mercoledì 26 dicembre 2018

Memorie di scuola - Volume Secondo



La paga era di 40 sterline la settimana e non era davvero male per otto ore di lavoro, da lunedì a venerdì. Per far quadrare meglio i conti il mio amico e benefattore marchigiano mi suggerì e mi trovò egli stesso una camera ammobiliata, proprio dietro l’angolo del suo negozio, al n. 18 di Keystone Crescent, dove  pagavo 5 sterline la settimana a una vecchia vedova  italiana che viveva sola con un figlio tassista che non ricordo di avere mai visto (vedevo però, a volte, la sua Austin nera, inconfondibile e autorevole, parcheggiata in uno sorta di parcheggio scoperto, interno al giardino della casa).
Il boss mi disse che avrei aiutato il vecchio Jim “downstairs”. Nel seminterrato della fabbrica delle pizze c’era la cella frigorifero che conteneva il formaggio “cheddar” che andava sulle pizze (al posto della nostra mozzarella). Il gustoso formaggio inglese era contenuto in forme da cinquanta libbre (circa 25 chili). Noi dovevamo tagliare le forme  con un filo d’acciaio,  per poi infilarne i listelli ottenuti nell’enorme grattugia elettrica. Il formaggio grattugiato veniva raccolto in grosse ceste di plastica e spedito di sopra,  alla catena di montaggio, attraverso lo stesso montacarichi che io usavo per scendere. Quando il vecchio Jim non riusciva a chiamare il montacarichi, che spesso veniva chiuso male dagli operai che ricevevano il formaggio, soleva urlare come un dannato: “ Shut, boys, you know, that fucking door!”. Ce l’aveva soprattutto, il vecchio Jim, con certi ragazzi egiziani che lavoravano di sopra. C’erano anche dei ragazzi italiani, nella catena di montaggio, ma tutti sembravano avercela con quegli egiziani (scoprii più tardi che erano egiziani di religione Copta). Anche Pinto, l’altro grande vecchio della fabbrica, che fungeva da magazziniere, mentre passava col suo  muletto per il carico e lo scarico delle merci, rivolgeva i suoi strali, in una strana e buffissima lingua, tutta sua,  frammista  di italiano,  portoghese e inglese, ai giovani egiziani, ai quali, indistintamente diceva in tono canzonatorio,  quando gli passava accanto: ” Ragassu arabu comidu carne con culo e poi ditu ‘very gudy!’” . E  ridacchiando si allontanava, sempre spingendo il suo carrello e facendo finta di non sentire la risposta piccata di quelli.
Io mi ero fatto crescere una gran barba nera e sbrigavo il mio lavoro agli ordini di Jim che però non mi permise mai di entrare nella cella frigorifera e mi rispettava in tutto e per tutto. La sera me ne stavo in camera a riposare e a scrivere poesie. Solo il sabato mi concedevo un salto al pub a bere un paio di birre. 
Andò così avanti per un paio di mesi. A un certo punto, stanco di stare solo anche sul posto di lavoro,  chiesi al boss di poter cambiare “upstairs”. Il capo mi volle accontentare e così iniziai una nuova vita.
Di sopra lavoravano circa una dozzina di persone, tutti addetti alla catena di montaggio. Gli Egiziani, circa la metà,  si occupavano di una parte importante della catena di montaggio, provvedendo alla sistemazione  delle pizze nel nastro trasportatore, verificando che il pomodoro cadesse regolarmente e provvedendo a spalmarlo sulla pizza, mischiandolo con il conservante, tramite l’azione di un cucchiaione di metallo; successivamente aggiungevano il formaggio cheddar già grattugiato in precedenza e infine sorvegliavano che il cellofan avvolgesse correttamente le pizze nei due gusti previsti: plain pizza e pizza ai peperoni. Essi facevano gruppo a sé, sia in fabbrica, sia fuori,  ma con gli italiani fu più facile fare amicizia. L’altra metà degli addetti alla catena di produzione che trovai di sopra era infatti costituita da italiani di diversa provenienza.
Questi ragazzi si occupavano invece del settore artigianale relativo alla panificazione e alla cottura delle pizze. Si iniziava con preparare l’impasto, versando in una impastatrice le quantità previste di farina, sale, acqua  e lievito. Quando l’impasto era pronto si provvedeva a ricavarne le forme circolari, decisamente di diametro inferiore al formato delle classiche pizze che in Italia vengono servite nei ristoranti e più tardi confezionate dalle grandi case del settore alimentare. Le forme venivano poste nelle grandi teglie di metallo che altro non erano se non i ripiani dei carrelli che successivamente andavano inseriti nei forni per la cottura. Ogni carrello aveva una decina di ripiani, ciascuno dei quali conteneva una dozzina di pizze. Una volta ottenuta la cottura,  le pizze erano pronte per essere trasferite, spingendo a braccia i carrelli sino al settore dove iniziava la preparazione che ho già descritto, con l’avvio del nastro trasportatore gestito dai colleghi egiziani.
Io venni aggregato al settore panificazione dove imparai presto le varie fasi della lavorazione. Il mio istruttore fu un ragazzo romano, garbato e calmo,  che si chiamava Franco. Fu lui che mi indicò cosa e come fare, ma lo fece con gentilezza e senza mostrarsi saccente o supponente come spesso accade nei luoghi di lavoro nei confronti dei nuovi arrivati. Fra gli  altri italiani che ricordo c’era Marco,  un ragazzone gioviale e simpatico che veniva da La Spezia; ricordo anche Natale, un veneto che aveva due grandi amori: le moto e l’hashish; non saprei dire quale delle due passioni gli costò la vita, forse furono entrambe; morì infatti in sella alla sua moto, qualche tempo dopo, in seguito a un incidente stradale di cui non seppi mai l’esatta dinamica. C’era poi Arturo, un ventottenne alquanto originale, forse emiliano o romagnolo. Ricordo che portava  un orecchino pendente  all’orecchio  sinistro che quasi gli aveva staccato il lobo, capelli lunghi  e  denti gialli e piccoli, corrotti sicuramente dal fumo delle sigarette che fumava in continuazione. Aveva sul viso una perenne espressione di estasi che,  con qualche malevolenza,  si sarebbe anche potuta descrivere  ebete o assente; non di meno egli svolgeva il suo lavoro con efficienza, seppure assorto in quella sua aria di eterno estraniamento che interrompeva soltanto per gridare “trolley”, con cui invitava qualcuno a ritirare i carrelli con le pizze appena sfornate, indicando al contempo che necessitava di un altro carrello vuoto. Dopo gli si ristampava in viso quel sorriso estatico che i miei compagni di lavoro, senza che io li sollecitassi, attribuivano ai suoi abusi di sostanze stupefacenti varie e non meglio identificate. Vi era infine un altro ragazzo di Roma, Giorgio, che lo stesso Franco aveva introdotto in fabbrica e di cui avrò modo di parlare in seguito. Per adesso dirò soltanto che si trattava di un ragazzo moro, non di eccelsa statura, ma con gli occhi svegli di chi la sa davvero lunga. Le vecchie zie di una volta lo avrebbero definito una simpatica canaglia.
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