La
paga era di 40 sterline la settimana e non era davvero male per otto ore di
lavoro, da lunedì a venerdì. Per far quadrare meglio i conti il mio amico e
benefattore marchigiano mi suggerì e mi trovò egli stesso una camera
ammobiliata, proprio dietro l’angolo del suo negozio, al n. 18 di Keystone
Crescent, dove pagavo 5 sterline la
settimana a una vecchia vedova italiana
che viveva sola con un figlio tassista che non ricordo di avere mai visto
(vedevo però, a volte, la sua Austin nera, inconfondibile e autorevole,
parcheggiata in uno sorta di parcheggio scoperto, interno al giardino della
casa).
Il
boss mi disse che avrei aiutato il vecchio Jim “downstairs”. Nel seminterrato
della fabbrica delle pizze c’era la cella frigorifero che conteneva il
formaggio “cheddar” che andava sulle pizze (al posto della nostra mozzarella).
Il gustoso formaggio inglese era contenuto in forme da cinquanta libbre (circa
25 chili). Noi dovevamo tagliare le forme
con un filo d’acciaio, per poi
infilarne i listelli ottenuti nell’enorme grattugia elettrica. Il formaggio
grattugiato veniva raccolto in grosse ceste di plastica e spedito di
sopra, alla catena di montaggio,
attraverso lo stesso montacarichi che io usavo per scendere. Quando il vecchio
Jim non riusciva a chiamare il montacarichi, che spesso veniva chiuso male
dagli operai che ricevevano il formaggio, soleva urlare come un dannato: “
Shut, boys, you know, that fucking door!”. Ce l’aveva soprattutto, il vecchio
Jim, con certi ragazzi egiziani che lavoravano di sopra. C’erano anche dei
ragazzi italiani, nella catena di montaggio, ma tutti sembravano avercela con
quegli egiziani (scoprii più tardi che erano egiziani di religione Copta).
Anche Pinto, l’altro grande vecchio della fabbrica, che fungeva da
magazziniere, mentre passava col suo
muletto per il carico e lo scarico delle merci, rivolgeva i suoi strali,
in una strana e buffissima lingua, tutta sua, frammista di italiano, portoghese e inglese, ai giovani egiziani, ai
quali, indistintamente diceva in tono canzonatorio, quando gli passava accanto: ” Ragassu arabu
comidu carne con culo e poi ditu ‘very gudy!’” . E ridacchiando si allontanava, sempre spingendo
il suo carrello e facendo finta di non sentire la risposta piccata di quelli.
Io mi
ero fatto crescere una gran barba nera e sbrigavo il mio lavoro agli ordini di
Jim che però non mi permise mai di entrare nella cella frigorifera e mi
rispettava in tutto e per tutto. La sera me ne stavo in camera a riposare e a
scrivere poesie. Solo il sabato mi concedevo un salto al pub a bere un paio di
birre.
Andò
così avanti per un paio di mesi. A un certo punto, stanco di stare solo anche
sul posto di lavoro, chiesi al boss di
poter cambiare “upstairs”. Il capo mi volle accontentare e così iniziai una
nuova vita.
Di
sopra lavoravano circa una dozzina di persone, tutti addetti alla catena di
montaggio. Gli Egiziani, circa la metà, si
occupavano di una parte importante della catena di montaggio, provvedendo alla
sistemazione delle pizze nel nastro
trasportatore, verificando che il pomodoro cadesse regolarmente e provvedendo a
spalmarlo sulla pizza, mischiandolo con il conservante, tramite l’azione di un
cucchiaione di metallo; successivamente aggiungevano il formaggio cheddar già
grattugiato in precedenza e infine sorvegliavano che il cellofan avvolgesse
correttamente le pizze nei due gusti previsti: plain pizza e pizza ai peperoni.
Essi facevano gruppo a sé, sia in fabbrica, sia fuori, ma con gli italiani fu più facile fare
amicizia. L’altra metà degli addetti alla catena di produzione che trovai di
sopra era infatti costituita da italiani di diversa provenienza.
Questi
ragazzi si occupavano invece del settore artigianale relativo alla
panificazione e alla cottura delle pizze. Si iniziava con preparare l’impasto,
versando in una impastatrice le quantità previste di farina, sale, acqua e lievito. Quando l’impasto era pronto si
provvedeva a ricavarne le forme circolari, decisamente di diametro inferiore al
formato delle classiche pizze che in Italia vengono servite nei ristoranti e
più tardi confezionate dalle grandi case del settore alimentare. Le forme
venivano poste nelle grandi teglie di metallo che altro non erano se non i
ripiani dei carrelli che successivamente andavano inseriti nei forni per la
cottura. Ogni carrello aveva una decina di ripiani, ciascuno dei quali
conteneva una dozzina di pizze. Una volta ottenuta la cottura, le pizze erano pronte per essere trasferite, spingendo
a braccia i carrelli sino al settore dove iniziava la preparazione che ho già
descritto, con l’avvio del nastro trasportatore gestito dai colleghi egiziani.
Io
venni aggregato al settore panificazione dove imparai presto le varie fasi
della lavorazione. Il mio istruttore fu un ragazzo romano, garbato e
calmo, che si chiamava Franco. Fu lui
che mi indicò cosa e come fare, ma lo fece con gentilezza e senza mostrarsi
saccente o supponente come spesso accade nei luoghi di lavoro nei confronti dei
nuovi arrivati. Fra gli altri italiani
che ricordo c’era Marco, un ragazzone
gioviale e simpatico che veniva da La Spezia; ricordo anche Natale, un veneto
che aveva due grandi amori: le moto e l’hashish; non saprei dire quale delle
due passioni gli costò la vita, forse furono entrambe; morì infatti in sella
alla sua moto, qualche tempo dopo, in seguito a un incidente stradale di cui
non seppi mai l’esatta dinamica. C’era poi Arturo, un ventottenne alquanto
originale, forse emiliano o romagnolo. Ricordo che portava un orecchino pendente all’orecchio
sinistro che quasi gli aveva staccato il lobo, capelli lunghi e
denti gialli e piccoli, corrotti sicuramente dal fumo delle sigarette
che fumava in continuazione. Aveva sul viso una perenne espressione di estasi
che, con qualche malevolenza, si sarebbe anche potuta descrivere ebete o assente; non di meno egli svolgeva il
suo lavoro con efficienza, seppure assorto in quella sua aria di eterno
estraniamento che interrompeva soltanto per gridare “trolley”, con cui invitava
qualcuno a ritirare i carrelli con le pizze appena sfornate, indicando al
contempo che necessitava di un altro carrello vuoto. Dopo gli si ristampava in
viso quel sorriso estatico che i miei compagni di lavoro, senza che io li
sollecitassi, attribuivano ai suoi abusi di sostanze stupefacenti varie e non
meglio identificate. Vi era infine un altro ragazzo di Roma, Giorgio, che lo
stesso Franco aveva introdotto in fabbrica e di cui avrò modo di parlare in seguito.
Per adesso dirò soltanto che si trattava di un ragazzo moro, non di eccelsa
statura, ma con gli occhi svegli di chi la sa davvero lunga. Le vecchie zie di
una volta lo avrebbero definito una simpatica canaglia.
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