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3 CAPITOLO
terzo
«Impara l’arte e mettila da parte!» mi ripete spesso Atticus; tanto più adesso che ho
lasciato il Collegio e sono tornato stabilmente al Circo.
Costantina,
tuttavia, un po’ perché non ha rinunciato a fare di me un uomo di cultura,
capace di affermarsi anche al di fuori del circo, un po’ per spirito di
contraddizione nei confronti del marito, insiste perché io non lasci di
studiare e mi incoraggia sempre in tal senso, cercando di sottrarmi alle
grinfie di Atticus, che mi vorrebbe invece dedito completamente alle molteplici
arti circensi.
Al circo, da un
po’ di tempo, si respira un’aria nuova. Atticus ha preannunciato che presto,
come arriverà la primavera, passeremo le Alpi come fece Annibale, ma senza gli
elefanti, aggiunge ridendo: lui ama fare spesso questi paragoni storici, perché
è un fanatico della storia di Roma e non perde occasione per fare dei richiami
alle vicende della Repubblica e dell’Impero fondato da Cesare Augusto.
Stiamo seguendo
un antico itinerario che Atticus ha trovato tracciato nelle famose dodici pergamene. In
effetti Atticus, quando non siamo
impegnati negli spettacoli, passa molto
tempo immerso nello studio delle pergamene, alle quali sembra legata
indissolubilmente la mia vita; quelle stesse che, a sentire quella linguaccia
di Cernua, sono state rinvenute accanto a me, dentro un cofanetto intarsiato
d’avorio, quando da bambino sono stato ritrovato abbandonato in riva al fiume,
anche se non ho mai capito di quale fiume si tratti in realtà, se del Tevere,
del Tamigi oppure di quale altro misterioso fiume;
e a tavola ha
ripreso a parlare sempre più di frequente dell’itinerario che stiamo seguendo;
si tratta di un viaggio davvero fantastico.
Atticus le
chiama le pergamene di Peutinger (a volte anche le pergamene dell’imperatore) e
dice che seguendo le loro indicazioni arriveremo sino all’India, dove potremo
comprare le tigri e gli elefanti, così il nostro circo sarà di nuovo grande;
più grande che in passato.
Di questo
passato io non ricordo niente. So quello che si dice in famiglia, e cioè che
prima esisteva un grande circo, dal nome inglese “West End”, o qualcosa del
genere. Atticus aveva un socio che, a un certo punto, “inopinatamente”, ripete
ogni qualvolta che ne parla arrabbiandosi immancabilmente, ha deciso di
sciogliere la società, portandosi via tutti gli animali del circo esclusi i
cavalli, di proprietà personale di Tina e i muli necessari a trainare i tre
carrozzoni a noi assegnati nella divisione.
Quando a pranzo,
oppure a cena, Atticus pronuncia quella misteriosa parola “inopinatamente”, le
tre donne cominciano a sbuffare e si alzano dalla tavola. Ho capito che sono
stufe di sentirgli raccontare sempre le stesse cose.
«Non
dimenticare, come al solito, di dire che il tuo socio ti ha elargito una bella
somma di danaro per compensarti della perdita degli animali e del resto delle
attrezzature toccate a lui!», gli dice, seppure amabilmente, Tina nel lasciare
la tavola (imitata con entusiasmo dalle due ragazze).
Allora restiamo
soltanto noi tre uomini, come sottolinea Atticus: io, lui e Calcantor. A me non
dispiace stare a sentire le sue storie; forse perché non mi ricordo quasi
niente del mio passato e così recupero, attraverso i suoi racconti, qualche
brandello della mia storia personale.
Comunque sia, da
quando ha deciso di intraprendere il viaggio in India, Atticus usa sempre meno
la parola “inopinatamente” e sempre di più la parola “avventura”.
Senza dubbio
questa parola è più bella e affascinante.
In attesa di concludere l’avventuroso viaggio, Atticus, che ha
ribattezzato il suo nuovo circo con il nome di “Periplus”, sta convincendo
Mahout a riconvertirsi come cavallerizzo.
Non è facile.
Anche se il giovane indiano è dotato di buona volontà e di un’agilità fuori dal
comune, lui è un fantino di elefanti e sostiene di non avere una grande intesa
con i cavalli.
Affiancando
Atticus sto imparando tante cose del circo. Lui sa come coinvolgere le persone
ed è molto preciso e appassionato nel suo lavoro. Io lo aiuto volentieri, così
mi sento utile e importante.
Mi sento anche
forte quando lo aiuto a montare le balaustre in legno per provare l’esercizio che
vorrebbe insegnare a Mahout.
Non è un
esercizio facile, perché si tratta di fare un salto da una specie di catapulta
e ricadere in groppa a un cavallo in corsa. È un esercizio di agilità e
precisione.
Noi montiamo un
bilanciere a cavallo della balaustra centrale della pista; il cavallo inizia la
sua corsa entrando in pista e, quando si trova nell’altra metà, il cavallerizzo
viene sospinto in alto per poi ricadere in sella al cavallo.
Atticus ha una
clessidra che calcola alla perfezione il tempo di percorrenza del cavallo. Io
faccio da contrappeso su un lato del bilanciere, appesantito da dei sacchetti
di sabbia appesi al collo, in modo da lanciare Mahout in aria, facendogli
percorrere la traiettoria per ricongiungersi al cavallo in corsa.
«Tu, Moses
farai da bilanciere e contrappeso sul petauro basculante, per il lancio di
Mahout. È quel numero che precedeva il tuo ingresso in groppa agli elefanti nel
Circo West End, ricordi? Non è difficile» interpone per
rassicurare Mahout, il quale, essendo avvezzo a cavalcare gli elefanti, si fa
prendere dal panico soltanto a sentir parlare di cavalli.
Credo che sia più forte di lui.
«Guarda» gli dice subito per rincuorarlo
sbarazzando il piano del tavolo davanti a sé, sfruttandolo come se fosse stata
una pergamena sulla quale disegnare, utilizzando un cucchiaio di legno a mo’ di
stilo
«questa è
la pista, d’accordo?»
Così dicendo, guardando negli occhi Mahout, desideroso anche lui, forse
più dello stesso Atticus, di vincere le sue perplessità, prosegue, senza trascurare
di rivolgere uno sguardo d’intesa anche a tutti noi, descrivendo sul tavolo due
rettilinei paralleli, lunghi quanto lo stesso piano.
Mahout, con uno sguardo rassegnato, sembra assentire, coi
suoi occhi dolci e remissivi.
«Costruiremo
la pedana proprio a cavallo della balaustra divisoria, che ci farà inoltre da
perno per la catapulta! La catapulta dovrà essere spostata di 45 gradi rispetto
all’asse della balaustra, in maniera di facilitare l’approdo in discesa di
Mahout sul cavallo in corsa. Noi avremo due clessidre uguali»- conclude quindi guardando me, ma rivolto a tutti
« I cavalli
ci impiegano il tempo di svuotamento di una clessidra per fare due giri; quindi
poco prima dello svuotamento della
seconda metà, a un mio cenno, tu
Moses, darai la giusta spinta e tu,
Mahout , dalla tua posizione volerai e planerai da seduto
proprio sul cavallo esterno; poi dal giro successivo, salterai in piedi, e
farete il giro con Costantina, in equilibrio e con le mani interne giunte e
quelle esterne per i saluti finali. Stasera lo proveremo sino a sincronizzarci
alla perfezione! Deve essere la nostra apoteosi e non possiamo sbagliare!»
Ma nonostante i
calcoli di Atticus siano teoricamente esatti, regolarmente Mahout cade
miseramente sulla sabbia morbida che ricopre la pista.
Ogni volta
Atticus si fa una grande risata e dice che andrà meglio la prossima volta. Per fortuna Mahout non si fa male e non se la prende più
di tanto.
In realtà mi ha
confidato che non vede l’ora che il Circo riabbia i suoi elefanti perché lui
coi cavalli non ci va proprio d’accordo.
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