10.26.2025

La vita va così, recensione


Se dovessi scegliere un sottotitolo per questo bel film di Riccardo Milani sulla Sardegna e sui Sardi, direi che la sua visione mi ha richiamato alla mente la "Costante Resistenziale Sarda" di Giovanni Lilliu.

Così come le popolazioni nuragiche si ritirarono nell'entroterra montagnoso del centro Sardegna,  per sfuggire alle razzie che venivano dal mare, così Efisio Mulas, l'eroico pastore, personaggio principale della pellicola, si è chiuso in sé stesso, nella sua enclave, insieme culturale, economica e sociale, per resistere alla cementificazione che pretendeva di comprare, a qualunque prezzo, la sua vita, le sue abitudini, il suo mondo.

Il film prende spunto da una storia vera. Il personaggio reale, che Michela Murgia avrebbe voluto nominare personaggio dell'anno in Sardegna, al suo posto, nel 2011,  si chiamava Ovidio Marras.

Ovidio Marras era  un imprenditore agricolo sardo che all’epoca dei fatti aveva 81 anni e che viveva e lavorava a Teulada, in provincia di Cagliari.

Ovidio percorreva da decenni una via per spostare le sue greggi. A un certo punto un’impresa edile, che stava costruendo un imponente insediamento turistico vicino ai suoi terreni, aveva occupato abusivamente quella strada che egli utilizzava per portare al pascolo le sue pecore.

Il coraggioso e anziano pastore naturalmente ha protestato. Il colosso dell’edilizia, dall’alto della sua potenza economica, ha pensato che avrebbe potuto comprare il consenso di Ovidio.

E quando mai s’è visto un pastore sardo capace di fermare il progresso economico?

Questi arcaici pastori sono stati tacitati a Ottana, a Portotorres, e nei numerosi terreni che ora sono chiamati ” Costa Smeralda”; perché non possiamo comprarli a Teulada? Noi siamo il progresso, portiamo posti di lavoro, civiltà, soldi.

Ma Ovidio non ha voluto i loro soldi e si è rivolto al Tribunale che ha ordinato all’impresa di rimuovere le opere abusive e di riportare al ripristino stato la morfologia del terreno (rendendo nuovamente agibile la strada campestre a favore di Ovidio Marras).

Questa è la storia che ha reso famoso, in tutto il mondo, Ovidio Marras, facendolo assurgere a modello di sfida e resistenza contro i poteri forti, quasi un novello Davide che abbatte il protervo Golia. 
Da lì ha preso spunto la pellicola di Riccardo Milani, tutto sommato abbastanza fedele, seppure romanzata per ovvie ragioni di narrativa cinematografica.
Quello che piace nella vicenda di Ovidio Marras, e rende godibile anche il film "La vita va così", dove l'eroe assume il nome più rappresentativo di Efisio, è proprio questa sfida impari, tra un gigante dell'edilizia e della cementificazione, e un piccolo pastore semianalfabeta che chiede soltanto di continuare a vivere come ha sempre vissuto.
A parer mio è lo stesso sentimento che ha portato sulle piazze, alcune settimane fa, masse di giovani proPal, offese, turbate, scandalizzate, dalla truculenta vendetta che il gigante israeliano ha inteso scaricare sulla popolazione inerme di Gaza, invece di indirizzarla, casomai, contro i  codardi terroristi di Hamas.
Ma sarebbe un errore fermarsi a una lettura univoca e semplicistica. La pellicola di Milani merita e contiene più di una chiave di lettura. 
In gioco, sullo schermo e nelle immagini del film, c'è  la dignità di essere uomini fino in fondo, restando coerenti alle proprie idee, anche di fronte a delle offerte che farebbero impallidire persino un vescovo (come accade, simpaticamente nella vicenda cinematografica). 
Non a caso, alla fine della proiezione, leggiamo la dedica che il regista ha fatto a Gigi Riva (Milani ha diretto anche "Nel cielo si ode un rombo di tuono") l'indimenticato campione del Cagliari dello Scudetto 1969-1970). 
Anche nel caso del grande campione sardo-lombardo  Luigi Riva ci trovammo di fronte a un uomo che rifiutò dei miliardi di lire, pur di restare fedele e coerente alle proprie idee.
E la mia mente corre a un altro grande sardo di adozione: Fabrizio De André, che non cessò di amare la Sardegna più autentica e i Sardi più veri, anche quando dei falsi balentes lo vollero privare della libertà per alcuni mesi, al fine di estorcere a lui e alla sua famiglia dei denari in forma di riscatto.
Insomma, il film, al di là di qualche ingenuità che si può e si deve facilmente perdonare, è ben strutturato e offre molteplici chiavi di lettura.
A prima vista, quel che colpisce lo spettatore,   è la contrapposizione tra due mondi: il progresso, che però distrugge e violenta la Natura, promettendo, come alibi ipocrita e paternalistico,  posti di lavoro e benessere per tutti, e la vita semplice di un pastore umile, quasi prigioniero, ma fiero e orgoglioso, dei suoi ritmi e delle sue arcaiche consuetudini, simboleggiati nella pellicola dai pomodori seccati al sole, dal desinare spartano, al fuoco del camino, dai canti semplici e dai dialoghi che al pastore riescono scorrevoli e spontanei  più con le sue bestie che con il resto del mondo, compresi i suoi stessi familiari.
Ma ripeto che sarebbe un errore fermarsi a questa lettura superficiale e romantica della pellicola, che pur da sola basterebbe a giustificarne l'esistenza.
Qui, però, nella fattispecie in esame, siamo di fronte a un discorso che deve necessariamente volare più in alto. Quel che voglio dire è che qui lo scontro è tra due modelli di civiltà: da un lato quella agropastorale sarda, mai realmente riconosciuta ed apprezzata (ancora poco tempo fa, un amico scrittore di Bonorva, mi ricordava come a Torino, dove era emigrato per lavorare come operaio alla Fiat, al suo passaggio, molti colleghi lo accompagnassero, a mo' di sberleffo,  con il belato delle pecore) eppure ricca di una cultura millenaria che ha saputo esprimere l'immortale civiltà nuragica e che ancora resiste e sopravvive nei cuori dei Sardi più autentici come un modello di valori che andrebbero rivalutati, in primis, da noi stessi Sardi (ma ben vengano i Riva, i De André e i Milani, oltre che i Marras, a ricordarcelo); dall'altro il modello capitalistico, sensibile soltanto al profitto, all'apparenza, alla superficialità, ai facili guadagni e ai lussi, tutti valori che appaiono decadenti e che non lasciano spazio ad altri sentimenti.
Questa è, secondo me, la riflessione più profonda e vera che il film di Riccardo Milani invita a fare; e non è detto che sia rivolta soltanto ai Sardi, perché il discorso è universale.
Bravi anche gli interpreti: il pastore Giuseppe Ignazio Loi, che ha interpretato sé stesso in maniera egregia; Virginia Raffaele che si è superata nel linguaggio e nella gestualità (all'inizio del film pensavo che fosse doppiata, invece la voce è propria la sua; davvero complimenti). 
Ma anche gli altri attori non hanno certo sfigurato: Diego Abatantuono, una conferma,  se ancora ne avessimo avuto bisogno; Aldo Baglio del famoso trio siculo-lombardo Aldo, Giovanni e Giacomo; Geppi Cucciari, e in pregevoli cammei Jacopo Cullin, Massimiliano Medda e Gabriele Cossu e via, via tutti gli altri, Sardi e continentali, che qui non elenco per paura di dimenticarne qualcuno. 
Una chicca che impreziosisce la pellicola, infine, è la colonna sonora di Moses Concas, magistralmente eseguita dallo stesso autore, in un finale travolgente.

Ignazio Salvatore Basile



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