Capitolo Ottavo
Le Scuole superiori
Prima Ragioneria
Anno scolastico 1968-69
La brillante prova di settembre confermò nei miei genitori la
volontà di farmi proseguire negli studi.
Certo il liceo classico me l’ero giocato con il comportamento da
scansafatiche messo in atto nel precedente anno scolastico; ma non mi andava
neppure di seguire il suggerimento del consiglio di classe che, sin da giugno,
aveva raccomandato, in caso di promozione, l’iscrizione alla scuola professionale.
Mia madre non aveva rinunciato alla speranza di vedermi
all’università, mentre mio padre sperava di fare di me almeno un contabile per
la sua azienda che, con le sue fondate e legittime ambizioni, sognava ancora di
ingrandire e potenziare.
Io, dal canto mio, speravo di dimostrare che in matematica non ero
poi così scarso e che ero stato ingiustamente penalizzato dal mio carattere
irrequieto (e, secondo mia madre, dalla piccineria e dalla mala fede di quel
docente, aspirante acquirente di oggetti preziosi rateizzati).
Fu raggiunto così un compromesso che sembrava accontentare tutti:
sarei stato iscritto alla Ragioneria.
A quel tempo, nel 1968, per chi dal mio paese volesse frequentare
un Istituto Tecnico Commerciale per Ragionieri e per Periti Commerciali (come
recitava la pomposa definizione amministrativa delle scuole per ragionieri),
doveva recarsi obbligatoriamente a Cagliari. La scuola per ragionieri di
Decimomannu, dove poi, ironia della sorte, avrei insegnato discipline
giuridiche ed economiche per oltre trent’anni, sarebbe sorta soltanto nel 1983,
mentre Sanluri e San Gavino sarebbero state delle sedi ben più distanti e
scomode rispetto al capoluogo.
Mia madre mi portò personalmente all’Istituto Pietro Martini, che
a Cagliari godeva fama di essere il migliore per formare gli esperti della
contabilità.
Ma al Martini non c’era posto e non accettarono la mia iscrizione,
in quanto tardiva. Occorre infatti ricordare che a quel tempo l’obbligo
scolastico finiva ai quattordici anni e quindi, a gennaio dell’anno scolastico
di provenienza, non era obbligatorio per i genitori effettuare un’iscrizione,
né per gli istituti superiori accettare le iscrizioni dei ragazzi che
frequentavano la terza media. Adesso le cose sono alquanto cambiate, essendo
stata elevata a sedici anni l’età dell’obbligo di frequenza scolastica.
Al Martini, con aria di sufficienza, ci dissero che forse al
“Leonardo da Vinci” ci sarebbe stato un posto per me (ho scoperto da poco che il
pomposo Martini, ha dovuto sloggiare
dalla sua sede storica di via Sant’Eusebio per trasferirsi in viale Ciusa 4,
dove un tempo c’era proprio il Leonardo
da Vinci, oggi accorpato ad altri istituti tecnici per ragionieri).
Al Leonardo da Vinci per fortuna il posto per me c’era. Così venni
iscritto in quella scuola.
Il Leonardo da Vinci era sorto successivamente al Martini, in un’area di forte espansione urbanistica,
ancora in agro di Cagliari, ma con vocazione a servire gli utenti del popoloso
hinterland cagliaritano: la popolosa frazione di Pirri (che da sola contava,
sin da allora, oltre 30.000 abitanti);
Monserrato, che aveva riacquistato l’autonomia amministrativa dopo i rigori del
fascismo, che l’aveva declassato a frazione di Cagliari; Quartu S.Elena, che si
avviava a divenire la terza città più abitata della Sardegna (dopo Cagliari e
Sassari e prima di Nuoro e Oristano).
In quegli anni, sulle ali
del boom economico, il nuovo tessuto commerciale che si era costituito nella
nostra Isola (come, ovviamente e ancor di più, nel resto d’Italia) e la voglia
di riscatto sociale delle generazioni sopravvissute al Fascismo e alla Seconda
Guerra Mondiale, avevano fatto crescere la domanda di una istruzione utile e
concreta, con un titolo di studio capace di fornire uno sbocco professionale
immediato senza l’obbligo di proseguire negli studi universitari (come era al
tempo per quegli studenti che frequentavano i licei). E la figura professionale del
ragioniere, così ricca di storia e di fascino, sembrava incarnare l’ideale
della nuova classe sociale di commercianti e artigiani, che sognavano per i
loro figli, una carriera in banca o in ufficio, con il colletto bianco, le mani pulite e lo stipendio sicuro.
Professione oggi purtroppo tramontata, come dimostrano impietose le statistiche
del ministero della pubblica istruzione, favorevoli ai licei, da quelli
classici, artistici e scientifici, ai
più moderni linguistici, pedagogici e
musicali. Qualcuno li chiama i corsi e i ricorsi della storia.
Ma all’orizzonte si
addensavano delle nuvole cupi e dense: il sessantotto stava per arrivare.
Dopo alcuni giorni, infatti, trovammo l’ingresso presidiato dai
picchetti degli studenti scioperanti che impedivano l’accesso a qualunque
studente, lasciando passare soltanto i docenti che non fossero già entrati con
l’auto attraverso il carraio.
Le parole d’ordine che giravano tra gli studenti erano diverse e
alle mie orecchie di studentello di primo pelo, suonavano quasi come oracoli di
una divinità lontana e misteriosa. Alcuni sembravano anche semplici, nella loro
formulazione: “Diritto allo studio”; “Scuola per tutti“; altri erano rivestiti
di un’aurea quasi mitica:”Fuori i baroni dalla scuola” (più tardi scoprii che
lo slogan era rivolto all’università e che il barone Siviller, che al mio paese
era stato degradato dai Savoia al loro arrivo in Sardegna, all’inizio del ’700,
colpevole soltanto di essere da sempre fedele ai sovrani iberici, non c’entrava
per niente); “Assemblea Permanente”; “Potere Operaio”; “Lotta Continua”; “Morte
ai fascisti”; “Boia chi molla“.
Insomma gli slogans che si urlavano fuori dalla scuola erano tanti
e per me, tutti, o quasi tutti, ancora incomprensibili.
Venivano anche distribuiti dei volantini in ciclostile.
Io li leggevo con curiosità. Mi piacevano quelle cose che c’erano
scritte e che parlavano dei grandi sistemi con roboanti paroloni; conobbi così
le grandi correnti di pensiero nazionale ed internazionale: il capitalismo
sfruttatore degli Agnelli; il colonialismo degli USA invasori; il libretto
rosso di Mao; la riscossa di Ho-Chi-Min; le speranze rosse, bruciate con Ian
Palach nella primavera di Praga.
I miei idoli giravano in Eskimo con il giornale di Lotta Continua
sotto il braccio (qualcuno aveva Potere Operaio).
Per soggezione o non so per quale altra ragione decisi che per me
era giusto aderire allo sciopero.
Più che capire intuivo, forse con un istinto primordiale,
che il mondo era più complesso di come me lo avevano descritto al
Catechismo; o di quello che avevo studiato nei miei recenti trascorsi
scolastici.
Intuivo che vi erano degli oppressi e degli oppressori; dei ricchi
privilegiati e dei poveri, condannati a
subire dalla nascita modesta; dei poteri, più o meno occulti, che sfruttavano e
godevano le ricchezze del mondo, approfittando dell’ignoranza delle masse
indistinte, degli oppiati della religione, di quelli che non capivano i
meccanismi complessi del potere; e vi era gente che non si rassegnava e voleva
lottare per un mondo migliore.
Ed io volevo appartenere a quelli che avrebbero lottato per un
mondo migliore.
Ero davvero affascinato dai grandi oratori (quelli delle
classi superiori) che arringavano noi matricole delle prime classi e tutti gli
altri studenti, alla ribellione e allo sciopero.
Nel mio intimo pensavo che un giorno avrei anche io desiderato
essere un leader di quel genere ed avere il coraggio di parlare in pubblico, ad
alta voce e di organizzare i cortei per la città contro il sistema, contro i
corrotti democristiani, contro la guerra nel Vietnam, contro il perbenismo,
contro i fascisti, contro le classi sociali, contro il capitalismo che
sfruttava gli operai e bruciava il futuro dei giovani.
Insomma, contro tutto e contro tutti. Io facevo miei quegli slogan
urlati al megafono e stampati nei volantini.
Tanto per cominciare e per vincere la mia timidezza (nonché
per consentire ai miei genitori di risparmiare sull’acquisto dei libri)
mi cimentai nella compravendita dei libri usati.
Avevo ancora tanto da fare e da studiare per diventare come loro.
E se volevo un domani essere ascoltato dagli altri, anche io dovevo progredire
negli studi.
Andò avanti così per qualche giorno fino a quando alcuni
signori (più tardi capii che si trattava
di agenti della Digos in borghese), spiegarono agli studenti che facevano servizio
di picchetto al cancello, che avrebbero dovuto lasciare libero l’ingresso e
consentire a chi non avesse voluto aderire allo sciopero, di entrare a scuola.
Anche se, a onor del vero, per non rischiare di venire scambiato
per un fascista o, peggio ancora, di venire considerato un boia, attesi prima
di rientrare che un buon numero di studenti, vecchi e nuovi, fosse deciso a
interrompere la protesta, con la promessa che il Preside avrebbe concesso un
certo numero di assemblee per poter discutere i problemi della scuola e di noi
giovani studenti, se avessimo ripreso prontamente la frequenza (che per noi “primini” non era
invero mai iniziata).
Così scoprii finalmente la mia classe. Si trattava di una prima
super affollata. Eravamo oltre trenta, per lo più di sesso femminile. i miei
compagni e le mie compagne venivano quasi tutti da Quartu S.E., da Pirri (che,
precisavano i Pirresi, è come se fosse Cagliari; anzi “Pirri è’ Casteddu!),
Selargius, Monserrato.
Le ragazze avevano ancora l’obbligo del grembiule nero, con il
nome e la classe cuciti in alto destra, mentre noi ragazzi, al contrario di
quelli del Martini (costretti a recarsi a scuola in giacca e cravatta), non
avevamo alcun obbligo di forma nel vestire (l’obbligo sarebbe caduto anche per
le ragazze, di lì a poco, quantomeno nel nostro istituto).
Mi ero già affezionato a questa classe allegra e rumorosa; mi ero
già innamorato (senza che loro ne sapessero niente) di tre o quattro compagne e
di una o forse due professoresse particolarmente giovani e carine. Mi piacevano
inoltre le lezioni di italiano, di storia, di inglese; un po’ meno quelle di
fisica e matematica, mentre mi affascinarono subito la dattilografia e la
stenografia (che più tardi, ma io ero già passato dall’altra parte della
barricata, sarebbero state soppiantate
dal “trattamento testi” e, più tardi ancora, sino ai nostri giorni,
dall’informatica); mi risultò invece ostica la computisteria, che negli anni
successivi si trasformava in “tecnica”, e tale antipatia durò per tutti e
cinque gli anni e si estese anche alla “ragioneria” (le due materie, oggi, si
studiano unificate sotto il nome di
“economia aziendale”).
Presto però arrivò la notizia che alcuni di noi sarebbero stati
trasferiti e smistati in altre classi di nuova formazione e che un certo numero
di classi avrebbe iniziato, con il sistema della rotazione, il doppio turno.
Ci fu spiegato infatti, in maniera alquanto sommaria e sbrigativa,
che le aule non erano sufficienti ad ospitare tutti gli iscritti, dato l’alto
numero dei nuovi studenti, e quindi, per evitare classi troppo numerose (più
tardi si sarebbero definite “classi pollaio”) avremmo dovuto alternarci nella
frequenza pomeridiana, dalle 14,30 alle 19,30. Tale turno avrebbe riguardato
ciascuna classe, ma soltanto per uno, massimo due mesi, all’anno.
Più avanti negli anni successe invece che alcuni corsi venissero
destinati a frequentare di pomeriggio tutto l’anno scolastico.
A parte il sonno, che mi assaliva nei pomeriggi di caldo (da marzo
a giugno, grosso modo) non mi potevo e
non mi volevo lamentare. D’altronde, potevo stare a letto un po’ di più al
mattino, per evitare di addormentarmi sul banco di scuola (cosa che in verità
non mi è mai accaduta).
Imparai con piacere tante cose: la stenografia, magica materia
ormai scomparsa, la dattilografia, che ha dovuto lasciare il posto alla più
complessa e misteriosa informatica; le scienze naturali, la geografia, la
matematica, la fisica, la chimica, la computisteria e il francese. Ma le mie
materie preferite erano la storia e l’italiano, dove in qualche modo, mi
distinguevo. Anche merito della mia professoressa che nel biennio era la moglie
di un alto magistrato cagliaritano, molto amorevole, paziente e capace.
La scuola mi piaceva. Ammiravo, in generale, tutti i professori e
pendevo dalle loro labbra. Ero assetato di sapere e alle spiegazioni stavo
sempre attento, perché volevo apprendere e non mi piaceva essere rimproverato.
Così mi misi a studiare.
A fine anno il preside mi regalò un dizionario di Oxford come
premio per essere stato promosso a giugno.
Nonostante le mie idee rivoluzionarie ero ancora un bravo ragazzo.
Nel corso dell’anno, questi scioperi sembravano ricorrenti, a
ondate. Sui muri di fronte alla scuola apparvero delle scritte che inneggiavano
al Movimento Studentesco e chiedevano di
liberare il Vietnam dagli USA.
I più attivi tra gli studenti giravano con un giornale sotto il
braccio che si chiamava Lotta Continua.
Io li invidiavo perché portavano i capelli lunghi, vestivano
alquanto trasandati e sembravano piacere a certe ragazze carine che io non
osavo nemmeno guardare.
Io già da allora cominciavo a soffrire di quegli inevitabili
complessi che colpiscono, in misura più o meno evidente, tutti gli adolescenti.
Il mio complesso più grande, in quel primo anno, era la mia statura. Non che fossi proprio
“piccolo” (avevo probabilmente già raggiunto il metro e sessanta) ma è
probabile che questo complesso ne nascondesse degli altri; ma io desideravo
tanto essere uno di quegli spilungoni che giravano con il giornale di Lotta
Continua sotto il braccio e che rimorchiavano sulle loro motociclette quelle
ragazze appariscenti che io sognavo di notte. Così, per sentirmi più grande e
più alto, presi a fumare regolarmente le sigarette che riuscivo a comprare coi
pochi soldi della mia paghetta (magari rinunciando al panino della
ricreazione).
Una sera di autunno, guardando alla lavagna, mi accorsi che non
riuscivo più a leggere nella lavagna (un’altro dei miei escamotages
per sentirmi più alto era stato quello di sedermi nell’ultimo banco;
infatti gli insegnanti, sin dal primo girono di scuola, non avevano fatto altro
che ripetere che i ragazzi più bassi si sarebbero dovuti sedere al primo
banco).
Mia madre mi portò subito dall’oculista per una visita: la
diagnosi cadde su di me impietosa come una mannaia; ero affetto da miopia ed
avrei dovuto mettere gli occhiali.
Mio padre, senza perdere tempo, mi portò nel negozio di Franz, in
via XX settembre (il negozio esiste ancora nella città di Cagliari). Scelsi gli
occhiali più economici perché non mi andava che mio padre spendesse dei soldi
per me. E naturalmente non seppi scegliere quelli più adatti al mio viso.
Gli occhiali furono per me un vero e proprio trauma che ho
superato soltanto in tardissima età. Io, abituato a fare a botte con tutti; a
tuffarmi nel fiume; a correre come un disperato dappertutto, come avrei fatto a
sopportare quel corpo estraneo? Questo nuovo complesso si sommò a quello
precedente rendendomi sempre più cupo e più scuro di carattere.
Intanto Nixon veniva eletto presidente degli Stati Uniti
d’America. Io lo conobbi attraverso una scritta che comparve in un muro
adiacente alla scuola. Vi era scritto “Nixon boia”.
A mio padre gli Americani non piacevano per niente (forse questo
era un retaggio della seconda guerra
mondiale, prima dell’Armistizio del 1943, quando l’Italia e gli USA
combattevano ancora su fronti contrapposti e lui fu mandato in Sardegna a
difendere certi siti minerari, che il regime considerava strategici per
l’economia dell’Italia in guerra, proprio dai raid aerei che i caccia bombardieri americani cominciarono a fare sin dal 1942).
Ma i capelloni, gli
anarchici, i comunisti, i preti che si vestivano alla moda, le donne in
minigonna, le femministe e le donne in cerca di emancipazione, le prostitute e
gli omosessuali a mio padre piacevano ancora meno.
Per cui maledì diecimila volte i giudici della Corte Costituzionale quando, sul finire del
1968, sentenziarono che era ingiusto
considerare il reato di adulterio in maniera differente, a seconda che a commetterlo
fosse un uomo oppure una donna.
Naturalmente mia madre fu invece d’accordo coi giudici della
Consulta.
Fu allora che mio padre cominciò
a maledire la democrazia (e il partito Democrazia Cristiana che più di tutti
sembrava incarnare la nuova frontiera della conquista delle libertà; anche se a riguardo della parità tra uomini e donne inveiva
maggiormente contro i socialisti e i comunisti) e cercò di convincere mia madre
a votare il Movimento Sociale Italiano.
Ma mia madre restò sempre fedele alla Democrazia Cristiana e si
rifiutò con determinazione di votare a
destra, anche se mio padre, in molte occasioni, ripeteva che la Destra avrebbe
portato ordine, disciplina, carceri dure, capelli corti e treni in orario.
Forse fu allora che io cominciai a prendere in considerazione
delle idee nuove e diverse da quelle che sembravano dividere i miei
genitori; idee che si andavano allora
diffondendo e che andavo imparando anche a scuola, attraverso il confronto con
i miei insegnanti e con i libri di scuola.
Molte persone, soprattutto tra i giovani, sono convinte che il ’68
sia stato un gran botto di cannone, i cui echi si sentono ancora nell’aria,
come una canzone che ci ricordi i bei tempi andati.
In realtà il ’68, almeno qui a Cagliari (e più in generale in
Italia) è stato soltanto l’inizio di un lungo e sofferto cammino che i giovani
della mia generazione (e quelli di qualche anno più grandi di me) hanno
percorso e vissuto attraverso diverse tappe; un decennio terribile, iniziato
nella gioia e nei colori del ’68 (che, a sua volta, affondava le sue radici
nella rivoluzione dei figli dei fiori di San Francisco e dintorni, della metà
degli anni sessanta, poi diramatosi in
mille rivoli, a Berkeley, a Seattle, a Woodstock) e sviluppatasi negli anni
successivi nelle lotte politiche e nei movimenti della sinistra
extra-parlamentare, per sfociare infine nelle sanguinarie azioni dei gruppi
armati, la cui deriva politica e storica, può farsi risalire al rapimento e alla barbara
uccisione dell’onorevole Aldo Moro (1978), la vittima innocente, l’agnello
sacrificale, il capro espiatorio di una classe politica cinica e corrotta che
ha segnato un’epoca.
A giugno, come già detto, fui promosso a pieni voti. I miei genitori, un
po’ per premio, un po’ perché la mia sorella maggiore era incinta del suo
primogenito ed aveva bisogno di aiuto,
mi mandarono nel Canavese, ove essa risiedeva dopo essersi sposata due
anni prima.
Mia sorella aveva spostato un uomo più grande di lei di una
ventina d’anni. Io avevo assistito alla nascita del loro amore. Si erano
conosciuti infatti nella spiaggia di Venetico Marina (che poi è anche la marina
di Spadafora, il paese dove si erano
trasferiti alcuni di noi, nella speranza che attecchisse una certa idea
imprenditoriale di mio padre, che nonostante l’interessamento del suo amico
sig. Pipo non andò invece avanti) nell’estate del 1967. Mia sorella, che non
godeva di una grande salute ed aveva avuto in gioventù una delusione amorosa,
ci aveva raggiunto in estate e così ne approfittava per fare un po’ di mare
insieme a noi. Fu lì, nella spiaggia, come dicevo, che conobbe il mio futuro
cognato. Nell’autunno di quello stesso anno, vennero celebrate in Sardegna le
loro nozze. Mio padre e mia madre vollero una festa in pompa magna, come si
usava allora nei paesi della Sardegna. Tre giorni di banchetto a base di
ravioli di ricotta, maialetto arrosto, pesci di Cabras, contorni di verdura
fresca, frutta e fiumi di vino rosso,
birra e aranciate.
Dopo il matrimonio avevano avviato nel Canavese un’attività
imprenditoriale (che oggi verrebbe definita di agriturismo) molto redditizia.
A pochi chilometri da San Giorgio Canavese, in aperta campagna, su
un appezzamento di terreno dalla estesa superficie, avevano costruito un laghetto
artificiale, nel quale avevano allevato
degli avannotti di trota.
I clienti arrivavano da Torino, da Chivasso, da Ivrea e da tutto
il circondario. Mio cognato gli forniva canna da pesca, esca e secchio. I
villeggianti provavano così l’ebbrezza di pescare personalmente le proprie
trote e, dopo le foto di rito, la pesata e il pagamento del prezzo concordato se
ritornavano a casa, prodi e fieri. Ad assistere i novelli pescatori mio cognato
veniva aiutato da un suo fratello, sig. Francesco, un commerciante di verdure
che lo raggiungeva al “Laghetto del Sole” (così si chiamava l’attività
turistica di mia sorella) la domenica, quando la sua postazione al mercato
civico di Porta Nuova era chiuso.
Non pochi avventori e
novelli pescatori però decidevano di fermarsi a mangiare sul posto. All’uopo
mia sorella aveva organizzato un servizio di ristorazione in cui veniva aiutata
dalla cognata sig.ra Natala (moglie del sullodato sig. Francesco). Mio cognato
arrostiva le trote alla griglia, insaporendole col samoriglio (un misto di
acqua, olio d’oliva, aglio, origano siciliano e sale)
ch’egli spargeva sull’arrosto con solenni gesti della mano, impugnando
delle bacchette di origano che immergeva nel samoriglio, picchiettando con
misurata energia i pesci sulla griglia, per poi girarli di seguito, e così di
seguito sino alla cottura.
Nel frattempo io e la figlia di sig. Francesco e di sig.ra Natala,
una ragazza molto carina e simpatica di nome Anna Maria che, come me, era una
semplice volontaria (mentre i suoi genitori venivano retribuiti a giornata)
avevamo provveduto ad apparecchiare la tavola sotto un pergolato adiacente al
laghetto, ove gli avventori avrebbero gustato, al fresco e comunque al coperto,
i gustosi cibi che noi stessi, improvvisati camerieri, avremmo ritirato in cucina dove
spadroneggiavano invece le due cognate.
Andò avanti così, tutta l’estate. Quella era la mia vacanza. I
giorni feriali si lavorava poco ma i fine settimana mia sorella (era lei la
cassiera; a lei mio cognato consegnava anche i soldi del pescato) arrivava ad
incassare parecchie centinaia di migliaia di lire. Io non stavo lì a contare, ma dato il
movimento che c’era presumo che qualche fine settimana arrivasse ad incassare
più di un milione di lire. E allora erano soldi davvero.
I clienti erano assai generosi con me e con Annamaria. A fine
serata ci dividevamo un bel po’ di mance. Incredibilmente (col senno di oggi)
mia sorella pretendeva che io consegnassi a lei i soldi delle mie mance. Ma non
doveva faticare molto. Io glieli davo di buon grado. In questo debbo averne
preso da mio padre che era un uomo alquanto disinteressato e poco attaccato al
denaro. Al punto che, come avrò modo di narrare, quando arrivò il momento di
andare in pensione regalò la gioielleria ad uno dei miei fratelli con la sola
promessa che pensasse a due fratelli più piccoli che gli aveva affidato per
avviarli alla professione di commerciante (anche a me il mio generoso papà
voleva regalare l’altra sua gioielleria ma io non la volli poiché intendevo
proseguire gli studi sino alla laurea, come poi in effetti feci, ma restò
sempre vivo in me il grande gesto di mio padre). Anche mia madre era
supergenerosa, tant’è che io non capivo (e non capisco neanche oggi) da chi ne
avesse preso questa mia sorella che, anziché pagarmi per il lavoro che svolgevo
(oltre che il cameriere svolgevo dei lavoretti di semplice artigianato e
assistevo i pescatori al mattino, prima dell’ora di pranzo) pretendeva che io
le consegnassi le mance generose che i clienti mi lasciavano.
Un giorno che le chiesi delle spiegazioni, sul perché pretendesse
le mie mance, mi rispose che io
consumavo le batterie della sua radiolina Panasonic (in effetti passavo i
pomeriggi ad ascoltare Renzo Arbore e Gianni Boncompagni che conducevano il
programma “Alto Gradimento”), mangiavo a pranzo, cena e colazione e bevevo a scrocco quelle gustose bibite al gusto di
arancia e limone destinate invece ai suoi clienti.
Quando a settembre nacque il loro primogenito Alessandro mi
raggiunsero i miei genitori e poi tornammo indietro tutti e tre in Sardegna, in
tempo per l’inizio dell’anno scolastico 1969-1970.
Ma questo fa già parte di un’altra storia.
Leggi il testo integrale di Memorie di scuola di Ignazio Salvatore Basile, acquistando on line(c/o Mondadori store, Feltrinelli, IBS, Libreria Universitaria, Amazon ecc.) oppure in libreria il volume edito da Youcanprint ISBN 9788827845486. Il romanzo è disponibile anche in formato e-book nel sito della casa tramite il link sottostante.
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