6.28.2025

San Paolo di Tarso

 

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Io sono Paolo, un Giudeo di Tarso,

città cilicia tra le più importanti!

Il petto di furore aveo riarso

 

contro i cristiani di Giudea, nanti

che Dio mi chiedesse, ché sulla via

mi trovavo di Damasco, per  quanti

 

fustigati aveo ragione, di mia

medesma mano e degl’altri ch’andavo

a perseguire! Ma la diceria

 

che mi vorrebbe poscia tanto bravo,

quanto spietato sarei stato pria,

vorrei condurre al suo corretto enclavo;

 

passi dunque d’ogni soperchieria

l’addebito e d’ogni complicità,

che sia in Giudea oppure in Samarìa,

 

  

per arroganza o cieca volontà,

abbia avuto nelle persecuzioni

dei fratelli ebrei, che alla novità

 

di Cristo subito eran stati proni;

però quello che a me pare più inviso

è che qualcuno fuor dal coro stoni

 

accusandomi anche d’avere ucciso!

No, no, e poi ancora no! Giammai

Il mio braccio fu di sangue nostro intriso

 

Di quei della mia stessa razza! Mai

mi spinse a dar la morte il tanto odio

Che pur covavo allora contro i sai

 

Che, minacciando d’occupare il podio

Supremo dell’avito Tempio, il Verbo

Novello di Gesù, come in allodio

 

Diffondevano intorno. Ero acerbo

Quando i mantelli dei lapidatori

Del primo martire cristiano in serbo

 

  

avevo e quando gli estremi  rigori

Del voto mortale in Sinedrio io davo!

Ma della legge è noto ai più cultori

 

Come non sia punibile lo schiavo

Quando esegua; ed io agivo stretto

Dalla legge, di cui l’antico avo

 

Mosè, a tutti noi  imponea rispetto;

ed  anche io la sentia vincolante!

Nel giusto io mi credea, anzi costretto,

 

ad agire in quel modo di zelante

 gioventù! Di Gesù, figlio di Abbà,

niente sapevo ancora, ma ignorante

 

ero di Lui e della verità

con cui Il Cristo ha illuminato il mondo!

Quando poi cessò in me la cecità

 

M’accorsi che avevo toccato il fondo

E vidi il vero nella sua realtà!

Oh me l’infelice, quando iracondo

 

 


Perseguivo i fratelli con viltà!

Oh me il fallace, che la vecchia via

Sola vedevo di mia volontà!

 

Ebbene, Dio, nella coscienza mia

Non volle che pesasse anche il supplizio

D’aver tolto la vita! E dunque sia:

 

Non mi sottrarrò al vostro giudizio!

Né valga ciò che dopo sono stato

A mio favore! Che sia all’inizio

 

Che sia al prosieguo, io fui destinato

A ciò che in alto fu per me deciso;

nel bene e nel male io l’ho accettato!

 

E se quello a voi apparisse inviso,

io questo l’ho accettato di buon grado

e il mio sentiero di dolore intriso

 

è stato ed ancora è, dovunque vado!

Non siate dunque voi assai severi,

e quando in aria lancerete il dado

 

  

considerate insieme oggi e ieri,

ché la vita di un uomo è un tutt’uno

fatto di azioni e di umani pensieri;


e mentre son le prime  per ognuno

ben palesi, quegli altri solo Dio

li sa pesare, attribuendo a ciascuno

 

il suo giusto tributo! Dunque io,

quando fui scelto per la diffusione,

nel mondo, del nuovo credo, di mio

 

misi, come in passato, la passione

e la coscienza di essere nel vero!

Conosco e vi precedo l’obiezione

 

Che con un simil ragionar, invero,

nessuno potria mai ser condannato,

il bugiardo mostrandosi sincero

 

e l’omicida saria liberato!

Ma conoscevo ben solo una legge

Prima che alla mission fossi vocato!

 

  

Ed era la legge di Mosè! Vegge

Chiunque quindi come fossi giusto!

Vorrei comunque dire per chi legge

 

Questo mio scritto, che il solo disgusto

Di cui serbo memoria di quegli anni

Trascorsi in preda a quel gran trambusto

 

Giovanil, son le torture e i malanni

Che senza pietà arrecavo ai rei

Presunti! Questo tra i diversi danni

 

Riconosco! Lo stesso che i Giudei

Cristiani oggi tentano di fare

A me e a tutti gli altri Ebrei

 

Che sol intendon farsi battezzare,

ritraendosi alla circoncisione!

E dunque il mio invito ad avvicinare

 

Gesù e la Sua nuova religione

Lo perseguo con infinito amore,

giammai con violenza o con restrizione!

 

 

È tempo ormai d’aprire il nostro cuore

Al mondo, come Gesù ci ha insegnato!

Il Verbo del Cristo, nel Suo vigore

 

Non deve più restare limitato

Negli angusti confini d’Israele,

di Giudea e di chiunque vi è nato!

 

E non già con la forza e con il fiele

Si fa la via che a Gesù conduce!

Dispieghiamo spontanei le vele

 

Del nuovo vento di riscatto e luce,

che a Gesù Cristo Il nostro Redentore

e alla Promessa di salvezza adduce!

 

Gesù, morto in croce per nostro amore,

di noi tutti quanti, Ebrei e pagani!

Cerchiamo orsù con entusiasmo e ardore

 

Di collaborare ai Suoi santi piani

Per questa Nuova ed Eterna Alleanza

Che vorrebbe veder, tutti i Cristiani,

 

 

Uniti in una sola fratellanza,

tutti gli uomini e razze della terra!

Valutate voi la vera importanza

 

Della nuova fede in Cristo! Ed erra

Chi non si rende conto che è la pace

La nuova frontiera, non più la guerra!

 

E Gesù Cristo, pur morto, non giace

Ma Egli è risorto! Io, testimone,

apostolo indegno, eppure capace,

 

da Lui sono stato per la missione

giudicato e scelto in prima persona

e incaricato della diffusione

 

del Vangelo, non solo in questa zona

ma in tutto il mondo che sia conosciuto!

E sì farò, sinché non sarà prona

 

La mia volontà e non sia venuto

Il giorno del giudizio universale,

quando completo il mondo avrà saputo

 

 

la Verità che veramente vale

ed il sentier che ognun deve seguire,

lungo la via che al Padreterno sale!

6.02.2025

Dalla Sicilia al Piemonte

 

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Capitolo Primo

 

 

-         “ Attaccabrighe, donnaiolo e giocatore! Ecco chi è l’uomo che ci ha chiesto la mano di nostra figlia Luigia! Hai capito, Margherita? Lo hai capito?”

 

Donna Margherita guardò senza apparente emozione il viso alterato dalla collera di suo marito. Dopo trent’anni di matrimonio, avendo imparato a conoscerlo, decise di lasciarlo sfogare fino in fondo. Tuttavia trovava ancora simpaticamente buffa quella  sua intonazione  spiccatamente piemontese che nei momenti di ira sembrava ancora più accentuata.

 

- “ E senza contare che è pure siciliano ed ex-garibaldino!” - . L’ avvocato Stranèo si fece cadere sulla sedia con un’enfasi   teatrale, frutto   di una drammaturgia che gli derivava più dalla sua frequentazione delle aule giudiziarie   che da un effettivo sconforto per le notizie che quel biglietto riservato gli aveva recapitate.

 

Donna Margherita lesse quelle poche righe vergate sul foglio che il marito le aveva allungato, prima di sprofondare nella poltroncina in legno dietro la sua scrivania. Gli epiteti poco lusinghieri erano riferiti naturalmente al Capitano Gaspare Nicolosi. E a chi altri, se no? Nessuno prima dell’ufficiale siciliano aveva mai chiesto la mano della loro primogenita Luigia. Anche lei si sedette sul bordo di una delle due sedie, dal lato opposto della scrivania.  Per guadagnare ancora qualche secondo fece finta di leggere, ma voleva solo  studiare la migliore strategia. Il titolo nobiliare lo aveva acquisito dopo il matrimonio con Amedeo Stranèo che apparteneva ad un ramo cadetto di una delle più antiche famiglie nobiliari del Monferrato, da sempre fedelissimi alla casa Savoia.

Margherita era discendente per metà da una famiglia della ricca borghesia mercantile genovese e per l’altra metà, in linea materna, da una agiata famiglia di Tortona.

Dai suoi avi aveva ereditato il senso pratico degli affari, che  aveva intelligentemente trasfuso nella gestione dei rapporti dentro e fuori la casa, insieme ad una maggiore prospettiva nella visione del mondo che, al contrario di quanto accadeva a suo marito, non era circoscritta dai confini del vecchio Regno di Sardegna o, peggio ancora, da quelli dell’ancor più antico Ducato di Savoia. E naturalmente non nutriva alcun pregiudizio sui siciliani e sugli ex-garibaldini. Ma questo si guardò bene dal dirlo. Decise di partire da lontano.

 

-         “ Bella questa grafia! Di chi è?”- chiese restituendo il foglio.

-         “ Del figlio di mio fratello Bartolo, il tenente Giovanni Stranèo, quello che comanda un plotone nel  I° Battaglione Fanteria del Reggimento Crimea, lo stesso dove presta servizio questo capitano Nico non so che!”

-         “ Nicolosi” – disse pazientemente Donna Margherita.

-         “ Appunto!”- interloquì l’avvocato Stranèo, ricordandosi che il nipote gli aveva raccomandato nel P.S. della missiva riservata di distruggerla  subito dopo averla letta. Gettò la lettera sul fuoco che ardeva nel camino. Le fiamme l’avvolsero in un famelico e repentino  boccone.

-         “Il capitano Nicolosi “ – riprese Donna Margherita  con non curanza, avvicinandosi  al  fuoco che il marito aveva cercato di ravvivare, approfittandone per disperdere i residui della recente combustione – “ è però  in forza al II° Battaglione Cavalleggeri !”

-         “ E che significa? Gli ufficiali frequentano tutti lo stesso Circolo ed agiscono sotto lo stesso Comando!”

-         “ Ma è arcinoto a tutti che tra i fanti ed i cavalleggeri del Reggimento Crimea non è mai corso buon sangue!” – replicò Donna Margherita, che non aveva svolto studi specifici in materia militare, ma vi sopperiva con una discreta conoscenza dei resoconti salottieri femminili, cercando di smussare i toni del discorso.

-         “ State cercando di insinuare che un gentiluomo della casata Stranèo può aver confezionato delle baggianate per infangare ingiustamente un collega ufficiale di reggimento?”

-         “ Caro, hai presente la contessa Eleonora Chivasso Canavese?” – Donna Margherita si rese conto subito che era meglio cambiare strategia.

-         “La moglie del conte Edoardo Canavese?” – domandò l’avvocato Stranèo con uno tono di voce improvvisamente più dolce.

 

I conti Canadese erano di casa dagli Stranèo. Il conte Edoardo era compagno di caccia dell’avvocato e la contessa Eleonora faceva parte con Donna Margherita del Gruppo Cittadino delle Dame di Carità di San Vincenzo. Inoltre i conti Canavese avevano battezzato il loro ultimogenito Giacomo.

 

-         “ Sì, proprio lei! Luigia le ha chiesto, in via riservata, si intende, di prendere informazioni ed Eleonora conosce personalmente l’ufficiale attendente  in prima del Comandante del  Reggimento  Crimea! Non è una fortuna?”

-         “ Già, bella fortuna! Se  questo è il risultato della tua educazione a nostra figlia! Ma quando mai s’è visto che una brava figlia prenda una simile iniziativa senza interessare prima i suoi genitori?”

 

“Se non altro è tornato al tu” penso rincuorata Donna Margherita, che sapeva come quel “voi”, che  suo marito aveva imparato ad usare da suo padre nei momenti in cui occorreva  rimettere al posto loro le donne, fosse l’emblema di un estremo disappunto. Adesso, invece, il rimprovero che suo marito le aveva mosso sull’educazione della figlia celava, dietro il tono burbero, una bonaria e rassegnata accondiscendenza.

 

-“ Oh, caro, non te la prendere! Non sono più i nostri tempi. Oggi, anche le figlie femmine, cercano di affrancarsi quanto più possono dal ruolo di subalternità! Del resto, se venisse confermata la predisposizione al gioco del pretendente di nostra figlia, sarei la prima io ad imporle il distacco più radicale di ogni pensiero che lo  riguardi. Mi preoccupo del gioco e non delle brighe, perchè quando un vero uomo dovesse accasarsi, diventano ricordi da ragazzi. Quanto alle  donne, poi, un uomo, se non va dietro alle donne mentre è libero  e solo, che razza di uomo sarebbe mai? Anche tu, Amedeo Stranèo, prima di prendermi in sposa, puoi negare di essere andato dietro alle donne?”

 

L’avvocato Stranèo sembrò convincersi alle parole che la  moglie, con grande garbo femminile, le aveva rivolto, o quantomeno ne sembrò placato. Non volle tuttavia cedere le armi senza un’ultima battaglia.

 

-         “ E cosa farai se ti confermeranno  che si tratta proprio di un siciliano e, per di più, di un ex- garibaldino?”

-         “ Ma Amedeo caro, se il nostro amato sovrano Vittorio Emanuele II°,  ha deciso di inserire gli ex-garibaldini nei ranghi dei suoi migliori reggimenti, proprio noi sudditi dovremmo ribellarci? E non ha forse detto, il Suo stesso Primo Ministro, che dopo aver fatto l’Italia, occorre fare gli Italiani?”

-         “ Eh, già! E tu gli italiani di Camillo Benso li vuoi iniziare a fare in casa nostra?”

-         “ E perché no? “ – rispose Donna Margherita imitando il tono giocoso del consorte.- “ E non ti scordare, infine, che Luigia ha già   ventuno  anni suonati! Vuoi forse che tua figlia maggiore resti zitella, mentre le  sorelle minori saranno già maritate e con prole?”

 

L’avvocato non ebbe nulla da replicare e sua moglie si licenziò con un bacio e con un leggero inchino, che abbozzò quando era già sulla porta. Quell’ultima considerazione si dimostrò decisiva, più avanti, quando si trattò di decidere se accettare o meno la proposta matrimoniale del capitano dei Cavalleggeri, in forza al Reggimento Crimea, di stanza ad Alessandria di Piemonte,  Gaspare Nicolosi da Mazara del Vallo di Sicilia.

6.01.2025

Memorie di scuola

 

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Terza media
Anno scolastico 1967-1968

 

 



Alla fine dell’estate di quel 1967 mio padre, messi da parte i sogni di gloria siciliani, ci riportò in Sardegna, riunificando così la famiglia.

Il ’68 era alle porte! A fine anno scolastico già si vedevano in giro i primi capelloni e si incominciava a vagheggiare di viaggi psichedelici, attraverso i film e i documentari sui Figli dei Fiori che negli USA già spopolavano; noi maschietti fantasticavamo di minigonne inguinali e camicette trasparenti nakelook che a Londra già mostravano tutto il desiderabile delle donne.

E pensare che poco tempo prima, i giovanotti del mio paese, pagavano 50 lire a Efisiu Cruxoi (in pratica quel personaggio, presente in ogni paese, che con insensibilità e incoscienza si definiva “lo scemo del villaggio”) affinché sollevasse le gonne di qualche pulzella da marito, che con passo impettito, nelle interminabili vasche domenicali (dalla Piazza di Chiesa alla discoteca Moulin Rouge, andata e ritorno) metteva in mostra le pesanti palandrane in cui erano costrette, ben fasciate, le loro bramate grazie. E il massimo della curiosità maschile veniva soddisfatta da certi calendarietti profumati che i barbieri regalavano ai clienti più affezionati; oppure da fumetti e giornali che toccavano l’apice della trasgressione con la rivista “Le Ore”, gelosamente custodita sotto i materassi dei letti dei maschi singoli di allora.

Con la promozione guadagnata con merito e fatica a Spadafora, e col relativo nullaosta, ottenni l’iscrizione alla classe terza della scuola media “E. Puxeddu” del mio paese natio.

Finalmente anche io potevo frequentare una scuola mista! Fino ad allora infatti avevo frequentato sempre scuole soltanto maschili, un po’ a causa della mia frequenza in seminario, un po’ a causa delle vecchie norme che prescrivevano, sulla base delle vecchie convenzioni di una didattica superata, la separazione dei sessi, onde non distrarre i maschi (future colonne portanti della nazione) con le vane chiacchiere e l’ozioso cicaleccio delle future regine degli italici focolari.

Si dà il caso però che a me, lo spensierato ed affascinante riso femminile, piacesse molto di più delle prestazioni muscolose e spavalde dei miei coetanei maschi!

Fui contento inoltre di trovare in classe due ex allievi dei Salesiani di Arborea che, più o meno come me, dopo il primo anno di quella vita fatta di studi e preghiere (e niente sottane, a parte quelle dei preti, naturalmente!), se l’erano squagliata alla grande, ritornandosene al paese.

Anche troppo contento. al punto che, pur di scansare quanto più possibile lo studio, chiedemmo tutti e tre l’esonero dallo studio della lingua latina, per potercene andare a bighellonare per il paese.

Che errore madornale! Più tardi, all’università, alle prese coi decreti di Augusto, con le istituzioni di Gaio e con le formule arcane del processo romano, avrei sudato sui libri di latino riposti troppo presto negli scaffali più alti della libreria, dopo le ricche scorpacciate di declinazioni e sintassi latine fatte in seminario con gli eruditi docenti salesiani, per potere gustare appieno quei brocardi pieni di saggezza antica ed immortale.

E che grande errore ha commesso il nostro legislatore ad espellere il latino dai curricula scolastici della scuola dell’obbligo!

Ma quella, in fondo, era soltanto una parte dell’antifona di quella grande sinfonia rivoluzionaria sessantottina che sarebbe presto esplosa in tutta la sua maestosa potenza!

Quell’anno scolastico lo ricordo come uno dei più disastrosi della mia, tutto sommato, soddisfacente carriera scolastica.

Riuscii perfino a farmi rimandare in matematica e fisica.

Anche se mia mamma mi difese a spada tratta (poiché voleva che almeno io, a differenza dei fratelli più grandi, risucchiati troppo presto nel vortice produttivo dell’azienda familiare, continuassi gli studi sino alla laurea) sostenendo che il professore si era vendicato su di me per il fatto che lei gli aveva negato la vendita di una sveglia a rate di cui lui aveva fatto richiesta a mia madre, una sera, in negozio; e mia madre, senza peraltro conoscerlo, come ho appena detto, si era rifiutata, con grande e palese disappunto del professore, di dargliela.

E mio padre, che stanco delle rate non onorate, aveva fatto stampare ed affiggere nei suoi due negozi dei cartelli che recitavano “Si vende a rate solo ai centenari accompagnati da genitori“, fu costretto, nonostante tutto, ad accettare la mia iscrizione alle scuole superiori della vicina città di Cagliari. E sotto, sotto, sognava che sarei diventato il contabile dell’azienda di famiglia. Per questo acconsentì, a patto che io venissi iscritto alla scuola per ragionieri e contabili.

Ma questo fa già parte di un’altra storia.

Intanto Al Bano cantava “Nel sole”; Little Tony “Cuore matto” e Rocky Roberts “Stasera mi butto”.

E i solitari e i romantici, nei bar per soli uomini, la sera selezionavano a ripetizione nei Juke Box allora in voga, “San Francisco” di Scott Mackenzie; “L’ora dell’amore” dei Procol Harum ma eseguita in italiano dai Camaleonti e “A chi” di Fausto Leali.

Occorre dire che la classe mista in cui mi ritrovai, era per me, un’esperienza alquanto nuova.

Ero stato in classe mista, come l’attento lettore certamente ricorderà, l’anno precedente, anche se solo per un breve trimestre. Ma la classe era comunque una classe per me nuova, anche se vi ritrovai tante facce conosciute.

A causa del mio curriculum scolastico alquanto nomade non potevo dire di avere dei veri e propri amici del cuore; ma le compagne ed i compagni erano in fondo, quasi tutti, nati e cresciuti come me nel paese. Dico quasi tutti perché non mancavano certo dei compagni che si trovavano in quella classe per avventura: figli di carabinieri trasferiti in servizio nella locale caserma da altre parti d’Italia o da altre provincie della stessa Sardegna; figli di funzionari, tecnici o semplici operai del locale zuccherificio, ove si produceva lo zucchero attraverso la lavorazione della barbabietola, coltivata nei vasti campi della pianura del Campidano, al centro del quale è situato il mio paese natio; o magari figli di pastori del Capo di Sopra che, stanchi della vita da transumante, cominciavano ad impiantare le proprie aziende in pianura, dove le loro pecore potevano trovare nutrimento tutto l’anno: nei pascoli aperti, dalla primavera al primo autunno; nei capannoni chiusi, grazie all’erba medica e al fieno ivi accumulati in estate, durante i mesi più freddi e piovosi. Ma in maggioranza, lo ripeto, si trattava di facce conosciute.

Con le ragazze, come si sa, a quell’età c’è un divario esistenziale notevole. Nel senso che le adolescenti a tredici, quattordici anni, sono già donne, con i loro segreti, il loro fascino misterioso che esse riescono ad accrescere un po’ per malizia o magari per timidezza, con quel senso di superiorità nei confronti dei loro coetanei maschi, ancora alle prese con le dinamiche ormonali, in fase di frastorno e trasformazione. E loro, già donne compiute, per istinto posavano gli occhi sui ragazzi più grandi; o forse era il corteggiamento di cui questi erano già capaci, a differenza di noi bambini, che le facevano sentire importanti e distanti da noi.

Tra i ragazzi ritrovai due fuoriusciti dei Salesiani di Arborea che, come me, seppure per motivi diversi, erano andati via dopo appena un anno di Seminario. Uno si chiamava Giorgio (soprannominato ”Villaggio”, che in realtà era il soprannome di uno dei suoi numerosi fratelli più grandi;i genitori avevano una bottega di generi alimentari con annesso panificio e portavano le bombole a domicilio; nei pomeriggi assolati d’estate, come ho già detto, scappavamo spesso al fiume a bordo del triciclo di famiglia, quando ovviamente non serviva più né alla consegna del pane, né al trasporto di bombole); l’altro si chiamava Paoletto, ma il suo soprannome era Tomeno; si era guadagnato un tale nomignolo in Seminario quando, in occasione della correzione dei compiti scritti di Francese lui, che prendeva di frequente un otto non pieno, diciamo un otto meno, a chi gli chiedeva quanto avesse preso ( gli studenti fanno ancora questi confronti, in occasione della correzione di compiti in classe), forse per timidezza, o per un vezzo nel mangiarsi le sillabe iniziali del voto, fu colto a rispondere “tomeno”; e quel soprannome se lo riportò indietro al paese.

Giorgio e Paolo divennero presto un punto di riferimento per me; e nel bene o nel male, ci influenzammo a vicenda in quell’anno così cruciale, dove non eravamo nè carne, nè pesce; ed io, in particolare, mi sentivo sbandato ed irrequieto come non mai. Giorgio aveva sempre appresso delle riviste che in quel periodo andavano forte: Ciao amici e Giovani. Queste riviste parlavano dei gruppi beat e della musica allora in voga: Quelli, I Ribelli, Ricky Maiocchi,I Sorrows, I Trappers, I Balordi, I Bisonti, I Girasoli, Igor Mann & I Gormanni, Ricky Shayne, I Califfi, I Corvi, Ricky Gianco, I Delfini, Evy, I Jaguars, I Meteors, i New Dada e tanti altri che ora non ricordo. Questi gruppi cantavano la rivoluzione, la libertà e la voglia di cambiare il mondo. Reinterpretavano anche molti brani del rock anglo-sassone (oggi si chiamano covers): Bang-Bang, Lady Jane, The house of the rising sun.

Giorgio li conosceva proprio tutti e questo fece crescere a dismisura la mia ammirazione nei suoi confronti. Grazie a quelle riviste, lui conosceva tutti i segreti di questi affascinanti gruppi musicali, che vivevano, a sentir le parole delle loro canzoni, in un mondo pieno di suoni, di colori, di bionde avvenenti e sorridenti che noi potevamo soltanto sognare di notte, dopo averle viste, alquanto discinte , nei calendarietti che i nostri fratelli più grandi ricevevano in omaggio dai barbieri, ove settimanalmente si recavano a cotonarsi e sistemarsi i capelli sempre più lunghi e disordinati, per affrontare con più baldanza e sicurezza le serate nelle sale da ballo, dove ancora si esibivano dal vivo i complessini locali che scimmiottavano, con maggiore o minore bravura, i grandi gruppi internazionali Rock di allora: Santana, Deep Purple, Pink Floyd, Led Zeppelin.

In quelle riviste, sbirciate di nascosto durante le ore di lezione (il professore di religione, un uomo di forte carattere e grande cultura un giorno minacciò di cacciarmi via dall’aula; e aggiunse, lo ricordo ancora, che sarei stato il primo suo studente a subire una tale sanzione), lessi per la prima volta l’aggettivo “psichedelico” che si accompagnava sempre a delle immagini colorate, foto di giovani vestiti alla moda del momento, collo sguardo perso nel vuoto, donne affascinanti, disinibite e sensuali, così diverse dalle nostre donne, ancora coperte di pudore e discrezione, fossero anche giovani studentesse, ancora sotto il dominio del maschio geloso e possessivo.

A tal proposito mi ritorna in mente un episodio che avvenne in paese. C’era uno del mio paese, di qualche anno più grande di noi, un certo Toschi (così chiamato perché giocava al pallone ed aveva come idolo e modello proprio il centravanti della Sampdoria che allora portava quel cognome); questo Toschi si era innamorato, contraccambiato, di una certa Laura, una bella ragazza minorenne di diciotto, forse diciannove anni (all’epoca la maggiore età si raggiungeva ai ventuno anni); il padre di Laura, un funzionario di alto livello dello Zuccherificio dell’Eridania (i funzionari e i tecnici di alto livello avevano diritto a uno degli appartamenti che l’Eridania aveva fatto costruire a ridosso dello stabilimento industriale, a poca distanza dal centro abitato), che per la figlia sognava un partito più vicino al suo e, comunque, molto distante dal prototipo di un giovane calciatore, che solitamente, per rincorrere il pallone mollava qualsiasi impegno, di studio o di lavoro che esso fosse, finendo con buona approssimazione, se non aveva una famiglia facoltosa alle spalle, a fare il commesso in qualche negozio o peggio, nell’ottica del padre di Laura, a campare di lavori manuali, magari a giornata, nell’agricoltura o nell’ edilizia.

Così un giorno, che i due innamorati si erano incontrati in qualche parte del paese, il padre della avvenente Laura piombò sulla coppia e se la riportò a viva forza a casa, gridando ai quattro venti, proprio mentre trascinava la figlia in lacrime, nella piazza centrale, che al compimento della maggiore età, se ancora fosse stata innamorata di quello scavezzacollo senza arte né parte, le avrebbe regalato una corda con la quale si sarebbero potuti impiccare entrambi.

A ottobre iniziai la mia terza media. Oltre a dottor Floris, l'insegnante di religione che ho citato nell'episodio precedente, c'era un certo prof. Decio, insegnante di disegno, un dandy elegante sicuramente bravo nella sua disciplina.

Io ero negato in disegno ma lui mostrò dì apprezzare l'uso che io facevo dei colori. Una professoressa che apprezzavamo in particolare noi ragazzi era una giovane insegnante, forse di Scienze Naturali o di Geografia (ora non ricordo). Quel che ricordo di sicuro era che a noi faceva impazzire quel modo speciale che aveva lei, di accavallare quelle sue gambe fasciate di nylon, dove si intravvedevano delle giarrettiere e dove il nostro occhio cercava di scrutare l'inscrutabile. I più sfacciati di noi buttavano per terra delle penne o dei quaderni, per avere l'opportunità di chinarsi sin sotto la cattedra, a scrutare meglio quel paradiso di sogni proibiti.

Poi ricordo la prof di italiano; era la vedova di un professorone, un certo Mossa, grande studioso di cultura sarda e non solo. Era una tipa magra, piccola e nervosa che fumava una sigaretta dietro l'altra (mi pare di ricordare fumasse le Muratti Ambassador, ma sulla marca non ci giurerei).

Era in gamba e mi fece amare l'epica dei classici Greci, ed in particolare L'Iliade e l'Odissea, che insegnava con passione.

Ricordo ancora l'insegnante di matematica, un certo Gennaro di Villacidro di cui preferisco non fare il cognome.

Non mi sopportava, e come il lettore avrà già intuito, io non ero uno studente che si sforzasse di farsi sopportare. Tutt'altro.

Ai colloqui mia madre scoprì che questo insegnante era un mancato cliente del negozio che aveva preso a gestire per aiutare mio padre.

Il mio buon vecchio regolarmente stazionava nella succursale che aveva aperto in un paese limitrofo, più popoloso e redditizio del nostro paese di residenza.

Raccontò mia madre che questo professor Gennaro, si era presentato in negozio per comprare una sveglia a rate (ma mia madre non sospettava certo fosse un mio professore; altrimenti, confessò candidamente, non gli avrebbe certo negato quanto chiedeva).

A quel tempo si usava ancora tale tipo di vendita ma mio padre l'aveva bandita perché si era stancato di perdere soldi e clienti.

Mio padre raccontava infatti che quando gestiva il precedente esercizio commerciale nel distretto minerario di provenienza della famiglia di mia madre, aveva accumulato due valigioni stracolmi di cambiali, firmate da clienti che erano dovuti emigrare in Belgio, in Francia e in Germania, quando le miniere sarde erano entrate in crisi.

Nelle curve che da Guspini lo portavano verso Gonnosfanadiga (e poi a Villacidro e infine al paese dove io poi nacqui, nel 1954) aveva sparso fuori dal finestrino dell'automobile tutte quelle cambiali inesigibili, giurando a se stesso che mai più avrebbe venduto della merce a rate.

Secondo mia madre Gennaro mi rimandò in matematica perché si era alquanto indispettito per quel diniego inconsapevole che lei gli aveva opposto.

Io, con l'esperienza di oggi, sono più propenso ad accollarmi la responsabilità di quel fallimento scolastico. Anche se, ad esser sincero, ricordo ancora qualche lezione di quel professore, in particolare sui monomi e sui binomi che, in qualche occasione, egli accompagnava con le sue filippiche contro la Televisione di Stato (l'unica all'epoca esistente), rea, a suo dire, della più becera censura, in quanto a lui sembrava assurdo, che si obbligassero le gemelle Kessler (due fate tedesche che il sabato sera allietavano le serate dei maschi italiani con dei balli perfetti su delle gambe altrettanto snelle e perfette) ad indossare delle calzamaglie scure. A sentir sempre lui le cose sconce erano altre e quella censura era frutto dell'ipocrisia dei bigotti clericali. Beh, almeno sulle gambe delle gemelle Kessler potevamo dirci d'accordo anche col prof. Gennaro di Villacidro.

In quell'anno scolastico 1967-1968 tante cose accadevano anche fuori dalla scuola, anche se i canali di informazione di allora erano alquanto limitati.

Non tutti, in effetti, fummo informati del barbaro omicidio di Che Guevara (che poi sarebbe divenuto un idolo per tanti giovani sessantottini e per i loro epigoni degli anni settanta), avvenuto ad ottobre sui monti boliviani.

Ma tutti, perfino noi, nel nostro remoto paese della Sardegna venimmo a conoscenza della nuova, grande frontiera che la scienza medica e la chirurgia andavano percorrendo: un certo professor Christian Barnard, in un Paese a me conosciuto soltanto per il lancio delle navicelle spaziali (di lì a due anni, in effetti, l'uomo avrebbe messo il piede per la prima volta in un astro celeste, fosse anche solo il piccolo satellite terrestre chiamato Luna), aveva trapiantato un cuore nuovo ad un cardiopatico, regalandogli una nuova vita.

Quanti sogni e quanta ammirazione provai per quel professore appena conosciuto! Nella mia ingenua adolescenza il mondo prese così a dividersi in due parti nettamente distinte: una bianca e l'altra nera. Nella parte bianca includevo Christian Barnard, le gemelle Kessller, gli astronauti e gli scienziati che sondavano il cosmo alla ricerca di forme di vita nuove con cui migliorare il mondo, i gruppi rock e quelli psichedelici, con le bionde slavate e discinte, affamate di esperienze e di sesso (magari da consumare con noi giovani e scalpitanti studenti sardi), Martin Luther King e John Kennedy, Gandhi e i disegnatori di fumetti. Nella parte nera c'erano i retrogradi e i matusa (che impedivano alle donne di mostrarsi disponibili), i preti e il clero (che vietavano il sesso ai giovani, incutendogli la paura dell'inferno e condizionando le donne psicologicamente), i ricchi egoisti, i fascisti e i democristiani.

Il papa Paolo VI (che mio padre, anticlericale e nostalgico del Papa Buono, Giovanni XXIII, morto prematuramente, aveva soprannominato Volpe Sesta) emanò un'Enciclica, intitolata, mi pare di ricordare, Humanae Vitae, in cui condannava ogni forma di contraccezione e forse, nella mia visione immatura e distorta, perfino i rapporti sessuali prematrimoniali. Indi per cui anche lui fu messo nella parte nera (povero Paolo VI, un uomo dal cuore d'oro, che aveva regalato la sua cospicua eredità agli operai disoccupati della sua Milano, quando lì era ancora Arcivescovo, mai riconosciuto nella sua grandezza, se non in questi ultimi anni, almeno dalla sua stessa Chiesa).

Scolasticamente parlando quell’anno fu davvero poco fruttuoso per me. E non posso attribuire la colpa a quei professori, tutti, o quasi tutti, assai seri e valenti.

Come fu e come non fu, fatto sta che io mi dovetti passare l’estate a studiare la matematica e la fisica. E sì che con Paolo e Giorgio avevamo realizzato una bilancia in legno, (nell’ambito dello studio pratico della Fisica) che era un capolavoro di perfezione artigianale.

Sulla scuola voglio confessare ancora due cose di cui non vado per niente orgoglioso, frutto anch’esse di quel mio stato d’animo irrequieto e insoddisfatto che mi porterà anche in seguito a cercare, in giro per il mondo, ciò che poi scoprii avere già dentro di me, come credo che sia per ogni adolescente che si rispetti.

La prima è che decidemmo, con Giorgio e Paolo, di saltare le lezioni di latino, per poter godere di qualche ora di libertà da spendere in vagabondaggio e poltronismo. La seconda, di cui mi vergogno ancora di più, è che in un momento di buio dell’anima, fui spinto a dare fuoco a un piccolo, prezioso libro sacro. Si trattava di un piccolo Vangelo, un ricordo della mia permanenza in Seminario. Gli diedi fuoco in un sottoscala che era divenuto il mio rifugio segreto. Lì i miei fratelli maggiori, ed io stesso, nascondevamo i giornaletti, i libri gialli (si trattava di libri gialli della Mondadori, con annessa la serie viola, quella erotica, su cui alimentai le prime fantasie amorose) e le riviste proibite, per sfuggire alla severa censura di mio padre che era impietoso ed estremo nelle sanzioni: ai giornaletti, che distraevano i suoi coadiuvanti di bottega dal lavoro e dal retto vivere, veniva dato fuoco. Ma i miei fratelli, per ogni giornaletto bruciato sembrava ne procurassero altri due. I giornaletti proibiti erano Kriminal, Satanik, Diabolik, Vartan, Wallala, Lando e altre amenità dell’epoca che stuzzicavano le mie fantasie ormonali con appropriati e sconci disegni, corredati di particolari anatomici veritieri e arrapanti. Certo le mie aspirazioni, in quel campo proibito, erano di potere sfogliare “Le Ore”, il summit delle riviste pornografiche di allora, ma quei giornalacci li conobbi, per fortuna, solo più tardi, durante la naja. Per quanto riguarda lo studio del latino, ebbi modo (ma in un certo senso ne fui costretto, pur se lo feci assai volentieri) di rifarmi più avanti, quando giovane studente universitario, mi appassionai così tanto allo studio del diritto (ed in particolare allo studio delle istituzioni di diritto romano) che volli assaporare il piacere di leggere ed apprezzare la saggezza e la profondità del pensiero giuridico dei grandi giureconsulti romani nella loro lingua originale. Così che mi diedi, tra un esame e l’altro, allo studio indefesso della lingua latina; e anche se, per ragioni di tempo, non andai oltre la lettura e la comprensione di testi del livello del “De bello gallico”, riuscii comunque nell’intento di comprendere e tradurre gli aforismi e i brocardi che incontravo nella piacevole lettura dei testi universitari. Per quanto riguarda invece il Vangelo, ho cercato e cerco di riscattare quello stupido e inverecondo gesto, componendo la Bibbia in versi dalla A alla Zeta; e debbo dire di essere a un buon punto, dopo venti anni di lavoro e spero nel giro di un altro lustro di terminare il monumentale lavoro. Ma di questo, e di altro, avrò modo di parlare al paziente lettore in seguito, se avrà la pazienza di seguirmi sino in fondo.

In quello scorcio del 1968 che segnò la seconda parte di quel mio disgraziato anno scolastico molte altre cose erano successe.

A marzo, con mio padre, che era un grande appassionato di boxe, avevamo passato una notte svegli a guardare Nino Benvenuti conquistare il titolo di campione del mondo contro Emil Griffith. Mio padre, cresciuto a fantasticare le sventole micidiali di Primo Carnera, trovò inadeguata la tecnica del grande campione istriano, fatta di saltelli e di sapienti colpi mordi e fuggi. Ma io la trovavo affascinante, anche se non avevo il coraggio e la maturità per dirlo. Comunque gioimmo tutti per la grande vittoria del campione italiano.

Poi arrivò giugno e, come già detto, io fui rimandato in matematica e fisica.

A settembre feci un esamone di riparazione assai brillante e sicuro e fui promosso per la scuola superiore.

Ma questo fa già parte di un’altra storia.

In viaggio come un Pellegrino

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