domenica 14 aprile 2019

Memorie di scuola



Capitolo Ottavo
Le Scuole superiori
Prima Ragioneria
Anno scolastico 1968-69
La brillante prova di settembre confermò nei miei genitori la volontà di farmi proseguire negli studi.
Certo il liceo classico me l’ero giocato con il comportamento da scansafatiche messo in atto nel precedente anno scolastico; ma non mi andava neppure di seguire il suggerimento del consiglio di classe che, sin da giugno, aveva raccomandato, in caso di promozione, l’iscrizione alla scuola professionale.
Mia madre non aveva rinunciato alla speranza di vedermi all’università, mentre mio padre sperava di fare di me almeno un contabile per la sua azienda che, con le sue fondate e legittime ambizioni, sognava ancora di ingrandire e potenziare.
Io, dal canto mio, speravo di dimostrare che in matematica non ero poi così scarso e che ero stato ingiustamente penalizzato dal mio carattere irrequieto (e, secondo mia madre, dalla piccineria e dalla mala fede di quel docente, aspirante acquirente di oggetti preziosi rateizzati).
Fu raggiunto così un compromesso che sembrava accontentare tutti: sarei stato iscritto alla Ragioneria.
A quel tempo, nel 1968, per chi dal mio paese volesse frequentare un Istituto Tecnico Commerciale per Ragionieri e per Periti Commerciali (come recitava la pomposa definizione amministrativa delle scuole per ragionieri), doveva recarsi obbligatoriamente a Cagliari. La scuola per ragionieri di Decimomannu, dove poi, ironia della sorte, avrei insegnato discipline giuridiche ed economiche per oltre trent’anni, sarebbe sorta soltanto nel 1983, mentre Sanluri e San Gavino sarebbero state delle sedi ben più distanti e scomode  rispetto al capoluogo.
Mia madre mi portò personalmente all’Istituto Pietro Martini, che a Cagliari godeva fama di essere il migliore per formare gli esperti della contabilità.
Ma al Martini non c’era posto e non accettarono la mia iscrizione, in quanto tardiva. Occorre infatti ricordare che a quel tempo l’obbligo scolastico finiva ai quattordici anni e quindi, a gennaio dell’anno scolastico di provenienza, non era obbligatorio per i genitori effettuare un’iscrizione, né per gli istituti superiori accettare le iscrizioni dei ragazzi che frequentavano la terza media. Adesso le cose sono alquanto cambiate, essendo stata elevata a sedici anni l’età dell’obbligo di frequenza scolastica.
Al Martini, con aria di sufficienza, ci dissero che forse al “Leonardo da Vinci” ci sarebbe stato un posto per me (ho scoperto da poco che il pomposo Martini,  ha dovuto sloggiare dalla sua sede storica di via Sant’Eusebio per trasferirsi in viale Ciusa 4, dove un tempo c’era proprio  il Leonardo da Vinci, oggi accorpato ad altri istituti tecnici per ragionieri).
Al Leonardo da Vinci per fortuna il posto per me c’era. Così venni iscritto in quella scuola.
Il Leonardo da Vinci era sorto successivamente al Martini,  in un’area di forte espansione urbanistica, ancora in agro di Cagliari, ma con vocazione a servire gli utenti del popoloso hinterland cagliaritano: la popolosa frazione di Pirri (che da sola contava, sin da allora, oltre  30.000 abitanti); Monserrato, che aveva riacquistato l’autonomia amministrativa dopo i rigori del fascismo, che l’aveva declassato a frazione di Cagliari; Quartu S.Elena, che si avviava a divenire la terza città più abitata della Sardegna (dopo Cagliari e Sassari e prima di Nuoro e Oristano).
In quegli anni,  sulle ali del boom economico, il nuovo tessuto commerciale che si era costituito nella nostra Isola (come, ovviamente e ancor di più, nel resto d’Italia) e la voglia di riscatto sociale delle generazioni sopravvissute al Fascismo e alla Seconda Guerra Mondiale, avevano fatto crescere la domanda di una istruzione utile e concreta, con un titolo di studio capace di fornire uno sbocco professionale immediato senza l’obbligo di proseguire negli studi universitari (come era al tempo per quegli studenti che frequentavano  i licei). E la figura professionale del ragioniere, così ricca di storia e di fascino, sembrava incarnare l’ideale della nuova classe sociale di commercianti e artigiani, che sognavano per i loro figli, una carriera in banca o in ufficio, con il colletto bianco,  le mani pulite e lo stipendio sicuro. Professione oggi purtroppo tramontata, come dimostrano impietose le statistiche del ministero della pubblica istruzione, favorevoli ai licei, da quelli classici, artistici  e scientifici, ai più moderni linguistici, pedagogici  e musicali. Qualcuno li chiama i corsi e i ricorsi della storia.
Ma  all’orizzonte si addensavano delle nuvole cupi e dense: il sessantotto stava per arrivare.
Dopo alcuni giorni, infatti, trovammo l’ingresso presidiato dai picchetti degli studenti scioperanti che impedivano l’accesso a qualunque studente, lasciando passare soltanto i docenti che non fossero già entrati con l’auto attraverso il carraio.
Le parole d’ordine che giravano tra gli studenti erano diverse e alle mie orecchie di studentello di primo pelo, suonavano quasi come oracoli di una divinità lontana e misteriosa. Alcuni sembravano anche semplici, nella loro formulazione: “Diritto allo studio”; “Scuola per tutti“; altri erano rivestiti di un’aurea quasi mitica:”Fuori i baroni dalla scuola” (più tardi scoprii che lo slogan era rivolto all’università e che il barone Siviller, che al mio paese era stato degradato dai Savoia al loro arrivo in Sardegna, all’inizio del ’700, colpevole soltanto di essere da sempre fedele ai sovrani iberici, non c’entrava per niente); “Assemblea Permanente”; “Potere Operaio”; “Lotta Continua”; “Morte ai fascisti”; “Boia chi molla“.
Insomma gli slogans che si urlavano fuori dalla scuola erano tanti e per me, tutti, o quasi tutti, ancora incomprensibili.
Venivano anche distribuiti dei volantini in ciclostile.
Io li leggevo con curiosità. Mi piacevano quelle cose che c’erano scritte e che parlavano dei grandi sistemi con roboanti paroloni; conobbi così le grandi correnti di pensiero nazionale ed internazionale: il capitalismo sfruttatore degli Agnelli; il colonialismo degli USA invasori; il libretto rosso di Mao; la riscossa di Ho-Chi-Min; le speranze rosse, bruciate con Ian Palach nella primavera di Praga.
I miei idoli giravano in Eskimo con il giornale di Lotta Continua sotto il braccio (qualcuno aveva Potere Operaio).
Per soggezione o non so per quale altra ragione decisi che per me era giusto aderire allo sciopero.
Più che capire intuivo, forse con un istinto primordiale,  che il mondo era più complesso di come me lo avevano descritto al Catechismo; o di quello che avevo studiato nei miei recenti trascorsi scolastici.
Intuivo che vi erano degli oppressi e degli oppressori; dei ricchi privilegiati e dei poveri,  condannati a subire dalla nascita modesta; dei poteri, più o meno occulti, che sfruttavano e godevano le ricchezze del mondo, approfittando dell’ignoranza delle masse indistinte, degli oppiati della religione, di quelli che non capivano i meccanismi complessi del potere; e vi era gente che non si rassegnava e voleva lottare per un mondo migliore.
Ed io volevo appartenere a quelli che avrebbero lottato per un mondo migliore.
Ero davvero  affascinato dai grandi oratori (quelli delle classi superiori) che arringavano noi matricole delle prime classi e tutti gli altri studenti, alla ribellione e allo sciopero.
Nel mio intimo pensavo che un giorno avrei anche io desiderato essere un leader di quel genere ed avere il coraggio di parlare in pubblico, ad alta voce e di organizzare i cortei per la città contro il sistema, contro i corrotti democristiani, contro la guerra nel Vietnam, contro il perbenismo, contro i fascisti, contro le classi sociali, contro il capitalismo che sfruttava gli operai e bruciava il futuro dei giovani.
Insomma, contro tutto e contro tutti. Io facevo miei quegli slogan urlati al megafono e stampati nei volantini.
Tanto per cominciare e per vincere la mia timidezza (nonché  per consentire ai miei genitori di risparmiare sull’acquisto dei libri) mi cimentai nella compravendita dei libri usati.
Avevo ancora tanto da fare e da studiare per diventare come loro. E se volevo un domani essere ascoltato dagli altri, anche io dovevo progredire negli studi.
Andò avanti così per qualche giorno fino a quando alcuni signori  (più tardi capii che si trattava di agenti della Digos in borghese), spiegarono agli studenti che facevano servizio di picchetto al cancello, che avrebbero dovuto lasciare libero l’ingresso e consentire a chi non avesse voluto aderire allo sciopero, di entrare a scuola.
Anche se, a onor del vero, per non rischiare di venire scambiato per un fascista o, peggio ancora, di venire considerato un boia, attesi prima di rientrare che un buon numero di studenti, vecchi e nuovi, fosse deciso a interrompere la protesta, con la promessa che il Preside avrebbe concesso un certo numero di assemblee per poter discutere i problemi della scuola e di noi giovani studenti, se avessimo ripreso prontamente  la frequenza (che per noi “primini” non era invero mai iniziata).
Così scoprii finalmente la mia classe. Si trattava di una prima super affollata. Eravamo oltre trenta, per lo più di sesso femminile. i miei compagni e le mie compagne venivano quasi tutti da Quartu S.E., da Pirri (che, precisavano i Pirresi, è come se fosse Cagliari; anzi “Pirri è’ Casteddu!), Selargius, Monserrato.
Le ragazze avevano ancora l’obbligo del grembiule nero, con il nome e la classe cuciti in alto destra, mentre noi ragazzi, al contrario di quelli del Martini (costretti a recarsi a scuola in giacca e cravatta), non avevamo alcun obbligo di forma nel vestire (l’obbligo sarebbe caduto anche per le ragazze, di lì a poco, quantomeno nel nostro istituto).
Mi ero già affezionato a questa classe allegra e rumorosa; mi ero già innamorato (senza che loro ne sapessero niente) di tre o quattro compagne e di una o forse due professoresse particolarmente giovani e carine. Mi piacevano inoltre le lezioni di italiano, di storia, di inglese; un po’ meno quelle di fisica e matematica, mentre mi affascinarono subito la dattilografia e la stenografia (che più tardi, ma io ero già passato dall’altra parte della barricata,  sarebbero state soppiantate dal “trattamento testi” e, più tardi ancora, sino ai nostri giorni, dall’informatica); mi risultò invece ostica la computisteria, che negli anni successivi si trasformava in “tecnica”, e tale antipatia durò per tutti e cinque gli anni e si estese anche alla “ragioneria” (le due materie, oggi, si studiano  unificate sotto il nome di “economia aziendale”).
Presto però arrivò la notizia che alcuni di noi sarebbero stati trasferiti e smistati in altre classi di nuova formazione e che un certo numero di classi avrebbe iniziato, con il sistema della rotazione, il doppio turno.
Ci fu spiegato infatti, in maniera alquanto sommaria e sbrigativa, che le aule non erano sufficienti ad ospitare tutti gli iscritti, dato l’alto numero dei nuovi studenti, e quindi, per evitare classi troppo numerose (più tardi si sarebbero definite “classi pollaio”) avremmo dovuto alternarci nella frequenza pomeridiana, dalle 14,30 alle 19,30. Tale turno avrebbe riguardato ciascuna classe, ma soltanto per uno, massimo due mesi, all’anno.
Più avanti negli anni successe invece che alcuni corsi venissero destinati a frequentare di pomeriggio tutto l’anno scolastico.
A parte il sonno, che mi assaliva nei pomeriggi di caldo (da marzo a giugno,  grosso modo) non mi potevo e non mi volevo lamentare. D’altronde, potevo stare a letto un po’ di più al mattino, per evitare di addormentarmi sul banco di scuola (cosa che in verità non mi è mai accaduta).
Imparai con piacere tante cose: la stenografia, magica materia ormai scomparsa, la dattilografia, che ha dovuto lasciare il posto alla più complessa e misteriosa informatica; le scienze naturali, la geografia, la matematica, la fisica, la chimica, la computisteria e il francese. Ma le mie materie preferite erano la storia e l’italiano, dove in qualche modo, mi distinguevo. Anche merito della mia professoressa che nel biennio era la moglie di un alto magistrato cagliaritano, molto amorevole, paziente e capace.
La scuola mi piaceva. Ammiravo, in generale, tutti i professori e pendevo dalle loro labbra. Ero assetato di sapere e alle spiegazioni stavo sempre attento, perché volevo apprendere e non mi piaceva essere rimproverato.
Così mi misi a studiare.
A fine anno il preside mi regalò un dizionario di Oxford come premio per essere stato promosso a giugno.
Nonostante le mie idee rivoluzionarie ero ancora un bravo ragazzo.
Nel corso dell’anno, questi scioperi sembravano ricorrenti, a ondate. Sui muri di fronte alla scuola apparvero delle scritte che inneggiavano al Movimento Studentesco e chiedevano di   liberare il Vietnam dagli USA.
I più attivi tra gli studenti giravano con un giornale sotto il braccio che si chiamava Lotta Continua.
Io li invidiavo perché portavano i capelli lunghi, vestivano alquanto trasandati e sembravano piacere a certe ragazze carine che io non osavo nemmeno guardare.
Io già da allora cominciavo a soffrire di quegli inevitabili complessi che colpiscono, in misura più o meno evidente, tutti gli adolescenti.
Il mio complesso più grande, in quel primo anno,  era la mia statura. Non che fossi proprio “piccolo” (avevo probabilmente già raggiunto il metro e sessanta) ma è probabile che questo complesso ne nascondesse degli altri; ma io desideravo tanto essere uno di quegli spilungoni che giravano con il giornale di Lotta Continua sotto il braccio e che rimorchiavano sulle loro motociclette quelle ragazze appariscenti che io sognavo di notte. Così, per sentirmi più grande e più alto, presi a fumare regolarmente le sigarette che riuscivo a comprare coi pochi soldi della mia paghetta (magari rinunciando al panino della ricreazione).
Una sera di autunno, guardando alla lavagna, mi accorsi che non riuscivo più a leggere  nella  lavagna (un’altro dei miei escamotages per sentirmi più alto era stato quello di sedermi nell’ultimo banco; infatti gli insegnanti, sin dal primo girono di scuola, non avevano fatto altro che ripetere che i ragazzi più bassi si sarebbero dovuti sedere al primo banco).
Mia madre mi portò subito dall’oculista per una visita: la diagnosi cadde su di me impietosa come una mannaia; ero affetto da miopia ed avrei dovuto mettere gli occhiali.
Mio padre, senza perdere tempo, mi portò nel negozio di Franz, in via XX settembre (il negozio esiste ancora nella città di Cagliari). Scelsi gli occhiali più economici perché non mi andava che mio padre spendesse dei soldi per me. E naturalmente non seppi scegliere quelli più adatti al mio viso.
Gli occhiali furono per me un vero e proprio trauma che ho superato soltanto in tardissima età. Io, abituato a fare a botte con tutti; a tuffarmi nel fiume; a correre come un disperato dappertutto, come avrei fatto a sopportare quel corpo estraneo? Questo nuovo complesso si sommò a quello precedente rendendomi sempre più cupo e più scuro di carattere.
Intanto Nixon veniva eletto presidente degli Stati Uniti d’America. Io lo conobbi attraverso una scritta che comparve in un muro adiacente alla scuola. Vi era scritto “Nixon boia”.

A mio padre gli Americani non piacevano per niente (forse questo era un retaggio della seconda guerra  mondiale, prima dell’Armistizio del 1943, quando l’Italia e gli USA combattevano ancora su fronti contrapposti e lui fu mandato in Sardegna a difendere certi siti minerari, che il regime considerava strategici per l’economia dell’Italia in guerra, proprio dai raid aerei  che i caccia bombardieri americani cominciarono  a fare sin dal 1942).
Ma  i capelloni, gli anarchici, i comunisti, i preti che si vestivano alla moda, le donne in minigonna, le femministe e le donne in cerca di emancipazione, le prostitute e gli omosessuali a mio padre piacevano ancora meno.
Per cui maledì diecimila volte i giudici della  Corte Costituzionale quando, sul finire del 1968,  sentenziarono che era ingiusto considerare il reato di adulterio in maniera differente, a seconda che a commetterlo fosse  un uomo oppure una donna.
Naturalmente mia madre fu invece d’accordo coi giudici della Consulta.
Fu allora  che mio padre cominciò a maledire la democrazia (e il partito Democrazia Cristiana che più di tutti sembrava incarnare la nuova frontiera della conquista delle libertà;  anche se a riguardo  della parità tra uomini e donne inveiva maggiormente contro i socialisti e i comunisti) e cercò di convincere mia madre a votare il Movimento Sociale Italiano.
Ma mia madre restò sempre fedele alla Democrazia Cristiana e si rifiutò con determinazione  di votare a destra, anche se mio padre, in molte occasioni, ripeteva che la Destra avrebbe portato ordine, disciplina, carceri dure, capelli corti e treni in orario.
Forse fu allora che io cominciai a prendere in considerazione delle idee nuove e diverse da quelle che sembravano dividere i miei genitori;  idee che si andavano allora diffondendo e che andavo imparando anche a scuola, attraverso il confronto con i miei insegnanti e con i libri di scuola.
Molte persone, soprattutto tra i giovani, sono convinte che il ’68 sia stato un gran botto di cannone, i cui echi si sentono ancora nell’aria, come una canzone che ci ricordi i bei tempi andati.
In realtà il ’68, almeno qui a Cagliari (e più in generale in Italia) è stato soltanto l’inizio di un lungo e sofferto cammino che i giovani della mia generazione (e quelli di qualche anno più grandi di me) hanno percorso e vissuto attraverso diverse tappe; un decennio terribile, iniziato nella gioia e nei colori del ’68 (che, a sua volta, affondava le sue radici nella rivoluzione dei figli dei fiori di San Francisco e dintorni, della metà degli  anni sessanta, poi diramatosi in mille rivoli, a Berkeley, a Seattle, a Woodstock) e sviluppatasi negli anni successivi nelle lotte politiche e nei movimenti della sinistra extra-parlamentare, per sfociare infine nelle sanguinarie azioni dei gruppi armati, la cui deriva politica e storica, può farsi  risalire al rapimento e alla barbara uccisione dell’onorevole Aldo Moro (1978), la vittima innocente, l’agnello sacrificale, il capro espiatorio di una classe politica cinica e corrotta che ha segnato un’epoca.
A giugno, come già detto,  fui promosso a pieni voti. I miei genitori, un po’ per premio, un po’ perché la mia sorella maggiore era incinta del suo primogenito ed aveva bisogno di aiuto,  mi mandarono nel Canavese, ove essa risiedeva dopo essersi sposata due anni prima.
Mia sorella aveva spostato un uomo più grande di lei di una ventina d’anni. Io avevo assistito alla nascita del loro amore. Si erano conosciuti infatti nella spiaggia di Venetico Marina (che poi è anche la marina di Spadafora, il paese dove si erano  trasferiti alcuni di noi, nella speranza che attecchisse una certa idea imprenditoriale di mio padre, che nonostante l’interessamento del suo amico sig. Pipo non andò invece avanti) nell’estate del 1967. Mia sorella, che non godeva di una grande salute ed aveva avuto in gioventù una delusione amorosa, ci aveva raggiunto in estate e così ne approfittava per fare un po’ di mare insieme a noi. Fu lì, nella spiaggia, come dicevo, che conobbe il mio futuro cognato. Nell’autunno di quello stesso anno, vennero celebrate in Sardegna le loro nozze. Mio padre e mia madre vollero una festa in pompa magna, come si usava allora nei paesi della Sardegna. Tre giorni di banchetto a base di ravioli di ricotta, maialetto arrosto, pesci di Cabras, contorni di verdura fresca,  frutta e fiumi di vino rosso, birra e  aranciate.
Dopo il matrimonio avevano avviato nel Canavese un’attività imprenditoriale (che oggi verrebbe definita di agriturismo) molto redditizia.
A pochi chilometri da San Giorgio Canavese, in aperta campagna, su un appezzamento di terreno dalla estesa superficie,  avevano costruito un laghetto artificiale,  nel quale avevano allevato degli avannotti di trota.
I clienti arrivavano da Torino, da Chivasso, da Ivrea e da tutto il circondario. Mio cognato gli forniva canna da pesca, esca e secchio. I villeggianti provavano così l’ebbrezza di pescare personalmente le proprie trote e, dopo le foto di rito, la pesata e il pagamento del prezzo concordato se ritornavano a casa, prodi e fieri. Ad assistere i novelli pescatori mio cognato veniva aiutato da un suo fratello, sig. Francesco, un commerciante di verdure che lo raggiungeva al “Laghetto del Sole” (così si chiamava l’attività turistica di mia sorella) la domenica, quando la sua postazione al mercato civico di Porta Nuova era chiuso.
 Non pochi avventori e novelli pescatori però decidevano di fermarsi a mangiare sul posto. All’uopo mia sorella aveva organizzato un servizio di ristorazione in cui veniva aiutata dalla cognata sig.ra Natala (moglie del sullodato sig. Francesco). Mio cognato arrostiva le trote alla griglia, insaporendole col samoriglio (un misto di acqua, olio d’oliva, aglio, origano siciliano  e sale)  ch’egli spargeva sull’arrosto con solenni gesti della mano, impugnando delle bacchette di origano che immergeva nel samoriglio, picchiettando con misurata energia i pesci sulla griglia, per poi girarli di seguito, e così di seguito sino alla cottura.
Nel frattempo io e la figlia di sig. Francesco e di sig.ra Natala, una ragazza molto carina e simpatica di nome Anna Maria che, come me, era una semplice volontaria (mentre i suoi genitori venivano retribuiti a giornata) avevamo provveduto ad apparecchiare la tavola sotto un pergolato adiacente al laghetto, ove gli avventori avrebbero gustato, al fresco e comunque al coperto, i gustosi cibi che noi stessi, improvvisati camerieri,  avremmo ritirato in cucina dove spadroneggiavano invece le due cognate.
Andò avanti così, tutta l’estate. Quella era la mia vacanza. I giorni feriali si lavorava poco ma i fine settimana mia sorella (era lei la cassiera; a lei mio cognato consegnava anche i soldi del pescato) arrivava ad incassare parecchie centinaia di migliaia di lire.  Io non stavo lì a contare, ma dato il movimento che c’era presumo che qualche fine settimana arrivasse ad incassare più di un milione di lire. E allora erano soldi davvero.
I clienti erano assai generosi con me e con Annamaria. A fine serata ci dividevamo un bel po’ di mance. Incredibilmente (col senno di oggi) mia sorella pretendeva che io consegnassi a lei i soldi delle mie mance. Ma non doveva faticare molto. Io glieli davo di buon grado. In questo debbo averne preso da mio padre che era un uomo alquanto disinteressato e poco attaccato al denaro. Al punto che, come avrò modo di narrare, quando arrivò il momento di andare in pensione regalò la gioielleria ad uno dei miei fratelli con la sola promessa che pensasse a due fratelli più piccoli che gli aveva affidato per avviarli alla professione di commerciante (anche a me il mio generoso papà voleva regalare l’altra sua gioielleria ma io non la volli poiché intendevo proseguire gli studi sino alla laurea, come poi in effetti feci, ma restò sempre vivo in me il grande gesto di mio padre). Anche mia madre era supergenerosa, tant’è che io non capivo (e non capisco neanche oggi) da chi ne avesse preso questa mia sorella che, anziché pagarmi per il lavoro che svolgevo (oltre che il cameriere svolgevo dei lavoretti di semplice artigianato e assistevo i pescatori al mattino, prima dell’ora di pranzo) pretendeva che io le consegnassi le mance generose che i clienti mi lasciavano.
Un giorno che le chiesi delle spiegazioni, sul perché pretendesse le mie mance,  mi rispose che io consumavo le batterie della sua radiolina Panasonic (in effetti passavo i pomeriggi ad ascoltare Renzo Arbore e Gianni Boncompagni che conducevano il programma “Alto Gradimento”), mangiavo a pranzo, cena e colazione e bevevo  a scrocco quelle gustose bibite al gusto di arancia e limone destinate invece ai suoi clienti.
Quando a settembre nacque il loro primogenito Alessandro mi raggiunsero i miei genitori e poi tornammo indietro tutti e tre in Sardegna, in tempo per l’inizio dell’anno scolastico 1969-1970.
Ma questo fa già parte di un’altra storia.

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