Memorie di scuola
Ricordi di uno scolaro senza tempo dalle
elementari alla cattedra, passando per le scuole medie, l’università e per
le molte altre scuole della vita
di ignazio salvatore basile
Parte Prima
Premessa
Alzi la mano chi non ricorda con gioia un suo ultimo giorno di
scuola!!! Magari soltanto uno particolare, alle elementari, alle scuole medie inferiori
oppure alle superiori, che si chiudevano con il famigerato, temuto esame di
maturità (oggi si chiama esame di stato, ma sempre quello è)!
Come studente io ne ricordo diversi. Tutti sono ammantati da un
velo di malinconia. In fondo a scuola ci stavo bene. I maestri (ma un anno ho
avuto anche una maestra, in quarta elementare, si chiamava maestra Soro) mi
volevano bene.
In seconda media ho
cambiato tre scuole; il mio anno si concluse in una scuola siciliana; il
mio compagno di banco, un ragazzone di nome Armando figlio di emigrati
rientrati dall’Argentina, si sorprese nel vedere nei tabelloni, non tanto
il suo nome tra i bocciati, quanto piuttosto il mio tra i promossi.
Ci avevano sistemato all’ultimo banco: io dalla Sardegna, lui
dall’Argentina; in qualche modo eravamo entrambi di ritorno: io, figlio di un
siciliano nostalgico, lui figlio di siciliani forse stanchi di parlare
castigliano in quelle sterminate pampas sudamericane. A quel tempo recuperi e
svantaggi non erano presi in considerazione. Chi seguiva bene, chi non seguiva
veniva bocciato. Ma io ero troppo orgoglioso per farmi bocciare. Avevo le mie
mosse segrete, i miei guizzi, le mie intuizioni, il mio spirito di
sopravvivenza che mi guidava, a scuola, come fuori; per i miei
compagni siciliani ero “u sardignolu”
anche se portavo un cognome siciliano; e il mio accento ed il mio orgoglio
erano palesemente sardi, pur se il mio DNA era avvolto anche in spire normanne,
o forse arabe, o chissà, persino spagnole o napoletane. Non credo faccia molta
differenza sul piano biologico.
Mi rendo conto di aver divagato, sulle ali della memoria; forse
sto invecchiando.
Quest’anno sto per restituire il mio trentunesimo registro del
professore (più o meno; il conto preciso degli anni di insegnamento preferisco
farlo in prossimità della pensione; traguardo che la riforma Fornero, sembra
avere spostato irrimediabilmente in avanti; staremo a vedere). Certamente
rilevo una fondamentale differenza tra l’ultimo giorno di scuola da studente e
quello da insegnante.
Nel primo caso, come dicevo, prevaleva la malinconia, lo
smarrimento, la prospettiva dei giorni estivi, lunghi e solitari (ma perché da
adolescenti non si capisce il grande valore del tempo? Naturalmente sto
parlando solo per me); l’ultimo giorno di scuola da insegnante, insieme ad un
senso di liberazione della fatica dell’orario di cattedra, fatto di spiegazioni
ed interrogazioni che si susseguono in un turbine di eventi, ha anche il sapore
degli scrutini e degli esami di maturità. E l’estate, adesso, dura troppo poco.
Capitolo Primo
1.
Le Elementari
Anno scolastico 1960-1961
I miei
ricordi di scuola più lontani son legati a cinque colori. Il primo fiocco,
quello della prima elementare, nell’anno scolastico 1960-61, era di colore
rosa.
Ricordo anche un grembiule nero con le tasche; dei quaderni dalla
copertina nera; un banco di legno a due posti, con il piano inclinato, troppo
alto per la maggior parte di noi. In cima al banco, sul bordo superiore, una
scanalatura che ospitava, per ogni scolaro, la stilo e un foro dal diametro di circa
cinque centimetri dove alloggiava il calamaio con l’inchiostro nero.
All’estremità inferiore della stilo un foro serviva per fissarvi il
pennino. Si intingeva il pennino nel calamaio e si facevano delle pagine di
aste, di quadrotti e di circoletti; per giornate intere; in classe e a casa;
quaderni interi di aste, cerchietti e quadrotti; poi si passava alle lettere
dell’alfabeto: vocali e consonanti; maiuscole e minuscole, in sequenza;
quaderni interi: in classe e a casa.
L’ultimo foglio del quaderno riportava le tabelline:
occorreva mandarle giù a memoria; in classe e a casa: quella del 2, poi quella
del 3, quella del 4 e così via. Il mio maestro della prima elementare si
chiamava Giorgio Maxia. Era figlio di ricchi possidenti: lui e suo fratello
avevano studiato entrambi ed erano divenuti insegnanti grazie al diploma
quadriennale delle Scuole Magistrali. Le loro terre le lavoravano i mezzadri
(poco più di vent’anni dopo, nel 1982, la legge De Marzi-Cipolla avrebbe
abolito quell’istituto giuridico così atavico e forse troppo punitivo per i
braccianti senza terra e senza lavoro. Ma a quel tempo io certe cose non
le pensavo nemmeno).
Il mio maestro mi apprezzava molto; me lo dimostrava quando, a
fine mattinata, mi assegnava la tessera del refettorio scolastico
comunale di qualche bambino titolare che fosse risultato assente a scuola.
Allora, anziché rientrare a casa, me ne andavo alla mensa comunale: con quella
tessera mi spettava un pasto completo: la pastasciutta la saltavo perché
sembrava un impasto di colla; se c’era la minestra di riso oppure il
minestrone, invece, lo mangiavo volentieri; scartavo anche la fettina, che
assomigliava spesso ad una suola di scarpa e le uova sode, che
all’interno si presentavano con un colore verde-giallo poco rassicurante;
neanche il formaggino, a volte striato di verde sotto la confezione, mi
attirava. Ciò che mi attirava di più erano certi panetti di marmellata di una
nota casa svizzera: delle vere leccornie!!! Quella confezione da sola valeva il
mio viaggio alla mensa scolastica.
Quando mi vedeva in piazza, il mio maestro, mi mandava al
tabacchino a compragli le sigarette. Fumava le Alfa; sul pacchetto bianco
spiccava infatti una lettera Alfa dell’alfabeto greco dal colore rosso. Da
grande ho scoperto che quelle sigarette facevano letteralmente schifo,
peggio anche delle Nazionali senza filtro; o forse ero solo viziato dalle
Esportazioni con filtro e dalle Diana che scroccavo, di nascosto, a mio padre e
ai miei fratelli. Mi dava centocinquanta lire e mi regalava le venti lire di
resto. Era il suo modo per dimostrarmi la sua simpatia ed il suo apprezzamento
per l’impegno scolastico. Quel ventino dal colore di bronzo mi rendeva felice e
correvo subito a comprarmi delle caramelle e un cono di zucchero da dieci lire.
Ma se si era a Carnevale allora mi compravo una
maschera da cow-boy con l’elastico ai lati (la seconda scelta era la maschera
da indiano Sioux) e un pacchetto di coriandoli.
Quando pioveva, la strada per raggiungere la scuola diventava una
pozzanghera. I marciapiedi non esistevano ancora al mio paese e le strade, per
la maggior parte, non erano asfaltate. Mio padre mi regalò un paio di stivali
di gomma affinché non restassi con i piedi bagnati tutta la mattina e non
rovinassi le scarpe (che comunque non erano certo le scarpe da passeggio che si
usano oggidì).
Ricordo che il Comune distribuiva alle famiglie dei bisognosi
delle scarpe. Io mi ritenevo fortunato: la mia famiglia, pur essendo
assai numerosa, era considerata benestante. Anche se mio padre ripeteva
che i veri ricchi erano i proprietari terrieri che risultavano sconosciuti al
Fisco e non presentavano neppure la dichiarazione dei redditi. Mio padre era un
commerciante; uno di quei grandi uomini che, nel loro piccolo, con inenarrabili
sacrifici e tanto lavoro, hanno contribuito a ricostruire l’Italia distrutta
dalla guerra. Lui però rimpiangeva la vita militare e i gradi di maresciallo
che aveva abbandonato, con stipendio sicuro, malattia e ferie pagate.
Malediceva sempre il governo che, non ho mai capito con quale diabolico
stratagemma, lo aveva convinto a cancellarsi dagli albi degli artigiani (lui che
aveva le mani d’oro di orologiaio) per convincerlo a divenire un commerciante.
Col senno di poi, capisco però che con quel capitale che aveva
immobilizzato nel negozio (tra oreficeria, gioielleria, articoli da regalo,
sveglie e orologi) a quei tempi, quando i titoli di stato spuntavano un tasso
annuale del 15%, avremmo potuto vivere di rendita. Ma la generazione di mio
padre (ed il suo carattere fondamentalmente onesto, unito alla mentalità
biblica del piacere-dovere di guadagnarsi il pane col sudore della fronte) era
fatta di una tempra dura, tutta casa e lavoro. Sarebbe stato impensabile
mangiare senza lavorare.
Ma il boom covava sotto le ceneri dell’Italia distrutta dalla
guerra. L’Italia, in quegli anni, gettava le basi per la crescita enorme che
sarebbe passata alla storia con il nome di “boom economico”
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