Eravamo in mille e uno
Storia e avventure di un Garibaldino vero narrate da
Ignazio Salvatore Basile
Prefazione
Questo romanzo,
soprattutto nella prima parte, è assolutamente autentico, in quanto si basa su
informazioni e documenti che mi sono stati forniti cortesemente dalla nipote, Silvia
Nicolosi Dessy, discendente diretta in linea paterna, del Colonnello Gaspare Nicolosi da Mazara del
Vallo, che combattè realmente con
Garibaldi e fu con il grande condottiero nizzardo sin dallo sbarco a Marsala,
avvenuto nel maggio del 1860.
Gaspare Nicolosi fu
da subito un personaggio di primo piano nelle vicende siciliane dei Mille
perché fu a lui che Garibaldi, dopo appena tre giorni dallo sbarco a Marsala, affidò il suo famoso Proclama di Salemi, con
cui invitata le popolazioni della Sicilia a sollevarsi contro il giogo
straniero ed a combattere per l’Unità d’Italia.
Questo libro è
dedicato quindi a Silvia Nicolosi Dessy,
che mi ispirò con la sua verve narrativa, l’ idea originaria di scriverlo,
arricchendone via, via la trama con costanti richiami, anche documentali, alle
reali vicende biografiche del suo illustre e valoroso nonno.
Ma il romanzo è
dedicato idealmente anche a tutti coloro che amano e si riconoscono nell’Unità
d’Italia. Il suo primo nucleo risale al 2005 ma le strane vicende della vita mi
hanno portato a concluderlo proprio nell’anno in cui si festeggia il 150.mo
anniversario dell’Unità d’Italia.
Durante gli anni
della sua composizione, ispirato anche dalle fonti storiche che ho voluto
consultare ed approfondire, sono rimasto coinvolto ed affascinato dalla carica
idealistica che permeava gli animi dei giovani italiani che sin dal 1848
sognavano una patria che li unisse sotto un’unica bandiera.
In qualche modo, forse impropriamente, ho
pensato agli afflati idealistici che hanno avvolto i giovani Italiani (e non
solo) un secolo più tardi, culminati a livello mondiale nella grande stagione
rivoluzionaria del 1968 e che, nel bene e nel male, ha lasciato un’impronta
indelebile nella nostra storia.
Ma tornando alla
storia d’Italia e ai nostri eroi garibaldini, al di là di ogni vana retorica,
voglio rimarcare come l’anniversario del 17 marzo 1861 sia soltanto una
convenzionale, simbolica ed opportuna ricorrenza. L’Unità d’Italia esiste da
molto prima. Senza scomodare le gloriose gesta dell’Impero Romano (che è meglio
lasciare da parte, anche a scanso di equivoci) l’Unità morale, artistica e
culturale d’Italia è già in Dante,in Boccaccio, in Petrarca, in Leonardo, in Raffaello e poi ancora in
Leopardi, in Manzoni e in tanti altri grandi uomini che hanno voluto, sognato e
amato l’Italia prima ancora che questa, grazie alle grandi gesta dei valorosi
garibaldini, trovasse compimento politico e istituzionale attraverso quelle
vicende appassionanti ed indimenticabili, svoltesi a cavallo degli anni ‘60 e ‘61 del secolo
decimo nono.
Io, una tale carica
idealistica, attraverso questo mio modesto scritto, vorrei riuscire a
trasmetterla ai giovani di oggi, affinché non dimentichino il sangue versato
per l’Unità d’Italia e affinché capiscano che nella vita è indispensabile
credere in qualcosa di buono e di costruttivo. E che intendano che gli Ideali
sono quei valori che ci aiutano ad affrontare con maggiore convinzione e
fiducia gli affanni della vita.
PROLOGO
-
“Se non
riporti immediatamente indietro questa carretta, con equipaggio, carico e
passeggeri, quant’è vero che mi chiamo Gaspare Nicolosi da Mazara del Vallo, ti
faccio saltare in aria il cervello, compreso il berretto da capitano che ti
ritrovi in testa!”
Il capitano del vapore Santorini, battente bandiera
greca, che era salpato dal porto di Marsala appena due ore prima, si ricordò
del proverbio che sentiva ripetere, dai marinai greci e italiani, sin da quando era un giovane mozzo di coperta
ed aveva appena iniziato a solcare i mari del Mediterraneo, mentre con la coda
dell’occhio inquadrava la faccia decisa di quel giovane italiano dai baffetti
ben curati e dall’incarnato scuro.
-
“ Una razza,
una faccia!” – ripeté tra sé, con un brivido, che egli preferì attribuire al
freddo metallo di quella pistola che gli premeva la tempia destra.
Il capitano Johannes Liarkònos pensò anche a sua
moglie Rinaci, alla quale aveva promesso di invecchiare insieme e che
l’aspettava a Corfù, indaffarata nei preparativi per il matrimonio prossimo
della loro primogenita.
Decise
che non valeva affatto la pena rischiare e, anche se gli costava da matti,
intraprese la manovra di inversione della rotta, non senza avere
tranquillizzato quell’esagitato giovanotto, pregandolo di spostare la canna
della pistola dalla sua tempia.
Sì,
quell’uomo aveva una faccia familiare; probabilmente era siciliano, come aveva
detto di essere, ma dalla faccia poteva benissimo essere un greco; ed un suo
connazionale, davanti ad un rifiuto non accetto, avrebbe sicuramente fatto
fuoco.
Fu
così che Gaspare Nicolosi, potè rientrare nel porto di Marsala dove erano
diretti i due brigantini “ Piemonte” e “Lombardia” che egli aveva visto virare
verso il porto siciliano giusto in tempo per chiedere al comandante greco del
Santorini di invertire la rotta.
Ora
che arrivava Garibaldi che senso aveva per lui scappare a Malta? Meglio
combattere e morire che fuggire! Adesso che il generale nizzardo era finalmente
giunto gli sgherri del re di Napoli avrebbero trovato pane per i loro denti, e
lui non si sarebbe più nascosto, anche se veniva ricercato come pericoloso
nemico della legge.
Su
quei brigantini, a lungo attesi in Sicilia, in quella primavera avanzata del
1860, viaggiavano Garibaldi e i prodi garibaldini che presto avrebbero
intrapreso una leggendaria marcia di liberazione ed ai quali egli voleva
ardentemente unirsi, come di fatto, in quello stesso giorno, si unì.
E
Garibaldi, come era nel suo carattere, non perse tempo.
Ben
conscio dell’importanza del ruolo che esse avrebbero potuto svolgere nella sua
impresa, dato anche l’esiguo numero dei suoi uomini, in raffronto al numero dei
soldati regi del Borbone, decise di coinvolgere le popolazioni locali attraverso la emanazione e la diffusione di
un immediato Proclama.
Capì
dunque subito il prode generale, che quel giovane temerario, ricercato dalla
polizia borbonica, tornava utile al compimento dei suoi disegni preparatori in
quella che sarebbe divenuta una marcia vittoriosa fino a Napoli.
Informato
dal fido La Masa, che Gaspare Nicolosi si era reso artefice sin dall’anno
precedente, della stampa e della diffusione di volantini inneggianti alla
ribellione contro lo straniero e di altri arditi episodi d’arme a favore
dell’Unità d’Italia nella sua città natale di Mazara del Vallo, ove avendo
disarmato e scacciato dei soldati borbonici, aveva di seguito fatto sventolare
il tricolore, volle affidare proprio a lui il suo Proclama con cui egli
incitava i Siciliani ad unirsi a lui per la libertà, nel nome di Vittorio
Emanuele e dell’unità d’Italia.
Gaspare
Nicolosi, che quando vedeva il lampo, non si faceva mai sorprendere dal rumore
del tuono, fece stampare il proclama di Garibaldi alla Sicilia a migliaia di
copie nella stamperia di Vito Favara Verderame (che volle coprire tutte le
spese) e lo diffuse a Mazara e in tutto il Distretto, fin nella provincia di
Girgenti e nella stessa capitale Palermo.
E
dopo fatto ciò raggiunse i Mille a Salemi e da lì intraprese la sua gloriosa
avventura che lo portò, dalla Sicilia al Piemonte con Giuseppe Garibaldi, come
narreremo di seguito al paziente e volenteroso lettore, io e lo stesso valoroso
Gaspare Nicolosi.
Capitolo Primo
15 maggio 1860
La Battaglia di Calatafimi
“Tempo quattro giorni dallo sbarco di Garibaldi a
Marsala, ed eccomi in battaglia. Sono qui, a Calatafimi, dopo essere stato
inquadrato ufficialmente da La Masa in persona, tra i Cacciatori dell’Etna, in
nome e per conto del Generalissimo.
Siamo qui, sul Monte Pietralunga, immediatamente a
ridosso dei Mille in camicia rossa; La Masa ci ha detto di pazientare. Noi
picciotti siciliani vorremmo attaccare subito, ma adesso siamo combattenti
garibaldini; non possiamo e non dobbiamo fare di testa nostra; dobbiamo
attendere in seconda linea; gli ordini non si discutono; siamo stati arruolati
a tutti gli effetti, ci ha rassicurato La Masa, e percepiremo la mesata di 85
centesimi, come gli altri garibaldini; ma non sono certo qui per i soldi; io mi
sarei arruolato anche se non mi avessero promesso i soldi e un futuro in
camicia rossa. Io sono qui per fare l’Italia, per strappare la mia Sicilia ai
Napoletani e ai preti e unirla al Piemonte di Vittorio Emanuele, amico del mio
generale Giuseppe Garibaldi. Tanto più che i regi mi considerano un
guerrigliero e mi ricercano per arrestarmi. Proprio così e proprio a me, che ho
perso il mio papà per colpa dei veri fuorilegge e dei briganti, mentre nel 1848
egli svolgeva le sue funzioni di comandante della Compagnia d’Arme, come si
chiamava un tempo la Pubblica Sicurezza.
Ho 23 anni e sono infatti rimasto orfano di padre
molto presto; ma sin dall’età di 11 anni sognavo di fare la rivoluzione; Carlo
Alberto è stato l’unico a riconoscere le libertà ai sudditi, mentre l’infame
Ferdinando, un anno dopo la liberazione, è ritornato con i soldati di Napoli a
sottomettere noi Siciliani. Ma nessuno di noi si è mai arruolato coi Borboni
infami. Noi Siciliani stiamo con Garibaldi e con Vittorio Emanuele.
Queste cose le ho imparate
di nascosto, nel Collegio dei preti dove mia mamma mi ha rinchiuso per farmi
studiare e per farmi diventare un perito agrario.
Io per accontentare mia
mamma, che ci ha cresciuti a noi sei figli con tanti sacrifici, l’ho anche fatto il perito agrario: so periziare
con gli occhi quanto misura un terreno da una siepe all’altra e quanto grano
c’è in un campo da seminare; so apprezzare un giogo di buoi e trasformarne il
valore in tanti asini, in muli e in cavalli; e so valutare ogni derrata
alimentare; so anche eseguire bonifiche, impianti, innesti e migliorie; mi
arrangio in campo agricolo, nella teoria e nella pratica; tutti i soldi
guadagnati li ho dati a mia mamma; e anche quelli della paga glieli manderò; a
me basta mangiare e avere un po’ di tabacco; beh, mi piacciono anche le donne e
il gioco ma mia madre e la mia famiglia vengono prima di loro; e prima ancora
viene il mio generale Garibaldi. Io so già che non lo lascerò mai.
Adesso è mezzogiorno. Sento
in lontananza urli e spari provenire dall’altra parte della vallata, dove sono
accampati i regolari napoletani: Monte del Pianto dei Romani lo chiamano; ma
noi picciotti lo chiamiamo U’ Chiantu, che vuol dire il vigneto.
Dopo un po’ arriva l’ordine
tanto atteso: è lo stesso La Masa ad impartirlo. Ci buttiamo all’assalto dei
napoletani che hanno attaccato, scendendo dalle terrazze.
Garibaldi è un punto rosso,
là, sulle terrazze del vigneto. Lo scorgo in lontananza, nonostante sia
attorniato dai suoi riesco a scorgere i riflessi della sua sciabola sguainata.
E’ lui, impavido, che guida
l’attacco.
Penso che se non ha paura
lui, lì davanti al fuoco, come posso averne io, qua dietro?
Mi butto giù per la valle e
risalgo le terrazze anche io. O raggiungo il mio comandante o morirò. Ho
aspettato per anni questo momento: ogni metro di terra che misuravo cogli occhi
o con la pertica, il mio pensiero correva a Garibaldi; il suo mito non è
usurpato e oggi lo sto verificando di persona. Non posso e non voglio starmene
qua dietro.
Non è facile salire. Vedo le
camicie rosse vacillare, all’indietro. I soldati del re Borbone spuntano in
alto, sempre più numerosi.
Ora c’è Bixio a fianco a
Garibaldi. Vedo il mio comandante di tre
quarti che gli dice qualcosa. Non posso sentire, ma più tardi qualcuno dirà che
l’amico Nino gli abbia suggerito di ritirarsi. Ma Garibaldi non lo ascolta. Non
lo può stare a sentire: se torna indietro il comandante la battaglia è persa. E
Garibaldi non vuole perdere, non può perdere. Questa è la sua prima grande
battaglia in terra di Sicilia e lui ha promesso al suo re che l’Italia si farà.
Sento che preferisce morire, qui e ora, se non potrà mantenere la parola data
al suo re, ma anche ai suoi avi, a quelli che sente suoi fratelli: quelli di
Roma, noi Siciliani, gli stessi napoletani, i lombardi, i veneti, i toscani, i
calabresi. Ed io la penso come lui.
Senza rendermene conto mi
ritrovo sospinto in alto, da una forza misteriosa che spinge da dietro. Più
tardi scoprirò che un centinaio di volontari, rimasto in retroguardia, visto il
comandante bersagliato dai nemici, ha deciso di caricare verso l’alto. E’
quella la forza misteriosa che ho sentito.
Sparo e mi acquatto per
ricaricare; all’infinito; perdo il conto; sento spari fischiare tutto attorno. Non so neanche come, mi ritrovo a un
passo da Garibaldi. Vedo uno dei suoi che lo protegge col suo mantello. Scorgo
un soldato borbonico che lo prende di mira con attenzione: non vuole sbagliare.
E’ in cerca di gloria; ma anch’io lo sono; mi avvento e mi frappongo tra il
tiro di quel mancato eroe e il mio comandante; la pallottola destinata alla
camicia rossa di Garibaldi colpisce me; tutto si annebbia di colpo e la mia
mente perde coscienza di sé. Più avanti mi diranno che quel garibaldino che
faceva scudo a Garibaldi, prima di me, si chiama Elia e subirà una ferita ben
più grave della mia da una pallottola destinata anch’essa al Generale. Ma ciò
non toglie valore al mio gesto e anzi con Elia diventeremo grandi amici.
Al mio risveglio La Masa mi
consegna una camicia rossa e una lira d’oro: da parte di Garibaldi che, appena
starò bene, mi vuole incontrare. Ma la cosa più bella è che abbiamo vinto: i
soldati regi si sono ritirati. La vittoria è nostra. Ancora non lo so, ma
questa battaglia passerà alla storia. Ho ancora la cicatrice nella spalla
sinistra, ricordo di quella giornata. Ma l’ho coperta con quella camicia rossa.
E da quel giorno l’ho smessa solo per entrare nell’esercito regolare
piemontese.
Capitolo Secondo
-
“ Attaccabrighe, donnaiolo e giocatore! Ecco chi è l’uomo che
aspira alla mano di nostra figlia Luigia! Hai capito, Margherita? Lo hai
capito?”
Donna Margherita guardò senza apparente emozione il viso alterato
dalla collera di suo marito. Dopo trent’anni di matrimonio, avendo imparato a
conoscerlo, decise di lasciarlo sfogare fino in fondo. Tuttavia trovava ancora
simpaticamente buffa quella sua
intonazione spiccatamente piemontese che
nei momenti di ira sembrava ancora più accentuata.
- “ E senza contare che è pure siciliano ed ex-garibaldino!” - .
L’ avvocato Stranio si fece cadere sulla sedia con un’enfasi teatrale, frutto di
una abilità drammaturgica che gli derivava più dalla sua frequentazione delle
aule giudiziarie che da un effettivo sconforto per le notizie che quel
biglietto riservato gli aveva recapitate.
Donna Margherita lesse quelle poche righe vergate sul foglio che
il marito le aveva allungato. Gli epiteti poco lusinghieri erano riferiti
naturalmente al Capitano Gaspare Nicolosi. E a chi altri, se no? Nessuno prima
dell’ufficiale siciliano aveva mai chiesto la mano della loro primogenita
Luigia. Anche lei si sedette sul bordo di una delle due sedie, dal lato opposto
della scrivania. Per guadagnare ancora
qualche secondo fece finta di leggere, ma voleva solo guadagnare un po’ di
tempo necessario a studiare la migliore
strategia.
Il titolo nobiliare lo aveva acquisito dopo il matrimonio con
Sebastiano Stranio che, appartenendo ad una delle più antiche famiglie di
proprietari terrieri del Monferrato, era stato nominato Cavaliere e Nobil Homo
della Corona di casa Savoia, con diritto a fregiarsi del titolo nobiliare per
sé, per la sua legittima consorte e per
il primogenito maschio. Diritto, al quale, invero, l’Avv. Stranio, in un
periodo in cui si faceva commercio perfino dei titoli nobiliari, non faceva
ricorso se non nei documenti e nelle ricorrenze ufficiali, preferendo
utilizzare nella quotidianità il titolo di avvocato, che pur gli spettava, dato
che era un apprezzato legale del Foro Regio Riunito di Asti e di Alessandria.
Margherita era discendente per metà da una famiglia della ricca
borghesia mercantile genovese e per l’altra metà, in linea materna, da una
agiata famiglia di Tortona.
Dai suoi avi aveva ereditato il senso pratico degli affari,
che aveva intelligentemente trasfuso
nella gestione dei rapporti dentro e fuori la casa, insieme ad una maggiore
prospettiva nella visione del mondo che, al contrario di quanto accadeva a suo
marito, non era circoscritta dai confini del vecchio Regno di Sardegna o,
peggio ancora, da quelli dell’ancor più antico Ducato di Savoia. E naturalmente
non nutriva alcun pregiudizio sui siciliani e sugli ex-garibaldini. Ma questo
si guardò bene dal dirlo. Decise di partire da lontano.
-
“ Bella questa grafia! Di chi è?”- chiese restituendo il foglio.
-
“ Del figlio del mio compianto fratello Oddone, il giovane Bartolo
Stranio, quello che sta prestando servizio proprio qui ad Alessandria, nel
Primo Battaglione del 48.mo Reggimento Piemonte Fanteria, lo stesso dove
è stato inserito questo capitano Nico non so che!”
-
“ Nicolosi” – disse pazientemente Donna Margherita.
-
“ Appunto!”- interloquì l’avvocato Stranio, ricordandosi che il
nipote gli aveva raccomandato nel P.S. della missiva riservata di
distruggerla subito dopo averla letta.
Gettò la lettera sul fuoco che ardeva nel camino. Le fiamme l’avvolsero in un
famelico e repentino boccone.
-
“Il capitano Nicolosi “ – riprese Donna Margherita con non curanza, avvicinandosi al
fuoco che il marito aveva cercato di ravvivare, approfittandone per
disperdere i residui della recente combustione – “ è però in forza al Secondo Battaglione!”
-
“ E che significa? Gli ufficiali frequentano tutti lo stesso
Circolo ed agiscono sotto lo stesso Comando!”
-
“ Ma è arcinoto a tutti che tra gli Ufficiali del Primo e del
Secondo Battaglione del 48.mo Reggimento Piemonte Fanteria non è mai corso buon
sangue!” – replicò Donna Margherita, che non aveva svolto studi specifici in
materia militare, ma vi sopperiva con una discreta conoscenza dei resoconti
salottieri femminili, cercando di smussare i toni del discorso.
-
“ State cercando di insinuare che un giovane della casata Stranio
può aver confezionato delle baggianate per infangare ingiustamente un collega
ufficiale di reggimento?” – ruggì pericolosamente l’avv. Stranio.
-
“ Caro, hai presente la contessa Eleonora Chivasso Canavese?” –
Donna Margherita si rese conto subito che era meglio cambiare strategia.
-
“La moglie del conte Edoardo Canavese?” – domandò l’avvocato Stranio
con uno tono di voce improvvisamente più dolce.
I conti Canavese erano di casa dagli Stranio. Il conte Edoardo era
compagno di caccia dell’avvocato e la contessa Eleonora faceva parte con Donna
Margherita del Gruppo Cittadino delle Dame di Carità di San Vincenzo. Inoltre i
conti Canavese avevano battezzato il loro ultimogenito e unico maschio Giacomo.
-
“ Sì, proprio lei! Luigia le ha chiesto, in via riservata, di
prendere informazioni ed Eleonora conosce personalmente l’ufficiale
attendente in prima del Comandante
del Reggimento Piemonte Fanteria! Non è una fortuna?”
-
“ Già, bella fortuna! Se
questo è il risultato della tua educazione a nostra figlia! Ma quando
mai s’è visto che una brava figlia prenda una simile iniziativa senza
interessare prima i suoi genitori?”
Se non altro è tornato al
tu” pensò rincuorata Donna Margherita, che sapeva come quel “voi”, che suo marito aveva imparato ad usare da suo
padre nei momenti in cui occorreva
rimettere al posto loro le donne, fosse l’emblema di un estremo
disappunto. Adesso, invece, il rimprovero che suo marito le aveva mosso
sull’educazione della figlia celava, dietro il tono burbero, una bonaria e
rassegnata accondiscendenza.
-“ Oh, caro, non te la prendere! Non sono più i nostri tempi.
Oggi, anche le figlie femmine, cercano di affrancarsi quanto più possono dal
ruolo di subalternità! Del resto, se venisse confermata la predisposizione al
gioco del pretendente di nostra figlia, sarei la prima io ad imporle il
distacco più radicale di ogni pensiero che lo
riguardi. Mi preoccupo del gioco e non delle brighe, perché quando un vero uomo dovesse accasarsi, le
brighe diventano ricordi da ragazzi. Quanto alle donne, poi, un uomo, se non va dietro alle
donne mentre è libero e solo, che razza di uomo sarebbe mai? Anche tu, Sebastiano
Stranio, prima di prendermi in sposa, puoi forse negare di essere andato dietro
alle donne?”
L’avvocato Stranio sembrò convinto dalle parole che la moglie, con grande garbo femminile, le aveva
rivolto, o quantomeno ne sembrò placato. Non volle tuttavia cedere le armi
senza un’ultima battaglia.
-
“ E cosa farai se ti confermeranno
che si tratta proprio di un siciliano e, per di più, di un ex-
garibaldino?”
-
“ Ma Sebastiano caro, se il nostro amato sovrano Vittorio Emanuele
II°, ha deciso di inserire gli
ex-garibaldini nei ranghi dei suoi migliori reggimenti, proprio noi sudditi
dovremmo ribellarci? E non ha forse detto, Massimo d’Azeglio, che dopo aver
fatto l’Italia, occorre fare gli Italiani?”
-
“ Eh, già! E tu gli Italiani del Marchese d’Azeglio li vuoi
iniziare a fare in casa nostra?”
-
“ E perché no? “ – rispose Donna Margherita imitando il tono
giocoso del consorte.- “ E non ti scordare, infine, che Luigia ha già ventuno anni
suonati! Vuoi forse che tua figlia maggiore resti zitella, mentre le sorelle minori saranno già maritate e con
prole?”
L’avvocato non ebbe nulla da replicare e sua moglie si licenziò
con un bacio e con un leggero inchino, che abbozzò quando era già sulla porta.
Quell’ultima considerazione si dimostrò decisiva, almeno per decidere se
valutare o meno la proposta matrimoniale del capitano Gaspare Nicolosi da
Mazara del Vallo di Sicilia, di stanza ad Alessandria, nel 48.mo Reggimento
Piemonte Fanteria.
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