9.21.2025

Il Manuale del perfetto orologiaio

 


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Capitolo Settimo

 

 

 

«Qual buon vento ti porta alla Sconcia, bella ragassuola!», esclamò allegramente Maturina, abbracciando Giuditta.

«Sono venuta per parlare di quella proposta che è qualcosa più di una semplice offerta di lavoro, come avete detto voi quel giorno che ci siamo conosciute».

«Certo, ricordo bene. Come mai ti sei decisa proprio adesso?»

«Mi sono stancata di fare la magazziniera!» Giuditta evitò di riferirle che il vero motivo era la proposta di matrimonio che lo zio Anselmo le aveva fatto. Non era il caso che quella furbona bolognese lo sapesse.

«E tuo zio Anselmo come l’ha presa?», chiese l’acuta matrona, cercando di infondere un tono neutro alla sua domanda.

«Lo zio non può dire niente. Ho dei segreti, qui dentro, che potrebbero nuocere non poco ai suoi affari», disse la giovane poggiando la mano destra all’altezza del prosperoso seno.

Maturina intuì, più che capire; e comunque la ragazza le parve molto sicura di sé; ed era molto bella; forse più di quanto non lo fosse stata lei in gioventù; proprio la persona che ci voleva per rilanciare gli affari della sua maison.

«Vieni, prendi il tuo bagaglio che ti faccio vedere la tua sistemazione; strada facendo parleremo di affari. Hai già fatto colazione?»

«Sì, certo».

«Bene. Qui siamo al terzo piano e ci viviamo soltanto io con il mio compagno; e adesso tu, che occuperai queste tre stanze che sono libere. Del primo piano tu non dovrai interessarti, ma te ne voglio informare lo stesso: è chiamato il piano dei Baiocchi, e ci sono  dodici camere, suddivise in tre classi: la terza classe, da 20 quattrini (ovvero quattro baiocchi), si affitta per un quarto d’ora; la seconda, da trenta quattrini (o sei baiocchi) vale mezz’ora; la prima classe, da mezzo scudo (ovvero 50 baiocchi) vale un’ora intera».

Giuditta ascoltava la matrona con la stessa attenzione con cui aveva ascoltato suo zio Anselmo quando aveva preso a spiegarle il funzionamento dello stoccaggio delle merci nel magazzino di Pontelagoscuro. Visto che la giovane donna la seguiva Maturina continuò.

«Quello che interessa a te è il secondo piano. Attraverso queste scale vi si accede direttamente. Non si può accedere a questo piano né dal piano terra e né dal primo piano. L’altro che ti mostro adesso è accessibile  dallo stallaggio: la nostra clientela selezionata, scende dalla carrozza, imbocca le scale segrete e arriva qui, da questa porticina qui, vedi? Adesso è chiusa a chiave.  Per accedere a questo piano occorre possedere due chiavi: una per la porta che sta nelle stalle di rimessa, ove gli ospiti privilegiati possono alloggiare i loro cocchi e i loro cavalli. E l’altra è per questa porta qui.  Questo si chiama il piando degli scudi: d’oro o anche d’argento, non ha importanza; vanno bene tutti, veh?  anche i ducati, veneziani, milanesi o toscani, purché d’oro e di argento».

Nel dirlo, alla matrona brillavano gli occhi. Lei aveva un debole per l’oro e l’argento.

«E io?», chiese Giuditta interessata.

«Tu dovrai gestire le ragazze del piano. Per i clienti e le tariffe non ti preoccupare; a tutto penserò io; tu devi verificare pulizia e portamento delle stanze e delle ragazze e che tutto si svolga con regolarità. Noi lavoreremo fianco a fianco e io ti darò il dieci per cento netto dei compensi del piano e in più potrai ricevere chi vuoi, ai prezzi che decidi tu, nella stanza a te riservata; e quegli incassi saranno tutti tuoi: te li incassi tu e te li tieni tu. Che ne pensi, ragazza bella?»

«Penso che va bene»

«Bene. Adesso torniamo di sopra. Dopo pranzo ti presenterò le ragazze del piano e potrai cominciare da subito. Per un po’ di giorni ti seguirò da vicino ma quando avrai preso in mano la situazione potrai fare da sola. Così io potrò interessarmi del tanto altro che c’è da fare per mantenere la maison in piena efficienza. Siamo d’accordo?»

«D’accordo», rispose Giuditta. Una stretta di mano e un intenso sguardo d’intesa suggellò il loro patto.

 

 

La casa di tolleranza della Sconcia era ospitata nel Borgo di San Giorgio, in un Palazzotto di 3 piani fuori terra.

Al piano terra, di fronte all’ingresso, c’era una postazione che fungeva da biglietteria, ove si concordava la prestazione, il cui prezzo variava secondo il tempo che si intendeva trascorrere con la ragazza prescelta (anche se in effetti il tempo era in funzione delle prestazioni richieste e non viceversa).

L’attività si svolgeva ai due piani superiori, separati tra loro nella gestione e nei servizi. Il prezzo dei servizi, che partiva da un minimo di quattro baiocchi, includeva, obbligatoriamente, un tocco di sapone veneziano (che in realtà era prodotto a Rovigo, ma i blocchi da 50 libbre portavano la scritta “Sapone di Venezia”; oggi si direbbe un marchio registrato, o qualcosa del genere) e una pezza di lino grezzo. Il primo veniva ceduto in proprietà, o a perdere, come si diceva, mentre la seconda andava lasciata per terra dopo il suo utilizzo. Anche se in realtà tutto questo valeva soltanto per il primo piano. Al secondo piano era tutto diverso e si agiva per una clientela selezionata che non aveva certo bisogno di portarsi via un pezzo di sapone grezzo.

La casa, che portava l’insegna “Ai Bagni della Sconcia”, prendeva il nome da questo servizio, e persino dopo la Devoluzione, il membro del consiglio dei Savi addetto all’Igiene Pubblica e alle Acque, aveva preteso che l’insegna riportasse la scritta e come tale veniva tollerata dal nuovo potere pontificio che comunque ne enfatizzava la visione negativa delle operatrici (chiamate evangelicamente “maddalene”) in chiave di esaltazione della funzione redentrice della Chiesa.

A onor del vero occorre però riconoscere che i prelati che vi si recavano (e presto ne conosceremo uno assai importante) non si limitavano a predicare sermoni di evangelico riscatto.

Ma era al secondo piano che si svolgeva l’attività più importante e lucrosa.

Al secondo piano, detto degli Scudi, sia gli avventori, sia le operatrici erano alquanto selezionati.

Non vi era un vero e proprio tariffario e non si accedeva neppure dall’interno (la scala interna che conduceva al secondo piano infatti, non  era accessibile dal primo piano ed era anzi celata da una porta chiusa che ne impediva la vista e l’accesso).

La Matrona (la stessa che abbiamo incontrato ai magazzini di Pontelagoscuro il giorno in cui conobbe Giuditta, restandone così impressionata da proporle di lavorare, più con lei che per lei, come vedremo più avanti) era la vera anima organizzatrice della casa.

Il suo nome vero era Maturina (come si erano chiamate la mamma e la nonna) ed era venuta da Bologna a Ferrara,  dopo aver esercitato la professione più antica del mondo nella città della prima università europea  (e ancor prima a Firenze),  con un bel gruzzoletto di sonanti scudi d’oro che aveva saputo investire nell’attività della Sconcia che abbiamo appena descritto.

I ferraresi, col tempo, vedendola ingrassare, un po’ per alterazione della pronuncia del loro idioma (che tendeva a mangiarsi le sillabe atoniche), un po’ per evidenziare l’aumento volumetrico della sua figura, presero a chiamarla la Matrona (e non mancava chi aveva poi simpaticamente francesizzato il nome, ribattezzandola in Madame la Maitresse).

Fu in quel secondo piano della Sconcia che Giuditta portò a compimento, affinandole con l’assiduità della pratica, quelle sensazioni che appena sedicenne, sin dalla prima volta in cui suo zio le aveva frugato tra le vesti con le mani bramose e tremanti, aveva avvertito come una forma istintiva di dominio della femmina sul maschio.

Quelle sensazioni, inizialmente emotive e confuse, si erano andate cogli anni chiarendosi e rafforzandosi, sino a diventare una ferrea sicurezza sulle sue capacità di ammansire e incanalare quelle tensioni, quei tumulti, quelle tempeste dell’anima che certe donne sanno suscitare sugli uomini e che comunemente si chiamano passioni.

E fu lì che Giuditta conobbe Pietro Marino De Regis e lì  imparò ad amarlo, riconoscendo la sua sensibile fragilità, ammirando la sua intelligenza e sviluppando per lui un’ammirazione protettiva di cui avvertì tutta la prorompente carica affettiva quando un altro dei suoi clienti, don Agostino  Barozzi, presidente del locale tribunale dell’Inquisizione,  frequentatore abituale  della casa del vice legato pontificio Pasini Frassoni, le confidò in quell’alcova segreta posta al secondo piano, che l’inviato segreto del re di Spagna (come lui chiamava l’hidalgo don Pedro Domingo Mendoza Martinez) aveva in mente di arrestare l’eretico De Regis, quel terzo lunedì del mese, in casa sua, in vicolo Vrespino, dove si sarebbe riunita tutta la compagnia farneticante di artisti e scrittori, a leggere i libri di poeti e scienziati indemoniati, gozzovigliando e fornicando, a sentir lui,  come in un bordello.

 

9.20.2025

Memorie di scuola

 

 

 



2.
Seconda Ragioneria
Anno scolastico 1969-1970

Dall’autunno caldo del 1969 alla strage di Piazza Fontana (Dic. 69)

Nel viaggio di ritorno mio padre mi informò che aveva comprato un appartamento e un locale commerciale nel centro di Cagliari (a cinque minuti dalla Stazione Centrale, tenne a precisare). Nel primo ci saremmo trasferiti io, mia mamma e tutti i fratelli più piccoli. Nel secondo avrebbe aperto una gioielleria in società con i tre figli maggiori, attuali coadiuvanti nell’azienda di famiglia.

Il mio buon vecchio si aspettava che anche io avrei aderito alla società in qualità di contabile, una volta diplomatomi; contava inoltre che io affiancassi mia mamma nella cura dei fratelli più piccoli, per quando riguarda il buon esempio, lo studio e la frequenza a scuola, la buona educazione in casa. Mia madre non parlò, limitandosi ad assentire; e quando mia madre non parlava (ciò che accadeva raramente, in quanto i contrasti dialettici con mio padre erano frequenti;) voleva dire che condivideva tutto ciò che mio padre aveva detto.

Ma i progetti ambiziosi di mio padre erano destinati ad infrangersi, come poi si sarebbero infranti, sugli scogli delle incomprensioni con il mio fratello maggiore e suo primogenito Pietro Marino che noi tutti chiamavamo Marino e mio padre, spesso, semplicemente Rino.

Era questo mio fratello maggiore un ragazzo dal cuore d’oro, tanto intelligente quanto capace nel lavoro di orologiaio e di commerciante. Avrebbe voluto studiare ma mio padre lo ritirò da scuola alla fine del primo ciclo di studi (prima del 1962 si poteva fare perché, sino a quell’anno, quando entrò in vigore la legge che unificava la scuola media obbligatoria per tutti sino ai quattordici anni, la scuola dell’obbligo finiva a dieci anni e si poteva comunque sostituire con l’apprendistato in una delle professioni artigianali assai diffuse, al tempo, più di oggi).

Il povero Marino si ritrovò così, all’età di dieci anni, alla dura scuola di mio padre. E che fosse dura la scuola nella sua bottega di orologiaio non c’è dubbio.

Basti sapere che le parole e persino i respiri andavano dosati nella giusta misura, così come i colpi con gli speciali martelletti da orologiaio con cui talvolta occorreva coadiuvare mio padre, per spunzonare o ribadire una parte meccanica o un pezzo dei complessi congegni di misurazione del tempo nella cui riparazione mio padre era riconosciuto, in tutta la provincia di Cagliari e anche oltre, come un vero maestro.

Tra i miei fratelli orologiai Marino fu l’unico che poté dire di avere acquisito l’arte orologiaia paterna in pieno.

Era l’unico che sapesse infatti riparare i pendoli e costruire con le sue mani un pezzo di ricambio; anche se questa manualità eccelsa non fu più necessaria dopo la guerra, quando i mercati si aprirono e il boom economico consentì all’Italia di importare dalla Svizzera (allora primo e unico produttore mondiale nel settore), in grande quantità, ogni tipologia di ricambio di orologi e sveglie.

Ma il suo carattere volitivo, ricco di ingegno e d’orgoglio, assai simile a quello di mio padre, li trovò inevitabilmente su fronti opposti.

Inoltre mio fratello Marino non perdonò mai mio padre per avergli impedito di studiare come egli avrebbe voluto.

Io sono certo che Marino si sarebbe laureato con grande facilità, se soltanto ne avesse avuto l’opportunità. A discolpa di mio padre debbo però dire che allevare dieci figli (tanti eravamo in famiglia, essendo uno dei miei fratelli morto in tenera età) sarebbe stato duro, forse impossibile, senza l’aiuto del primogenito. E in casa non siamo stati mai abbastanza riconoscenti nei confronti di quel fratello più grande così generoso e sfortunato (sul piano degli affetti), al quale io ero particolarmente affezionato, da lui ricambiato.

E quando la fortuna gli arrise negli affari, io diventai il suo legale di fiducia, conducendo per lui e con lui delle battaglie giudiziarie sempre coronate da successo (pur se lui, con la sua consueta generosità, mi chiese sempre di non infierire sugli avversari vinti, costruendo per loro dei veri ponti d’oro, per alleviare l’amarezza che lui conosceva assai bene).

Ho il rimpianto e mi commuovo ogni volta che penso a lui perché se n’è andato troppo presto e gli sono riconoscente per il bene che mi ha voluto (e che lui mi permise di dargli sin da ragazzo, quando mi portava con lui dappertutto e ovunque andasse; fosse allo stadio a vedere il suo Milan; al Poetto coi suoi amici; a ballare in provincia a caccia di donne che, insieme ai motori, erano la sua passione).

E quando, poco più che ventunenne se ne andò di casa, aprendo una gioielleria tutta per sé io, nei mesi estivi, andavo a fargli compagnia, più per dargli un aiuto psicologico che un aiuto pratico.

Nell’autunno del 1969, alla ripresa dell’anno scolastico 1969-1970, che mi vedeva approdare alla seconda classe, forte di una promozione a giugno, con encomio personale da parte del Preside prof. Antonio Mattu, gli scioperi ripresero più chiassosi e virulenti che mai.

Io stavo ancora a guardare e preferivo entrare a scuola per i motivi che ho già spiegato.

C’erano gli studenti di quarta e di quinta che organizzavano gli scioperi e i cortei. All’ingresso i picchetti avevano lasciato il posto al semplice volantinaggio. Chi voleva poteva entrare.

Ma anche a quelli che entravano per fare lezione venivano consegnati dei volantini in ciclostile.

Come avrei scoperto più avanti (quando mi toccò di sostituire gli organizzatori già licenziati) il ciclostile era una macchina che all’apparenza, può essere assimilata alle attuali macchine fotocopiatrici (che allora non esistevano; o magari erano troppo costose per gli studenti). Il ciclostile consisteva in pratica in un motore a rullo, azionato da una manovella. Tu preparavi un dattiloscritto (foglio battuto alla macchina da scrivere, per intenderci con quelli troppo giovani per capire al volo, con l’aggiunta di qualche slogan in caratteri manoscritti con il pennarello) con i tuoi
proclami; poi lo posizionavi sul rullo del ciclostile che, imbevuto di inchiostro, ne riproduceva i caratteri, trasmettendoli ai fogli che in sequenza circolare venivano spinti e pressati sul rullo tramite l’azione di una manovella. Potevi così stampare, in poco meno di un’ora, migliaia di volantini, che venivano distribuiti, come già detto, all’ingresso degli istituti superiori della città capoluogo.

Il contenuto di questi volantini (che dovevano portare obbligatoriamente la dicitura “ciclostilati in proprio” per evitare rogne con la censura e con la legge sulla stampa) inneggiava regolarmente all’unione degli studenti medi e universitari con le forze operaie, contro la borghesia italiana e il capitalismo internazionale; poi dovevano contenere gli appuntamenti del giorno, con i diversi cortei che si concludevano, attraverso degli snodi fondamentali nei diversi istituti superiori cittadini (Siotto, Pacinotti, Leonardo, Liceo Artistico, ecc.), o davanti alla sede della Provincia (responsabile della inadeguatezza dell’edilizia scolastica) oppure davanti al Provveditorato agli Studi (che allora si trovava ancora in via San Saturnino) oppure alla Facoltà di Lettere (tutti i salmi, in effetti, finiscono in gloria).

Infatti lì, in Piazza d’Armi, c’era il centro nevralgico degli intellettuali di sinistra, la famosa macchina per ciclostilare i volantini e la sede della Casa dello Studente (con annessa la Mensa).

A scuola, all’inizio di ottobre, ritrovai lo stesso ambiente che ricordavo dall’anno precedente: gli assembramenti al cancello di ingresso, che spesso non si scioglievano, perché in molti aderivano agli scioperi estemporanei proclamati in loco, oppure già programmati a più alti livelli il giorno prima; la compravendita di libri usati, la consegna dei ciclostili all’ingresso.

In quel secondo anno la classe era in parte cambiata nella sua composizione. Anche allora infatti, in Sardegna, la forte dispersione scolastica faceva sì che di una classe prima, ne arrivassero in seconda appena la metà; e di una seconda ne arrivassero in terza altrettanti, se non addirittura meno (in terza, poi, avveniva una falcidia per altri motivi, come illustrerò più avanti).

Non mancavano certo le ragazze carine che mi piacevano e alle quali, però, io non avrei mai trovato il coraggio di dichiararmi; un po’ per la mia innata timidezza; un po’ per quei miei complessi di cui ho già parlato; inoltre vedevo la donna ancora avvolta in un’aurea mistica, che ai miei occhi la innalzava sopra le cose terrene.

Non mi accorgevo che invece i tempi andavano in senso contrario; le donne stesse, per prime, volevano scendere da quel piedistallo e calarsi in una dimensione terrena e materiale dove potessero comportarsi come gli uomini, sia nel mondo della scuola, sia in quello del lavoro; e sia, soprattutto, nelle relazioni sociali ed affettive.

I professori erano, più o meno, gli stessi dell’anno precedente.

Ed anch’io, come l’anno scorso, avevo un grande desiderio di farmi strada nella scuola, senza sentirmi dire che venivo a scuola per scaldare il banco (come gli insegnanti dicevano ai più indolenti tra noi) e di guadagnarmi la fiducia e la stima dei miei genitori.

Il 19 novembre gli uomini tornarono sulla Luna (con l’Apollo 12). Questo secondo allunaggio fece assai poco clamore rispetto al primo, avvenuto nel luglio dello stesso anno e seguito in TV praticamente da tutto il mondo. Anche a me l’impresa aveva entusiasmato e sognavo già che l’uomo, nel giro di pochi decenni, potesse conquistare il Cosmo intero.

A Milano, il dodici dicembre, mentre quel 1969 volgeva quasi al termine, scoppiò una bomba che fece diciassette morti e molte decine di feriti.

Non era il primo fatto di sangue, né la prima bomba che scoppiava in Italia, ma quella fece più clamore delle altre precedenti: primo perché scoppiò dentro una banca, in un giorno in cui vi si svolgevano delle contrattazioni; secondo perché la polizia, forse spinta da una campagna di stampa fuorviante, arrestò quelli che da subito erano stati indicati come i colpevoli: gli anarchici di Milano.

In particolare ricordo bene due episodi legati a questo terribile fatto di sangue che sicuramente ha cambiato in peggio le sorti e la storia della nostra Italia: il primo è che venne arrestato subito un certo Pietro Valpreda che solo dopo lunghissimi anni di persecuzioni giudiziarie e giornalistiche, venne pienamente scagionato; ma già pochi giorni dopo la polizia lo aveva messo in carcere; agli occhi dell’opinione pubblica la sua colpa era quella di essere un ballerino, separato ed anarchico (mio padre ne approfittò per enunciare che tutti i ballerini maschi, o presunti tali, i separati e gli anarchici dovevano finire prima alla gogna e poi in carcere a vita); il secondo episodio collegato alla strage di Piazza Fontana che io ricordo assai bene fu la morte di Pinelli, caduto dal quarto piano della Questura di Milano durante un interrogatorio.

Negli ambienti della controinformazione cominciarono a circolare certe voci che, attraverso i ciclostili, i volantini, la stampa alternativa ed il passa parola, arrivarono anche sino a noi studenti delle prime classi, alquanto disinteressati alle questioni politiche.

Le voci dicevano che Pietro Valpreda era un capro espiatorio degli apparati dello Stato che, invece, avevano armato la destra estremista, cioè i fascisti (a quel tempo vi erano infatti due ali estreme allo schieramento politico presente in Parlamento: i gruppi dell’estrema sinistra e quelli dell’estrema destra che, nelle piazze e nelle strade, se le davano di santa ragione; i primi agivano sotto svariate etichette che si chiamavano “Lotta Continua”, “Potere Operaio”; “Servire il popolo”; “Maoisti-leninisti” e altre che non ricordo; dei secondi ricordo “Ordine Nero” e “Prima Linea”); dicevano anche che Pinelli non era scivolato dalla finestra, né tantomeno egli si era gettato di sotto, in preda al pentimento e alla paura per avere messo le
bombe, ma che erano stati i poliziotti che lo interrogavano, minacciandolo di buttarlo di sotto se non avesse confessato, a farselo sfuggire di mano, causandone così la morte. Un nome comparve come colpevole di questo orrendo delitto nei ciclostili e nei volantini della controinformazione: il commissario Calabresi.

Tra i mandanti della strage vennero indicati i nomi di Andreotti (forse all’epoca ministro dell’Interno e addirittura Premier) e quelli dei capi dei servizi segreti civili dello Stato (i famigerati DIGOS e SISDE).

La stagione dei veleni e delle stragi cominciò in quel disgraziato 12 dicembre 1969.

Anche se io all’epoca non avevo per niente le idee chiare su quanto era accaduto e su chi avesse ragione tra la destra, la sinistra e il centro democristiano.

In Medio oriente Golda Meir e Arafat si fronteggiavano superbamente; Dubceck veniva dimissionato in Cecoslavacchia dalle mire anti-imperialistiche dell’Unione Sovietica.
Fanfani, con l’appoggio della gerarchia vaticana, organizzava la campagna suicida dei democristiani contro il referendum promosso dai radicali per l’introduzione del divorzio in Italia.

Battisti cantava “Fiori rosa, fiori di pesco”; Lucio Dalla “Occhi di ragazza”; Domenico Modugno “La lontananza”.

Il Cagliari, grazie alle reti strepitose del grande Gigi Riva, vinceva il suo primo e unico scudetto.

9.14.2025

Il Manuale del perfetto orologiaio

 



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Capitolo Sesto

Don Pedro Domingo Mendoza Martinez era un vero e proprio hidalgo, intransigente e irreprensibile. Discendente dei Conquistadores  che nel secolo precedente avevano assicurato alla fede cattolica la parte centrale  e buona parte di quella meridionale del continente americano, nutriva la stessa cieca convinzione sulla infallibilità della dottrina e della fede cattolica, che aveva spinto  i suoi antenati alla conquista di nuove terre oltreoceano,  anche se, per uno strano gioco del destino, o forse perché la sete di oro del suo casato era stata già appagata, al contrario dei suoi illustri e avventurosi ascendenti, egli non nascondeva altri retro pensieri, dietro al suo fanatismo religioso, all’infuori della sua patria e del suo re.

Odiava tanto i mestizos  ed i conversos,  quanto i riformisti e gli eretici di ogni sorta. Per contro  amava il suo sovrano e i principii della fede cattolica. Ed era disposto a dare la sua vita pur di difendere la purezza della religione contro chiunque ne avesse messo in discussione l’assoluta preminenza. Per questo aveva accettato di entrare al servizio della Congregazione in difesa della Fede Cattolica. Ed era stato immesso direttamente dal re di Spagna nei ranghi dell’Inquisizione.

Nei primi anni, ancora giovanissimo, era stato istruito sulle tecniche investigative e su quelle dell’interrogatorio, che spesso sfociavano nella tortura, ogniqualvolta l’inquisito si rifiutava di confessare le sue eresie e di pentirsi, promettendo di seguire ciecamente gli insegnamenti di Madre Chiesa.

Poi, col tempo, era stato utilizzato come agente operativo, nei territori dell’immenso impero ispanico, coperto dall’immunità diplomatica ma ancora inquadrato nei ranghi della temibile e potente inquisizione spagnola.

Tenoch Tixtlancruz era il nome cristianizzato dell’impronunciabile appellativo patronimico di un discendente diretto di un guerriero Azteco,  sbarcato  con Colombo a Cadice,  al termine del suo secondo viaggio nelle Indie (o quelle che lui credeva tali ma che poi si rivelarono essere le Americhe).

Attraverso vari incroci con la stirpe iberica, ne era venuto fuori un gigante alto quasi due metri, con il naso schiacciato, le labbra prominenti e una testa enorme che i capelli corvini, tagliati corti, rendevano ancora più grande. Agli orecchi portava due orecchini di foggia azteca e gli occhi grossi e neri cerchiati di sangue suscitavano terrore solo al vederli. Don Pedro lo chiamava semplicemente Tenoch ed era praticamente il suo braccio armato. Era lui che provvedeva, invero assai volentieri, agli esercizi della tortura cui erano sottoposti gli eretici prima di confessare o di morire colpevoli e dannati (la non confessione non era contemplata nel dizionario del truce torturatore).  Seppure orami convertito al cattolicesimo, aveva conservato della sua stirpe originaria, e della classe dei guerrieri a cui suo bisnonno si vantò sino alla morte di essere appartenuto, l’animo truculento, lo spirito di abnegazione e di sacrificio per il suo credo, una forza erculea e una fiducia incrollabile nel potere costituito, di natura civile o religioso che esso fosse.

Nella sua mente, il racconto della Creazione del libro della Genesi con cui era iniziata la sua educazione cattolica, sostituiva in maniera impeccabile e perfetta, le avite credenze sulla potenza del sole e delle stelle. Si convinse da subito che quel Dio Onnipotente e Sempiterno era lo stesso Sole che avevano adorato i suoi avi o, quantomeno, un parente assai prossimo, se non proprio il padre, il Creatore, per l’appunto.

Portava con sé, ovunque andasse, un baule di legno dentro il quale custodiva le sue pinze strappa seni (che non disdegnava di utilizzare anche per schiacciare i testicoli dei prigionieri più riottosi), un imbuto di metallo, un otre della capacità di tre litri (con cui somministrava agli eretici l’acqua in dosi, sino al numero di sei) e una serie di funi e carrucole per lo stiramento delle ossa dei poveri malcapitati nella stanza delle torture dell’Inquisizione.

Completava il terzetto ispanico, come già detto, Padre Alonso Ramirez de Barranquilla, un gesuita che aveva in comune con i due compagni di viaggio soltanto la fede nello stesso Dio (anche se a volte lui stesso dubitava che si trattasse davvero del medesimo Dio). Anzi, forse la sua presenza nel trio si giustificava proprio per la sua diversità che, in qualche misura, fungeva da calmiere della passionale intemperanza dei suoi compagni di viaggio.

In effetti lui era con loro per consolare e per confessare i prigionieri; e per convincerli che sarebbe stato inutile resistere e che era meglio pentirsi e riconciliarsi con Dio.

Davanti ad una confessione piena e incondizionata le torture non avevano più senso di esistere e dovevano cessare immediatamente. E lui, con la sua autorevolezza, otteneva che cessassero.

Di fronte al pentimento e al ravvedimento il prigioniero non era più un reietto da punire, una carne da macellare, una potenza demoniaca da dissolvere nei tormenti dell’espiazione; al contrario, il torturato si tramutava, per grazia evangelica, in un figliol prodigo, tornato alla casa del padre a capo chino, desideroso solo di essere riaccolto e perdonato.

E se l’atto di riconciliazione, sancito dall’assoluzione che Padre Ramirez non disdegnava di elargire con ampi gesti della mano e con la formula solenne in latino e che il Servo di Gesù comunicava raggiante ai due torturatori, non esonerava il povero disgraziato dalla punizione umana, il perdono divino, pur tuttavia, lo riabilitava nella sua dignità umana, riscattandolo da quei recessi di ignominia e degrado in cui era precipitato con il peccato, restituendolo al consorzio cristiano, ridandogli lo status di figlio di Dio e come tale,  inviolabile nella sua sacralità filiale.

Ed ogni volta che questo accadeva (praticamente sempre, o quasi sempre) il buon gesuita sentiva che le sue sofferenze, il suo disagio, la ripugnanza stessa che quelle torture e quei torturatori procuravano alla sua anima sensibile e pia, trovava un’equa compensazione nel riscatto di quell’anima recuperata alla salvezza eterna.

E poco importava, a quel punto, se gli infelici malcapitati fossero stati, all’origine, innocenti o colpevoli.

 

 

 

 

 

In viaggio come un Pellegrino

  In questo ponte della Festa di tutti i Santi mi sono recato in pellegrinaggio a Roma con l'UNITALSI. L'itinerario prevedeva la vis...