sabato 12 ottobre 2024

Il sequestro De André

 


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Capitolo Primo

 

 

Non c’è niente peggio del vivere in un mondo complicato, senza avere gli strumenti necessari alla comprensione dei meccanismi che ne regolano il funzionamento.

In altri termini ciascuno di noi, esseri pensanti, almeno una volta nella vita, ha cercato di capire perché il mondo sia fatto in un certo modo e per quale motivo le cose vadano in una maniera, anziché in un’altra. E soprattutto se sia possibile imprimere alla propria vita la direzione voluta.

Penso che questa sia un’esigenza comprensibile e perfino legittima. A meno che non si voglia credere che il mondo sia davvero così come appare e che dietro le apparenze non si celino invece altre realtà.

Dario Reboc era giunto a quell’età in cui, non essendo più ragazzi, tuttavia non ci si sente ancora uomini.

Suo padre, un precario ante-litteram, quando non era imbarcato in qualche peschereccio, passava il suo tempo in osteria, a bere vino, giocare a carte e maledire il governo dei democristiani, dato che lui era comunista e anticlericale per vocazione. Sua madre, di origini sarde, era morta troppo presto per potersi occupare di lui nella sua età più critica, quella dell’adolescenza.

Quella solitudine improvvisa e non voluta lo aveva spinto ancora di più a passare la maggior parte del suo tempo in strada, tanto più che suo padre, dopo la morte di sua madre, si rimorchiava in casa, di quando in quando, qualcuna delle tante puttane conosciute al porto, che inutilmente avevano tentato di occupare stabilmente quell’incolmabile vuoto nel cuore dell’uomo.

L’unica eredità che gli aveva lasciato sua madre era culturale. La promessa di frequentare il liceo classico, attraverso il quale la povera donna sperava che il figlio potesse elevarsi socialmente verso quelle cime che lei non era riuscita mai a toccare. Il povero padre la promessa l’aveva mantenuta, ma lui quell’eredità l’aveva sciupata, buttandola nel mare tempestoso della protesta giovanile, per colpa della quale, l’anno in cui si sarebbe dovuto maturare, era stato espulso dal liceo “Cristoforo Colombo” per avere osato interrompere numerose lezioni al fine di convogliare le classi in assemblee straordinarie, non concesse dal preside, in cui discutere dei massimi sistemi e dell’imminente  rivoluzione che avrebbe spodestato i capitalisti dagli scranni del potere, con l’avvento della dittatura del proletariato.

E gli studi interrotti, ufficialmente, non erano mai stati ripresi.

Quando gli aveva comunicato di avere accettato la proposta della sua ragazza di andare a convivere, suo padre si accontentò di sapere dove sarebbe andato a vivere e chiese soltanto di conoscerla.  Nel salutarli, gli fece promettere che non si sarebbe dimenticato di lui, ricordando a entrambi che, oltre al ricordo della moglie, ormai gli rimaneva soltanto quell’ unico figlio.

In realtà Dario voleva spezzare le catene che lo legavano al posto dov’era nato e al percorso di vita al quale sembrava destinato e che sentiva di non avere scelto. Trovarsi un lavoro, sposarsi, fare dei figli e magari anche carriera. Anche se queste catene, alla fine dei conti, non era sicuro che esistessero davvero e che non fossero invece il frutto avvelenato della cultura della ribellione che si respirava ancora nella metà di quegli anni settanta del secolo ventesimo.

In treno, mentre ritornava a Genova, si sorprese a ripensare a Fabrizio. Chissà come e perché si era ritrovato a pensare a quel suo amico d’infanzia che non vedeva da anni. Forse, mentre dal finestrino osservava le ripide scogliere a picco sul mare, aveva sentito qualcuno canticchiare o fischiettare qualcuna delle sue canzoni, già popolari e conosciute. Oppure era stato quel paesaggio marino a richiamargli alla mente le strofe della sua canzone più nota, anche se a un certo punto gli venne il dubbio che, in realtà, il personaggio femminile della canzone fosse volata da un fiume sopra una stella e non da quel mare ispido e roccioso.

Sorrise mentre tornava con la mente agli anni spensierati trascorsi in sua compagnia. Dalla terrazza del palazzo dove lui abitava, si divertivano a innaffiare con lo sterco dei volatili le massaie che rientravano a casa, con le ceste della spesa sulla testa. Oppure si sfidavano a colpire con la loro fionda, rigorosamente auto confezionata con una forcella strappata ai rami di un robusto fico e con altri materiali di risulta, uomini e animali che si fossero trovati a tiro. Lui forse si sarebbe preso qualche rimbrotto se lo avessero beccato, mentre la madre di Fabrizio, con la sua innata eleganza, riusciva a conquistare uomini e donne che si fossero recati a casa sua a lamentarsi di quegli scherzi impertinenti. Fortunato anche in quello il suo amico. Per non parlare delle donne. Anche con un occhio strabico, tutte sembravano cadere ai suoi piedi, perché Fabrizio si faceva amare.

Erano cresciuti così, liberi, vagabondando per le strade che collegavano il quartiere elegante dove abitava Fabrizio, a quello del porto, dove lui era nato e cresciuto. A casa sua lo portava spesso e Dario aveva respirato in quell’appartamento signorile la ricchezza borghese che lo aveva portato a invidiare il suo amico. A dire il vero in maniera naturale e senza ostentazione, aveva mostrato subito la sua agiatezza. In tasca non gli mancavano mai i soldi. Le monete da bambino e le banconote da cinquecento e mille lire da ragazzino. Però ciò che aveva, bisognava riconoscerlo, l’aveva sempre diviso con gli amici. I soldi se li giocavano, prima a croce o griffo e poi alle carte. Quando perdeva s’incazzava da matti, ma i suoi soldi transitavano nelle tasche dei vincitori. Ma quando vinceva, non negava mai di spenderli per comprare a tutti un lingotto di cioccolato, un reganisso o un ghiacciolo, se si era in estate. E quando furono in età, perfino a comprare le prestazioni di qualche battona del porto, sempre disponibile a intrattenersi con quei ragazzi, vogliosi di andare alla scoperta dei piaceri dell’amore carnale. Sempre tra grasse risate e ricche soddisfazioni.

 Più tardi aveva cercato di introdurlo nel suo ambiente, ma aveva legato soltanto con lui. Con i suoi amici, no. Erano così distanti e scostanti. Solo Fabrizio, con la sua spontanea generosità era riuscito a colmare quella barriera che li aveva divisi dalla nascita, dato che appartenevano a due classi sociali che qualcuno, più che diverse, considerava perfino opposte. Ma i suoi amici, quelli no. Era come se avessero la puzza sotto il naso, dietro la loro apparenza amichevole e solidale. Tutti, tranne Luigi, ma presto lui se n’era andato. Forse ha ragione chi dice che sono sempre i migliori, i primi ad andarsene. Anche se la società li aveva divisi, la strada li aveva uniti. Poi si erano rincontrati, in un pomeriggio grigio di giugno, casualmente, all’imbocco della salita di Santa Brigida, una stradina che conduceva diritti alla città vecchia, il teatro delle loro memorabili e indimenticabili scorribande da bambini e delle prime avventure da ragazzi in cerca della vita, tra la gente vera del porto.

«Belin, Dario! Non credo ai miei occhi!»

«Bicio, sei proprio tu!»

«Belin, è una vita che non ci si vede!»

«Dieci anni di sicuro! Forse dai tempi del liceo; l’ultima volta ci siamo visti là, ricordi? Tu eri avanti a me di qualche anno, ma facevamo tutti un grande casino.»

«Dai! È verissimo. Che bei tempi! Tu quando ti sei maturato?»

«Mai maturato, in realtà; sono stato cacciato dalla scuola proprio l’ultimo anno, a causa degli scioperi» disse Dario in tono mesto. Quel ricordo gli bruciava. Lui aveva in pratica pagato per tutti. Ma soprattutto era la memoria di sua madre, che lo faceva stare male, per non essere riuscito a elevarsi, come lei avrebbe voluto.

«Ma io non ti ho mai perso di vista sai?» aggiunse Dario per cambiare discorso.

«Smettila dai!»

«Dico sul serio! Ho tutti i tuoi Ellepì! Sei arrivato a otto, giusto?»

«Il conto sembra giusto; belin, ne sai più di me! Dimmi di te piuttosto. Cosa stai facendo di bello?»

«Ultimamente sono stato a Manarola, con la mia ragazza, in una casa che ha ereditato dai genitori.»

«Eh bravo Dario! Avevi davvero un bel motivo per sparire dalla circolazione! Adesso che fai? Ti sei mollato con la tua bella?»

«No, sono venuto a vedere il mio vecio. Poi, con la mia ragazza abbiamo deciso di partire per Londra, ci imbarchiamo con la moto.»

«Bellissimo! Ma guarda che combinazione, belìn! Anche io sono qui per vedere i miei! Altrimenti non ci saremmo incontrati.»

«Ah, già, ho sentito che stai a Milano.»

«Macché! Con quel cesso di città ho chiuso da un pezzo. Ho comprato casa in Sardegna.»

«Ma va là! Io dovrei avere ancora dei parenti laggiù.»

«Belìn ma è vero che sei mezzo sardo per parte di madre! Un motivo in più per venire a trovarmi. Ho idea di trasferirmi lì in pianta stabile e ho tanto di quel posto che neanche ti immagini.»

«Beh, grazie. Quien sabe? Magari un domani.»

«Quando vuoi tu belìn! Ma parlami di te adesso.»

«Te l’ho detto. Adesso ho in programma un viaggio a Londra. Voglio tirare su un po’ di soldi con qualche lavoretto, prima di partire.»

«Belin, se ti accontenti, nella scuola di mio padre stanno cercando un bidello. Vuoi che gli parli di te?»

«Ma no, lascia stare; davvero, ti ringrazio ma non voglio! Andrò a picchettare, giù al porto; o a fare qualsiasi altra cosa».

«Come vuoi belìn, ma se non trovi niente e se non ti offendi, il posto di bidello nella scuola di mio padre è tuo.»

«Grazie Bicio, ma non voglio coinvolgerti nei miei casini e nei miei pasticci. Una cosa è picchettare il ferro di una nave, un’altra è inserirmi in un consorzio civile, come una scuola, senza fare casini. Lo sai che io sono un comunista rompicoglioni.»

«Ma guarda che il mio vecchio è un regolare. Saresti assicurato e assunto con contratto sindacale!»

«Non ne dubito, ma preferisco lavorare al porto.»

«Come vuoi; parlami ancora di te, dai; come mai hai scelto proprio Londra?»

«Per me è un posto che non ho visto ancora e poi lei ci tiene a visitarla!»

« Belin, ci saranno delle belle cose anche lì.»

«La mia mussa ne è convinta! E poi amiamo entrambi la musica rock. E tu, a proposito di poesia e musica, cosa stai facendo?»

«Sto leggendo molto, ancora prima di scrivere…»

«E cosa stai leggendo?»

«Un po’ di tutto, in realtà. Roba italiana, autori americani, mi immergo nei libri e poi cerco di fare una sintesi.»

«Vuoi dire che riprendi Spoon River per caso?», chiese Dario incuriosito.

«No. Acqua passata non macina più.»

«Forse quello è uno dei tuoi ellepì più riusciti sai» disse ancora Dario.

«Dici?»

«Perché tu no?»

«Beh, per me i dischi sono come i figli. Magari ti affezioni di più a quelli incompresi.»

«Parli di storia di un impiegato?»

«Anche…»

«E che altro?» chiese ancora Dario.

«La Buona Novella, per esempio. Molti non hanno capito che con quel disco volevo rivalutare il più grande rivoluzionario della storia.»

«In effetti non l’ho capito neppure io. Sai, un comunistone come sono io, quando sente parlare di chiese, comincia a sentire un grande prurito addosso» disse Dario ridendo, grattandosi davvero il dorso della mano sinistra.

«Anche se ho sempre pensato che le Chiese siano organizzazioni di potere, ho voluto sondare il mistero della fede…della mia spiritualità» rispose Fabrizio.

«Vuoi dire che stavi cercando Dio, o qualcosa del genere?» ribatté Dario in tono provocatorio. Da buon comunista ortodosso, non riusciva a credere che esistessero altre chiese diverse dalla sua.

«Ero partito dai Vangeli Apocrifi, per passare poi a quelli canonici.»

«Perché?»

«Perché ho voluto liberarmi di Dio, belìn!» esclamò Fabrizio con una risata sonora. Dario capì che si era stancato di parlare di quell’argomento.

 «Beh, io proseguo per la città vecchia» disse indicando la salita di Santa Brigida.

«E io vado a recuperare la mia auto».

«Dove hai parcheggiato?»

«Da qualche parte, in via Balbi o in Piazza XXII ottobre…»

«Bene. Allora ti saluto», disse Dario tendendogli la mano. Fabrizio invece lo abbracciò fraternamente.

«Belin, non sparirmi per altri dieci anni, intesi?»

Dario lesse la commozione e la sincerità negli occhi del suo vecchio amico. Almeno lui, da quel punto di vista, non era cambiato.

«Adesso ho proprio bisogno di levarmi dalle balle per un po’. Te l’ho detto: appena tiro su un po’ di grana, vado a Londra. Tira una brutta aria, qui, te ne sarai accorto anche tu…»

«Belìn, e me lo chiedi? Per che cosa credi che non veda l’ora di trasferirmi definitivamente in Sardegna?»

Fabrizio si accorse che Dario stava per dirgli qualcosa di importante. Per un attimo fu tentato di offrirgli dei soldi, ma ebbe paura di offenderlo; e poi li aveva messi tutti nell’investimento che aveva fatto all’Agnata, in Sardegna. Ma anche se era pieno di debiti, gli avrebbe voluto allungare qualche centone.

«Fabrizio, ma tu cosa pensi della lotta armata? Sento dire in giro che ormai non c’è altra strada per affermare le nostre ragioni di rivoluzionari, antagonisti di questo regime di merda. In realtà me ne voglio andare anche per questo, anche se mi sento un vigliacco a non schierarmi né con lo Stato, né con i terroristi.»

«Vuoi sapere davvero cosa ne penso io?» chiese Fabrizio accendendosi ancora una sigaretta. Dario notò che era la terza che fumava da quando si erano incontrati.

«Io penso che il giorno che i terroristici prendessero il potere, sarebbero esattamente uguali a quelli contro i quali stanno combattendo. Con il potere finirebbero tutti gli ideali di libertà! Credimi, Dario, è sempre stato così, in ogni rivoluzione» ribadì sbuffando in aria una grande nuvola di fumo.

«Belìn, ma lo sai che non ci avevo mai pensato? Sei davvero un grande, Bicio.»

«Ma figurati…»

A Dario parve che il suo amico fosse in imbarazzo e che addirittura arrossisse un poco.

«Vedi, io la mia rivoluzione cerco di farla, quantomeno, con le mie canzoni. Però guarda che le ragioni dei terroristi le condivido tutte. È che la violenza proprio non mi va, capisci? Non riuscirei mai a sparare a qualcuno.»

Dario pensò che fosse troppo comodo, per lui, figlio di ricchi borghesi, pensarla così. Ma non lo disse.

I due amici si abbracciarono ancora e poi si salutarono.

 

 

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