A.S. 1969-1970 (seconda
parte)
Dalla strage di Piazza
Fontana ai Mondiali di calcio di Messico
‘70
Ci sono degli avvenimenti, nella storia dell’uomo, che pur
apparendo alquanto scollegati, hanno
invece un rapporto di causa a effetto niente affatto trascurabile.
Si potrebbe anche affermare, non di meno, che quegli stessi avvenimenti si sarebbero
comunque verificati, indipendentemente e
a prescindere, dagli altri.
E forse questa seconda affermazione ha più probabilità di essere
vera rispetto alla prima.
Quello di cui sono certo è
che la storia dell’uomo non è altro che una incessante lotta per la
supremazia del potere. A tal proposito qualcuno più ferrato di me ha scritto
che la lotta viene condotta dagli uomini per il possesso dei mezzi di
produzione; ma non sono sicuro di non essere vittima di un retaggio del
materialismo storico studiato in gioventù, anche se nei decenni successivi ho
preferito aderire alla dottrina sociale cattolica.
Queste riflessioni mi sono venute alla mente mentre rielaboravo i
miei appunti sul 1970.
All’inizio di quell’anno io frequentavo la seconda ragioneria
all’Istituto Commerciale Leonardo di Vinci di Cagliari.
Naturalmente non avevo ancora iniziato lo studio dell’economia
politica ma a maggio di quell’anno entrò in vigore in Italia lo Statuto dei lavoratori che
io ebbi modo di studiare e approfondire
più avanti nei miei anni universitari e nella mia professione di avvocato.
Fu questa legge il frutto di tante lotte, iniziate nei decenni
precedenti dai sindacati dei lavoratori più rappresentativi della grande
industria italiana.
Fu un bel successo per tutti i lavoratori; un riscatto tanto
agognato quanto meritato per i soprusi subiti da dipendenti che sudavano
onestamente per guadagnarsi da vivere; ma allo stesso tempo fu un duro colpo
per quei datori di lavoro (chiamati dispregiativamente “padroni” dalla classe
avversa) che, lontani da ogni desiderio di sfruttamento nei confronti dei
propri dipendenti, amavano condividere con loro le gioie e i dolori del lavoro
in azienda (penso, ad esempio, a un Adriano Olivetti; ma anche a quei numerosi
artigiani che vivono la quotidianità del duro lavoro e, pur di non privare i
loro operari del giusto salario a fine mese, erano capaci di investire
tutto il ricavato dell’impresa,
caricarsi di debiti con le banche e, in certi mesi, rinunciare perfino a
qualsiasi emolumento).
L’amara verità alla quale sono pervenuto dopo decenni di studio e,
soprattutto di vita vissuta e di riflessioni, è che le leggi non sono altro che
dei tentativi di dare un assetto equilibrato alla società e ai rapporti umani
che vi si svolgono; in tale ottica le
leggi sono un male necessario per regolare le attività umane, proprio a causa dell’animo egoista che
alberga dentro ciascuno di noi (in misura più o meno grande); nel suo estremo
egoismo l’uomo vive di squilibri e tende alla sopraffazione e all’intolleranza,
nella convinzione di possedere, in esclusiva sugli altri, il bandolo della
giustizia, la matassa della ragione e la stessa verità.
Ed è per questo che gli esperimenti di ogni società comunitaria e
paritaria sono miseramente falliti e
sempre falliranno; così come è fallito e fallirà sempre ogni utopistico sogno
di anarchia, di autogestione e di gestione collettiva di beni comuni.
Ovviamente le leggi, tutte
le leggi, sono il risultato di quei
rapporti di forza di cui parlavo dianzi. Ed essendo un prodotto storico ed umano, come tale è soggetto ad imprecisioni e
presenta inevitabilmente dei coni d’ombra in cui si celano e si perpetrano gli
abusi.
Lo Statuto dei lavoratori del 1970 rappresentava tutto ciò: un
argine per i datori di lavoro arroganti e protervi, fautori di imprese
padronali, considerate le nuove miniere, i nuovi feudi dell’industrializzazione
rampante del boom economico, le ferriere mai chiuse e mai morte nelle teste
degli eterni ricchi e dei pidocchiosi arricchiti (o dei nuovi ricchi se si
preferisce); ma anche uno strumento di
abuso in mano a qualche operaio
scansafatiche, a certi sindacalisti accecati dal marxismo velleitario e
idealista (e forse anche utopistico). In fondo, però, una buona legge, che
reprimeva più torti di quante ragioni si trovasse a sacrificare. E poi, una
legge dalla parte dei deboli, è sempre una buona legge. Peccato che dei giovani
politici, tanto inesperti quanto rampanti l’abbiano stravolta con modifiche
peggiorative in danno dei più deboli.
Ma la lotta per il potere non si ferma mai: “boia chi molla”
scrisse qualcuno sui muri d’Italia in quegli anni settanta.
Potevano gli industriali italiani mollare così facilmente,
soltanto per una legge che aveva visto vittoriosa (per una volta) la classe
avversa?
La FIAT (Fabbrica Italiana Automobili Torino, oggi FCA, Fiat
Crysler Automobiles) fu la prima grande industria che prese le contromisure.
Lo Statuto dei lavoratori tutela maggiormente i lavoratori con più
di 50 dipendenti? Smembriamo la nostra
impresa e suddividiamo l’attività produttiva, decentrandola in innumerevoli aziende con dieci, venti,
trenta, massimo quaranta dipendenti!
Questa fu la risposta della FIAT nell’immediato (nel breve periodo, si usa dire in economia).
Ma la risposta nel medio e nel lungo periodo di tutto il mondo padronale,
ai massimi livelli occupativi fu collegiale e micidiale. E il mondo
occidentale, le famiglie e i lavoratori
stanno ancora piangendo per quelle tremende contromisure!
Quale fu, dunque, l’effetto che causò quella legge così protettiva
e garantista in favore dei lavoratori?
Semplice e terribile come
l’aria che respiriamo.
Lo Statuto dei lavoratori
tutela e garantisce i lavoratori proteggendoli dall’imprenditore e obbligando
l’impresa a comportamenti limitativi del profitto?
Allora aboliamo semplicemente i lavoratori!!!
Così nacquero i primi assemblaggi meccanici, i motori interamente
robotizzati, le macchine che sostituiscono l’uomo!
Con buona pace dei sindacati dei lavoratori e di chi era convinto
che il robot fosse stato inventato per aiutare l’uomo a vivere meglio!
E anche di chi pensa che gli accadimenti storici e umani siano
tutti slegati tra loro, oppure casuali e occasionali.
A fine maggio, quando iniziarono i campionati del mondo, il
verdetto del mio anno scolastico era già ufficiosamente acquisito. A giugno
arrivò la conferma ufficiale: venni
promosso alla classe terza senza materie a settembre. Anche quell’anno il preside
mi fece avere un regalo: una Garzantina in due volumi che ancora conservo
gelosamente tra i miei libri.
Così potei godermi il campionato del mondo alla TV (ancora
rigorosamente in bianco e nero).
In estate tornammo tutti in paese e la famiglia si ricompose. Fu
bello ritrovare i miei fratelli e i miei
amici. E fu ancora più bello riavere la famiglia tutta unita sotto lo stesso
tetto e ritrovarci tutti attorno allo
stesso tavolo per consumare i nostri pasti chiassosi, allegri e spensierati.
Durante il campionato del mondo di calcio l’Italia si divise in
due partiti: quello favorevole a Rivera e quello favorevole a Mazzola. E nei bar ci sentivamo tutti dei Valcareggi; il
CT della Nazionale, per non scontentare nessuno, inventò la staffetta tra
Rivera e Mazzola; un tempo di 45 minuti all’uno e un tempo all’altro.
Tutti ci stupimmo e ammirammo i nostri eroi nella semifinale con
la Germania.
Il grande Gigi Riva (orgogliosamente sardo di adozione) che due
anni prima ci aveva regalato la vittoria agli Europei di calcio, grazie alle
sue sfolgoranti reti, non riuscì però a
regalarci la coppa Rimet. La vinse il Brasile.
Io andai a ballare, quella domenica.
La domenica era d’obbligo andare a ballare, in cerca di donne. Ma
il massimo, per noi ragazzi di allora, senza soldi, senza macchina e senza
casa, era fare un poco di flanella sulla
pista da ballo, mentre il complessino di turno (le discoteche come le
conosciamo oggi sarebbero arrivate solo qualche anno dopo) intonava “Child in
time” dei Deep Purple oppure “A wither shade of a pale” nella versione italiana
dei Dik-Dick (si tratta della mitica “Senza luce”, un lento da sballo).
Rientrando dal ballo, mi bastò affacciarmi nel bar e vedere i musi
lunghi e le voci deluse degli avventori per capire che la coppa Rimet sarebbe
rimasta per sempre nell’altro emisfero.
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