto altro che c’è da fare per mantenere la maison in piena efficienza. Siamo d’accordo?»

«D’accordo», rispose Giuditta. Una stretta di mano e un intenso sguardo d’intesa suggellò il loro patto.

 

 

La casa di tolleranza della Sconcia era ospitata nel Borgo di San Giorgio, in un Palazzotto di 3 piani fuori terra.

Al piano terra, di fronte all’ingresso, c’era una postazione che fungeva da biglietteria, ove si concordava la prestazione, il cui prezzo variava secondo il tempo che si intendeva trascorrere con la ragazza prescelta (anche se in effetti il tempo era in funzione delle prestazioni richieste e non viceversa).

L’attività si svolgeva ai due piani superiori, separati tra loro nella gestione e nei servizi. Il prezzo dei servizi, che partiva da un minimo di quattro baiocchi, includeva, obbligatoriamente, un tocco di sapone veneziano (che in realtà era prodotto a Rovigo, ma i blocchi da 50 libbre portavano la scritta “Sapone di Venezia”; oggi si direbbe un marchio registrato, o qualcosa del genere) e una pezza di lino grezzo. Il primo veniva ceduto in proprietà, o a perdere, come si diceva, mentre la seconda andava lasciata per terra dopo il suo utilizzo. Anche se in realtà tutto questo valeva soltanto per il primo piano. Al secondo piano era tutto diverso e si agiva per una clientela selezionata che non aveva certo bisogno di portarsi via un pezzo di sapone grezzo.

La casa, che portava l’insegna “Ai Bagni della Sconcia”, prendeva il nome da questo servizio, e persino dopo la Devoluzione, il membro del consiglio dei Savi addetto all’Igiene Pubblica e alle Acque, aveva preteso che l’insegna riportasse la scritta e come tale veniva tollerata dal nuovo potere pontificio che comunque ne enfatizzava la visione negativa delle operatrici (chiamate evangelicamente “maddalene”) in chiave di esaltazione della funzione redentrice della Chiesa.

A onor del vero occorre però riconoscere che i prelati che vi si recavano (e presto ne conosceremo uno assai importante) non si limitavano a predicare sermoni di evangelico riscatto.

Ma era al secondo piano che si svolgeva l’attività più importante e lucrosa.

Al secondo piano, detto degli Scudi, sia gli avventori, sia le operatrici erano alquanto selezionati.

Non vi era un vero e proprio tariffario e non si accedeva neppure dall’interno (la scala interna che conduceva al secondo piano infatti, non  era accessibile dal primo piano ed era anzi celata da una porta chiusa che ne impediva la vista e l’accesso).

La Matrona (la stessa che abbiamo incontrato ai magazzini di Pontelagoscuro il giorno in cui conobbe Giuditta, restandone così impressionata da proporle di lavorare, più con lei che per lei, come vedremo più avanti) era la vera anima organizzatrice della casa.

Il suo nome vero era Maturina (come si erano chiamate la mamma e la nonna) ed era venuta da Bologna a Ferrara,  dopo aver esercitato la professione più antica del mondo nella città della prima università europea  (e ancor prima a Firenze),  con un bel gruzzoletto di sonanti scudi d’oro che aveva saputo investire nell’attività della Sconcia che abbiamo appena descritto.

I ferraresi, col tempo, vedendola ingrassare, un po’ per alterazione della pronuncia del loro idioma (che tendeva a mangiarsi le sillabe atoniche), un po’ per evidenziare l’aumento volumetrico della sua figura, presero a chiamarla la Matrona (e non mancava chi aveva poi simpaticamente francesizzato il nome, ribattezzandola in Madame la Maitresse).

Fu in quel secondo piano della Sconcia che Giuditta portò a compimento, affinandole con l’assiduità della pratica, quelle sensazioni che appena sedicenne, sin dalla prima volta in cui suo zio le aveva frugato tra le vesti con le mani bramose e tremanti, aveva avvertito come una forma istintiva di dominio della femmina sul maschio.

Quelle sensazioni, inizialmente emotive e confuse, si erano andate cogli anni chiarendosi e rafforzandosi, sino a diventare una ferrea sicurezza sulle sue capacità di ammansire e incanalare quelle tensioni, quei tumulti, quelle tempeste dell’anima che certe donne sanno suscitare sugli uomini e che comunemente si chiamano passioni.

E fu lì che Giuditta conobbe Pietro Marino De Regis e lì  imparò ad amarlo, riconoscendo la sua sensibile fragilità, ammirando la sua intelligenza e sviluppando per lui un’ammirazione protettiva di cui avvertì tutta la prorompente carica affettiva quando un altro dei suoi clienti, don Agostino  Barozzi, presidente del locale tribunale dell’Inquisizione,  frequentatore abituale  della casa del vice legato pontificio Pasini Frassoni, le confidò in quell’alcova segreta posta al secondo piano, che l’inviato segreto del re di Spagna (come lui chiamava l’hidalgo don Pedro Domingo Mendoza Martinez) aveva in mente di arrestare l’eretico De Regis, quel terzo lunedì del mese, in casa sua, in vicolo Vrespino, dove si sarebbe riunita tutta la compagnia farneticante di artisti e scrittori, a leggere i libri di poeti e scienziati indemoniati, gozzovigliando e fornicando, a sentir lui,  come in un bordello.

In viaggio come un Pellegrino

  In questo ponte della Festa di tutti i Santi mi sono recato in pellegrinaggio a Roma con l'UNITALSI. L'itinerario prevedeva la vis...