giovedì 10 maggio 2018

Storia vera di un garibaldino siciliano



Eravamo in mille e uno



Storia e avventure di un Garibaldino vero narrate da
Ignazio Salvatore Basile


Prefazione

Questo romanzo, soprattutto nella prima parte, è assolutamente autentico, in quanto si basa su informazioni e documenti che mi sono stati forniti cortesemente dalla nipote, Silvia Nicolosi Dessy, discendente diretta in linea paterna,  del Colonnello Gaspare Nicolosi da Mazara del Vallo, che combattè  realmente con Garibaldi e fu con il grande condottiero nizzardo sin dallo sbarco a Marsala, avvenuto nel maggio del 1860.
Gaspare Nicolosi fu da subito un personaggio di primo piano nelle vicende siciliane dei Mille perché fu a lui che Garibaldi, dopo appena tre giorni dallo sbarco a Marsala,  affidò il suo famoso Proclama di Salemi, con cui invitata le popolazioni della Sicilia a sollevarsi contro il giogo straniero ed a combattere per l’Unità d’Italia.
Questo libro è dedicato quindi a Silvia Nicolosi Dessy,  che mi ispirò con la sua verve narrativa,  l’ idea originaria di scriverlo, arricchendone via, via la trama con costanti richiami, anche documentali, alle reali vicende biografiche del suo illustre e valoroso nonno.
Ma il romanzo è dedicato idealmente anche a tutti coloro che amano e si riconoscono nell’Unità d’Italia. Il suo primo nucleo risale al 2005 ma le strane vicende della vita mi hanno portato a concluderlo proprio nell’anno in cui si festeggia il 150.mo anniversario dell’Unità d’Italia.
Durante gli anni della sua composizione, ispirato anche dalle fonti storiche che ho voluto consultare ed approfondire, sono rimasto coinvolto ed affascinato dalla carica idealistica che permeava gli animi dei giovani italiani che sin dal 1848 sognavano una patria che li unisse sotto un’unica bandiera.
 In qualche modo, forse impropriamente, ho pensato agli afflati idealistici che hanno avvolto i giovani Italiani (e non solo) un secolo più tardi, culminati a livello mondiale nella grande stagione rivoluzionaria del 1968 e che, nel bene e nel male, ha lasciato un’impronta indelebile nella nostra storia.
Ma tornando alla storia d’Italia e ai nostri eroi garibaldini, al di là di ogni vana retorica, voglio rimarcare come l’anniversario del 17 marzo 1861 sia soltanto una convenzionale, simbolica ed opportuna ricorrenza. L’Unità d’Italia esiste da molto prima. Senza scomodare le gloriose gesta dell’Impero Romano (che è meglio lasciare da parte, anche a scanso di equivoci) l’Unità morale, artistica e culturale d’Italia è già in Dante,in Boccaccio, in Petrarca,  in Leonardo, in Raffaello e poi ancora in Leopardi, in Manzoni e in tanti altri grandi uomini che hanno voluto, sognato e amato l’Italia prima ancora che questa, grazie alle grandi gesta dei valorosi garibaldini, trovasse compimento politico e istituzionale attraverso quelle vicende appassionanti ed indimenticabili, svoltesi  a cavallo degli anni ‘60 e ‘61 del secolo decimo nono.
Io, una tale carica idealistica, attraverso questo mio modesto scritto, vorrei riuscire a trasmetterla ai giovani di oggi, affinché non dimentichino il sangue versato per l’Unità d’Italia e affinché capiscano che nella vita è indispensabile credere in qualcosa di buono e di costruttivo. E che intendano che gli Ideali sono quei valori che ci aiutano ad affrontare con maggiore convinzione e fiducia gli affanni della vita.
































PROLOGO

-         “Se non riporti immediatamente indietro questa carretta, con equipaggio, carico e passeggeri, quant’è vero che mi chiamo Gaspare Nicolosi da Mazara del Vallo, ti faccio saltare in aria il cervello, compreso il berretto da capitano che ti ritrovi in testa!”

Il capitano del vapore Santorini, battente bandiera greca, che era salpato dal porto di Marsala appena due ore prima, si ricordò del proverbio che sentiva ripetere, dai marinai greci e italiani,  sin da quando era un giovane mozzo di coperta ed aveva appena iniziato a solcare i mari del Mediterraneo, mentre con la coda dell’occhio inquadrava la faccia decisa di quel giovane italiano dai baffetti ben curati e dall’incarnato scuro.

-         “ Una razza, una faccia!” – ripeté tra sé, con un brivido, che egli preferì attribuire al freddo metallo di quella pistola che gli premeva la tempia destra.

Il capitano Johannes Liarkònos pensò anche a sua moglie Rinaci, alla quale aveva promesso di invecchiare insieme e che l’aspettava a Corfù, indaffarata nei preparativi per il matrimonio prossimo della loro primogenita.

Decise che non valeva affatto la pena rischiare e, anche se gli costava da matti, intraprese la manovra di inversione della rotta, non senza avere tranquillizzato quell’esagitato giovanotto, pregandolo di spostare la canna della pistola dalla sua tempia.

Sì, quell’uomo aveva una faccia familiare; probabilmente era siciliano, come aveva detto di essere, ma dalla faccia poteva benissimo essere un greco; ed un suo connazionale, davanti ad un rifiuto non accetto, avrebbe sicuramente fatto fuoco.

Fu così che Gaspare Nicolosi, potè rientrare nel porto di Marsala dove erano diretti i due brigantini “ Piemonte” e “Lombardia” che egli aveva visto virare verso il porto siciliano giusto in tempo per chiedere al comandante greco del Santorini di invertire la rotta.

Ora che arrivava Garibaldi che senso aveva per lui scappare a Malta? Meglio combattere e morire che fuggire! Adesso che il generale nizzardo era finalmente giunto gli sgherri del re di Napoli avrebbero trovato pane per i loro denti, e lui non si sarebbe più nascosto, anche se veniva ricercato come pericoloso nemico della legge.

Su quei brigantini, a lungo attesi in Sicilia, in quella primavera avanzata del 1860, viaggiavano Garibaldi e i prodi garibaldini che presto avrebbero intrapreso una leggendaria marcia di liberazione ed ai quali egli voleva ardentemente unirsi, come di fatto, in quello stesso giorno, si unì.

E Garibaldi, come era nel suo carattere, non perse tempo.

Ben conscio dell’importanza del ruolo che esse avrebbero potuto svolgere nella sua impresa, dato anche l’esiguo numero dei suoi uomini, in raffronto al numero dei soldati regi del Borbone, decise di coinvolgere le popolazioni locali  attraverso la emanazione e la diffusione di un immediato Proclama.

Capì dunque subito il prode generale, che quel giovane temerario, ricercato dalla polizia borbonica, tornava utile al compimento dei suoi disegni preparatori in quella che sarebbe divenuta una marcia vittoriosa fino a Napoli.

Informato dal fido La Masa, che Gaspare Nicolosi si era reso artefice sin dall’anno precedente, della stampa e della diffusione di volantini inneggianti alla ribellione contro lo straniero e di altri arditi episodi d’arme a favore dell’Unità d’Italia nella sua città natale di Mazara del Vallo, ove avendo disarmato e scacciato dei soldati borbonici, aveva di seguito fatto sventolare il tricolore, volle affidare proprio a lui il suo Proclama con cui egli incitava i Siciliani ad unirsi a lui per la libertà, nel nome di Vittorio Emanuele e dell’unità d’Italia.

Gaspare Nicolosi, che quando vedeva il lampo, non si faceva mai sorprendere dal rumore del tuono, fece stampare il proclama di Garibaldi alla Sicilia a migliaia di copie nella stamperia di Vito Favara Verderame (che volle coprire tutte le spese) e lo diffuse a Mazara e in tutto il Distretto, fin nella provincia di Girgenti e nella stessa capitale Palermo.

E dopo fatto ciò raggiunse i Mille a Salemi e da lì intraprese la sua gloriosa avventura che lo portò, dalla Sicilia al Piemonte con Giuseppe Garibaldi, come narreremo di seguito al paziente e volenteroso lettore, io e lo stesso valoroso Gaspare Nicolosi.










Capitolo Primo
15 maggio 1860
La Battaglia di Calatafimi

“Tempo quattro giorni dallo sbarco di Garibaldi a Marsala, ed eccomi in battaglia. Sono qui, a Calatafimi, dopo essere stato inquadrato ufficialmente da La Masa in persona, tra i Cacciatori dell’Etna, in nome e per conto del Generalissimo.

Siamo qui, sul Monte Pietralunga, immediatamente a ridosso dei Mille in camicia rossa; La Masa ci ha detto di pazientare. Noi picciotti siciliani vorremmo attaccare subito, ma adesso siamo combattenti garibaldini; non possiamo e non dobbiamo fare di testa nostra; dobbiamo attendere in seconda linea; gli ordini non si discutono; siamo stati arruolati a tutti gli effetti, ci ha rassicurato La Masa, e percepiremo la mesata di 85 centesimi, come gli altri garibaldini; ma non sono certo qui per i soldi; io mi sarei arruolato anche se non mi avessero promesso i soldi e un futuro in camicia rossa. Io sono qui per fare l’Italia, per strappare la mia Sicilia ai Napoletani e ai preti e unirla al Piemonte di Vittorio Emanuele, amico del mio generale Giuseppe Garibaldi. Tanto più che i regi mi considerano un guerrigliero e mi ricercano per arrestarmi. Proprio così e proprio a me, che ho perso il mio papà per colpa dei veri fuorilegge e dei briganti, mentre nel 1848 egli svolgeva le sue funzioni di comandante della Compagnia d’Arme, come si chiamava un tempo la Pubblica Sicurezza.

Ho 23 anni e sono infatti rimasto orfano di padre molto presto; ma sin dall’età di 11 anni sognavo di fare la rivoluzione; Carlo Alberto è stato l’unico a riconoscere le libertà ai sudditi, mentre l’infame Ferdinando, un anno dopo la liberazione, è ritornato con i soldati di Napoli a sottomettere noi Siciliani. Ma nessuno di noi si è mai arruolato coi Borboni infami. Noi Siciliani stiamo con Garibaldi e con Vittorio Emanuele.

Queste cose le ho imparate di nascosto, nel Collegio dei preti dove mia mamma mi ha rinchiuso per farmi studiare e per farmi diventare un perito agrario.
Io per accontentare mia mamma, che ci ha cresciuti a noi sei figli con tanti sacrifici,  l’ho anche fatto il perito agrario: so periziare con gli occhi quanto misura un terreno da una siepe all’altra e quanto grano c’è in un campo da seminare; so apprezzare un giogo di buoi e trasformarne il valore in tanti asini, in muli e in cavalli; e so valutare ogni derrata alimentare; so anche eseguire bonifiche, impianti, innesti e migliorie; mi arrangio in campo agricolo, nella teoria e nella pratica; tutti i soldi guadagnati li ho dati a mia mamma; e anche quelli della paga glieli manderò; a me basta mangiare e avere un po’ di tabacco; beh, mi piacciono anche le donne e il gioco ma mia madre e la mia famiglia vengono prima di loro; e prima ancora viene il mio generale Garibaldi. Io so già che non lo lascerò mai.

Adesso è mezzogiorno. Sento in lontananza urli e spari provenire dall’altra parte della vallata, dove sono accampati i regolari napoletani: Monte del Pianto dei Romani lo chiamano; ma noi picciotti lo chiamiamo U’ Chiantu, che vuol dire il vigneto.

Dopo un po’ arriva l’ordine tanto atteso: è lo stesso La Masa ad impartirlo. Ci buttiamo all’assalto dei napoletani che hanno attaccato, scendendo dalle terrazze.
Garibaldi è un punto rosso, là, sulle terrazze del vigneto. Lo scorgo in lontananza, nonostante sia attorniato dai suoi riesco a scorgere i riflessi della sua sciabola sguainata.
E’ lui, impavido, che guida l’attacco.
Penso che se non ha paura lui, lì davanti al fuoco, come posso averne io, qua dietro?

Mi butto giù per la valle e risalgo le terrazze anche io. O raggiungo il mio comandante o morirò. Ho aspettato per anni questo momento: ogni metro di terra che misuravo cogli occhi o con la pertica, il mio pensiero correva a Garibaldi; il suo mito non è usurpato e oggi lo sto verificando di persona. Non posso e non voglio starmene qua dietro.

Non è facile salire. Vedo le camicie rosse vacillare, all’indietro. I soldati del re Borbone spuntano in alto, sempre più numerosi.
Ora c’è Bixio a fianco a Garibaldi. Vedo  il mio comandante di tre quarti che gli dice qualcosa. Non posso sentire, ma più tardi qualcuno dirà che l’amico Nino gli abbia suggerito di ritirarsi. Ma Garibaldi non lo ascolta. Non lo può stare a sentire: se torna indietro il comandante la battaglia è persa. E Garibaldi non vuole perdere, non può perdere. Questa è la sua prima grande battaglia in terra di Sicilia e lui ha promesso al suo re che l’Italia si farà. Sento che preferisce morire, qui e ora, se non potrà mantenere la parola data al suo re, ma anche ai suoi avi, a quelli che sente suoi fratelli: quelli di Roma, noi Siciliani, gli stessi napoletani, i lombardi, i veneti, i toscani, i calabresi. Ed io la penso come lui.

Senza rendermene conto mi ritrovo sospinto in alto, da una forza misteriosa che spinge da dietro. Più tardi scoprirò che un centinaio di volontari, rimasto in retroguardia, visto il comandante bersagliato dai nemici, ha deciso di caricare verso l’alto. E’ quella la forza misteriosa che ho sentito.

Sparo e mi acquatto per ricaricare; all’infinito; perdo il conto; sento spari fischiare tutto  attorno. Non so neanche come, mi ritrovo a un passo da Garibaldi. Vedo uno dei suoi che lo protegge col suo mantello. Scorgo un soldato borbonico che lo prende di mira con attenzione: non vuole sbagliare. E’ in cerca di gloria; ma anch’io lo sono; mi avvento e mi frappongo tra il tiro di quel mancato eroe e il mio comandante; la pallottola destinata alla camicia rossa di Garibaldi colpisce me; tutto si annebbia di colpo e la mia mente perde coscienza di sé. Più avanti mi diranno che quel garibaldino che faceva scudo a Garibaldi, prima di me, si chiama Elia e subirà una ferita ben più grave della mia da una pallottola destinata anch’essa al Generale. Ma ciò non toglie valore al mio gesto e anzi con Elia diventeremo grandi amici.

Al mio risveglio La Masa mi consegna una camicia rossa e una lira d’oro: da parte di Garibaldi che, appena starò bene, mi vuole incontrare. Ma la cosa più bella è che abbiamo vinto: i soldati regi si sono ritirati. La vittoria è nostra. Ancora non lo so, ma questa battaglia passerà alla storia. Ho ancora la cicatrice nella spalla sinistra, ricordo di quella giornata. Ma l’ho coperta con quella camicia rossa. E da quel giorno l’ho smessa solo per entrare nell’esercito regolare piemontese.
































Capitolo Secondo

-         “ Attaccabrighe, donnaiolo e giocatore! Ecco chi è l’uomo che aspira alla mano di nostra figlia Luigia! Hai capito, Margherita? Lo hai capito?”

Donna Margherita guardò senza apparente emozione il viso alterato dalla collera di suo marito. Dopo trent’anni di matrimonio, avendo imparato a conoscerlo, decise di lasciarlo sfogare fino in fondo. Tuttavia trovava ancora simpaticamente buffa quella  sua intonazione  spiccatamente piemontese che nei momenti di ira sembrava ancora più accentuata.

- “ E senza contare che è pure siciliano ed ex-garibaldino!” - . L’ avvocato Stranio si fece cadere sulla sedia con un’enfasi teatrale, frutto di una abilità drammaturgica che gli derivava più dalla sua frequentazione delle aule giudiziarie che da un effettivo sconforto per le notizie che quel biglietto riservato gli aveva recapitate.

Donna Margherita lesse quelle poche righe vergate sul foglio che il marito le aveva allungato. Gli epiteti poco lusinghieri erano riferiti naturalmente al Capitano Gaspare Nicolosi. E a chi altri, se no? Nessuno prima dell’ufficiale siciliano aveva mai chiesto la mano della loro primogenita Luigia. Anche lei si sedette sul bordo di una delle due sedie, dal lato opposto della scrivania.  Per guadagnare ancora qualche secondo fece finta di leggere, ma voleva solo guadagnare un po’ di tempo necessario a  studiare la migliore strategia.

Il titolo nobiliare lo aveva acquisito dopo il matrimonio con Sebastiano Stranio che, appartenendo ad una delle più antiche famiglie di proprietari terrieri del Monferrato, era stato nominato Cavaliere e Nobil Homo della Corona di casa Savoia, con diritto a fregiarsi del titolo nobiliare per sé,   per la sua legittima consorte e per il primogenito maschio. Diritto, al quale, invero, l’Avv. Stranio, in un periodo in cui si faceva commercio perfino dei titoli nobiliari, non faceva ricorso se non nei documenti e nelle ricorrenze ufficiali, preferendo utilizzare nella quotidianità il titolo di avvocato, che pur gli spettava, dato che era un apprezzato legale del Foro Regio Riunito di Asti e di Alessandria.

Margherita era discendente per metà da una famiglia della ricca borghesia mercantile genovese e per l’altra metà, in linea materna, da una agiata famiglia di Tortona.
Dai suoi avi aveva ereditato il senso pratico degli affari, che  aveva intelligentemente trasfuso nella gestione dei rapporti dentro e fuori la casa, insieme ad una maggiore prospettiva nella visione del mondo che, al contrario di quanto accadeva a suo marito, non era circoscritta dai confini del vecchio Regno di Sardegna o, peggio ancora, da quelli dell’ancor più antico Ducato di Savoia. E naturalmente non nutriva alcun pregiudizio sui siciliani e sugli ex-garibaldini. Ma questo si guardò bene dal dirlo. Decise di partire da lontano.

-         “ Bella questa grafia! Di chi è?”- chiese restituendo il foglio.
-         “ Del figlio del mio compianto fratello Oddone, il giovane Bartolo Stranio, quello che sta prestando servizio proprio qui ad Alessandria,  nel  Primo Battaglione del 48.mo Reggimento Piemonte Fanteria, lo stesso dove è stato inserito questo capitano Nico non so che!”
-         “ Nicolosi” – disse pazientemente Donna Margherita.
-         “ Appunto!”- interloquì l’avvocato Stranio, ricordandosi che il nipote gli aveva raccomandato nel P.S. della missiva riservata di distruggerla  subito dopo averla letta. Gettò la lettera sul fuoco che ardeva nel camino. Le fiamme l’avvolsero in un famelico e repentino  boccone.
-         “Il capitano Nicolosi “ – riprese Donna Margherita  con non curanza, avvicinandosi  al  fuoco che il marito aveva cercato di ravvivare, approfittandone per disperdere i residui della recente combustione – “ è però  in forza al Secondo  Battaglione!”
-         “ E che significa? Gli ufficiali frequentano tutti lo stesso Circolo ed agiscono sotto lo stesso Comando!”
-         “ Ma è arcinoto a tutti che tra gli Ufficiali del Primo e del Secondo Battaglione del 48.mo Reggimento Piemonte Fanteria non è mai corso buon sangue!” – replicò Donna Margherita, che non aveva svolto studi specifici in materia militare, ma vi sopperiva con una discreta conoscenza dei resoconti salottieri femminili, cercando di smussare i toni del discorso.
-         “ State cercando di insinuare che un giovane della casata Stranio può aver confezionato delle baggianate per infangare ingiustamente un collega ufficiale di reggimento?” – ruggì pericolosamente l’avv. Stranio.
-         “ Caro, hai presente la contessa Eleonora Chivasso Canavese?” – Donna Margherita si rese conto subito che era meglio cambiare strategia.
-         “La moglie del conte Edoardo Canavese?” – domandò l’avvocato Stranio con uno tono di voce improvvisamente più dolce.

I conti Canavese erano di casa dagli Stranio. Il conte Edoardo era compagno di caccia dell’avvocato e la contessa Eleonora faceva parte con Donna Margherita del Gruppo Cittadino delle Dame di Carità di San Vincenzo. Inoltre i conti Canavese avevano battezzato il loro ultimogenito e unico maschio Giacomo.

-         “ Sì, proprio lei! Luigia le ha chiesto, in via riservata, di prendere informazioni ed Eleonora conosce personalmente l’ufficiale attendente  in prima del Comandante del  Reggimento  Piemonte Fanteria! Non è una fortuna?”
-         “ Già, bella fortuna! Se  questo è il risultato della tua educazione a nostra figlia! Ma quando mai s’è visto che una brava figlia prenda una simile iniziativa senza interessare prima i suoi genitori?”
Se non altro è tornato al tu” pensò rincuorata Donna Margherita, che sapeva come quel “voi”, che  suo marito aveva imparato ad usare da suo padre nei momenti in cui occorreva  rimettere al posto loro le donne, fosse l’emblema di un estremo disappunto. Adesso, invece, il rimprovero che suo marito le aveva mosso sull’educazione della figlia celava, dietro il tono burbero, una bonaria e rassegnata accondiscendenza.

-“ Oh, caro, non te la prendere! Non sono più i nostri tempi. Oggi, anche le figlie femmine, cercano di affrancarsi quanto più possono dal ruolo di subalternità! Del resto, se venisse confermata la predisposizione al gioco del pretendente di nostra figlia, sarei la prima io ad imporle il distacco più radicale di ogni pensiero che lo  riguardi. Mi preoccupo del gioco e non delle brighe, perché  quando un vero uomo dovesse accasarsi, le brighe diventano ricordi da ragazzi. Quanto alle  donne, poi, un uomo, se non va dietro alle donne mentre è libero e solo, che razza di uomo sarebbe mai? Anche tu, Sebastiano Stranio, prima di prendermi in sposa, puoi forse negare di essere andato dietro alle donne?”

L’avvocato Stranio sembrò convinto dalle parole che la  moglie, con grande garbo femminile, le aveva rivolto, o quantomeno ne sembrò placato. Non volle tuttavia cedere le armi senza un’ultima battaglia.

-         “ E cosa farai se ti confermeranno  che si tratta proprio di un siciliano e, per di più, di un ex- garibaldino?”
-         “ Ma Sebastiano caro, se il nostro amato sovrano Vittorio Emanuele II°,  ha deciso di inserire gli ex-garibaldini nei ranghi dei suoi migliori reggimenti, proprio noi sudditi dovremmo ribellarci? E non ha forse detto, Massimo d’Azeglio, che dopo aver fatto l’Italia, occorre fare gli Italiani?”
-         “ Eh, già! E tu gli Italiani del Marchese d’Azeglio li vuoi iniziare a fare in casa nostra?”
-         “ E perché no? “ – rispose Donna Margherita imitando il tono giocoso del consorte.- “ E non ti scordare, infine, che Luigia ha già ventuno anni suonati! Vuoi forse che tua figlia maggiore resti zitella, mentre le  sorelle minori saranno già maritate e con prole?”

L’avvocato non ebbe nulla da replicare e sua moglie si licenziò con un bacio e con un leggero inchino, che abbozzò quando era già sulla porta. Quell’ultima considerazione si dimostrò decisiva, almeno per decidere se valutare o meno la proposta matrimoniale del capitano Gaspare Nicolosi da Mazara del Vallo di Sicilia, di stanza ad Alessandria, nel 48.mo Reggimento Piemonte Fanteria.




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