In effetti erano attesi. Il titolare in persona li
accompagnò a un tavolino già apparecchiato. Da lì potevano godere del paesaggio
selvaggio che li circondava.
Scelsero un menù di mare, innaffiato con un ottimo vino
bianco paglierino. Il commissario notò che Luisa non aveva perso il piacere di
mangiare, né quello di accompagnare i suoi pasti con un buon bicchiere di vino.
Non era frequente trovare in una donna entrambe le abitudini. O forse era lui
che aveva conosciuto, soprattutto in casa sua, soltanto donne praticamente
astemie e schifiltose nel mangiare, cui facevano da contrappunto uomini dalle
buone forchette e dai gomiti snodati. Insomma era un piacere stare a tavola con
quella donna, che in più era anche un’ottima conversatrice.
Quando giunsero in vista di Buggerru era già
pomeriggio inoltrato. Con il suo fuoristrada il commissario si inerpicò senza
troppe difficoltà su un promontorio roccioso in cima al quale la loro vista
dominava la baia di Cala Domestica.
Lì si fermarono a lungo e in silenzio, persi nei loro
pensieri. E mentre Amàlia Rodrigues cantava i suoi strali di sofferenza, le
loro anime si fusero in quella Saudade malinconica, pervase da quel languore fisico
che solo il Fado, il Flamenco, il Blues e certe Canzoni Napoletane, nelle loro
diverse e struggenti varianti, sanno dare. E quel silenzio li unì più di tutte le storie che si erano raccontati dalla
partenza, durante il viaggio nelle miniere, fino al ristorante, a ridosso delle
antiche gallerie. Forse le loro storie incombevano e si calavano in quel
silenzio e, attraverso i loro sensi, si proiettavano nel paesaggio circostante,
frusciando tra cisti e ginepri, accarezzando olivastri e corbezzoli, appianando
sino al mare della costa verde, dopo avere sfiorato i faraglioni, le falesie e
le torri spagnole che un tempo avevano
difeso quelle coste dalle incursioni dei Saraceni.
Dopo che il
sole si fu immerso nel mare, in cielo
apparve una luce, quasi all’improvviso.
«Guarda com’è lucente e vicina!»
disse Luisa Levi indicando quella luce sopra l’orizzonte.
«Dev’essere…»
«Venere!»
concluse lei, precedendolo.
Lui si voltò a guardarla. Quella luce, quel nome,
quella parola che lei aveva pronunciato, quasi leggendogli nel pensiero, gli avevano
suscitato all’improvviso una trepidazione e un’emozione che ritrovò
magicamente negli occhi di lei.
Rimasero così, a guardarsi negli occhi, per un lungo
istante, stupiti di se stessi e della loro tenera trepidazione. Non dissero
altro. Si baciarono a lungo. Poi i loro corpi si cercarono, con un’attrazione
che gli spazi ridotti dell’auto sembrarono rendere perfino più forte e
irresistibile.
Fu un’esplosione di passione, sotto la luce sempre più
forte di Venere, mentre fuori il concerto dell’avi fauna e il frusciare del
vento nella flora selvaggia,
accompagnava i loro sospiri e la danza dei loro corpi, fusi nel magico
ripetersi di un atto, apparentemente sempre uguale, come il perpetuarsi della
specie, eppure sempre diverso, come differenti sono le
occasioni e le emozioni che culminano nell’amore.
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