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Capitolo Primo
I miei ricordi di scuola più lontani son
legati a cinque colori. Il primo fiocco, quello della prima elementare,
nell’anno scolastico 1960-61, era di colore rosa.
Ricordo anche un grembiule nero con le
tasche; dei quaderni dalla copertina nera; un banco di legno a due posti, con
il piano inclinato, troppo alto per la maggior parte di noi. In cima al banco,
sul bordo superiore, una scanalatura che ospitava, per ogni scolaro, la stilo e
un foro dal diametro di circa cinque centimetri dove alloggiava il calamaio
con l’inchiostro nero.
All’estremità inferiore della stilo un
foro serviva per fissarvi il pennino. Si intingeva il pennino nel calamaio
e si facevano delle pagine di aste, di quadrotti e di circoletti; per giornate
intere; in classe e a casa; quaderni interi di aste, cerchietti e quadrotti;
poi si passava alle lettere dell’alfabeto: vocali e consonanti; maiuscole e
minuscole, in sequenza; quaderni interi: in classe e a casa.
L’ultimo foglio del quaderno
riportava le tabelline: occorreva mandarle giù a memoria; in classe e a casa:
quella del 2, poi quella del 3, quella del 4 e così via. Il mio maestro della
prima elementare si chiamava Giorgio Maxia. Era figlio di ricchi possidenti:
lui e suo fratello avevano studiato entrambi ed erano divenuti insegnanti grazie
al diploma quadriennale delle Scuole Magistrali.
Le loro terre le lavoravano i mezzadri (poco
più di vent’anni dopo, nel 1982, la legge De Marzi-Cipolla avrebbe abolito
quell’istituto giuridico così atavico e forse troppo punitivo per i braccianti senza
terra e senza lavoro. Ma a quel tempo io certe cose non le pensavo nemmeno).
Il mio maestro mi apprezzava molto; me lo
dimostrava quando, a fine mattinata, mi assegnava la tessera del refettorio
scolastico comunale di qualche bambino titolare che fosse risultato
assente a scuola. Allora, anziché rientrare a casa, me ne andavo alla mensa
comunale: con quella tessera mi spettava un pasto completo: la pastasciutta la
saltavo perché sembrava un impasto di colla.
Se
c’era la minestra di riso oppure il minestrone, invece, lo mangiavo volentieri;
scartavo anche la fettina, che assomigliava spesso ad una suola di scarpa
e le uova sode, che all’interno si presentavano con un colore verde-giallo
poco rassicurante; neanche il formaggino, a volte striato di verde sotto la
confezione, mi attirava. Ciò che mi attirava di più erano certi panetti di
marmellata di una nota casa svizzera: delle vere leccornie!!! Quella confezione
da sola valeva il mio viaggio alla mensa scolastica.
Quando mi vedeva in piazza, il mio
maestro, mi mandava al tabacchino a compragli le sigarette. Fumava le Alfa; sul
pacchetto bianco spiccava infatti una lettera Alfa dell’alfabeto greco dal
colore rosso.
Da grande ho scoperto che quelle
sigarette facevano letteralmente schifo, peggio anche delle Nazionali
senza filtro; o forse ero solo viziato dalle Esportazioni con filtro e dalle
Diana che scroccavo, di nascosto, a mio padre e ai miei fratelli. Mi dava
centocinquanta lire e mi regalava le venti lire di resto. Era il suo modo per
dimostrarmi la sua simpatia ed il suo apprezzamento per l’impegno scolastico.
Quel ventino dal colore di bronzo mi rendeva felice e correvo subito a
comprarmi delle caramelle e un cono di zucchero da dieci lire. Ma se si era
a Carnevale allora mi
compravo una maschera da cow-boy con l’elastico ai lati (la seconda scelta era
la maschera da indiano Sioux) e un pacchetto di coriandoli.
Quando pioveva, la strada per raggiungere
la scuola diventava una pozzanghera. I marciapiedi non esistevano ancora al mio
paese e le strade, per la maggior parte, non erano asfaltate. Mio padre mi regalò
un paio di stivali di gomma affinché non restassi con i piedi bagnati tutta la
mattina e non rovinassi le scarpe (che comunque non erano certo le scarpe da
passeggio che si usano oggidì).
Ricordo che il Comune distribuiva alle
famiglie dei bisognosi delle scarpe. Io mi ritenevo fortunato: la mia famiglia,
pur essendo assai numerosa, era considerata benestante. Anche se mio padre ripeteva
che i veri ricchi erano i proprietari terrieri che risultavano sconosciuti al
Fisco e non presentavano neppure la dichiarazione dei redditi.
Mio padre era un commerciante; uno di
quei grandi uomini che, nel loro piccolo, con inenarrabili sacrifici e tanto
lavoro, hanno contribuito a ricostruire l’Italia distrutta dalla guerra. Lui
però rimpiangeva la vita militare e i gradi di maresciallo che aveva abbandonato,
con stipendio sicuro, malattia e ferie pagate. Malediceva sempre il
governo che, non ho mai capito con quale diabolico stratagemma, lo aveva
convinto a cancellarsi dagli albi degli artigiani (lui che aveva le mani d’oro
di orologiaio) per convincerlo a divenire un commerciante.
Col senno di poi, capisco però che con quel capitale che aveva immobilizzato nel negozio (tra oreficeria, gioielleria, articoli da regalo, sveglie e orologi) a quei tempi, quando i titoli di stato spuntavano un tasso annuale del 15%, avremmo potuto vivere di rendita. Ma la generazione di mio padre (ed il suo carattere fondamentalmente onesto, unito alla mentalità biblica del piacere-dovere di guadagnarsi il pane col sudore della fronte) era fatta di una tempra dura, tutta casa e lavoro. Sarebbe stato impensabile mangiare senza lavorare.
Ma il boom covava sotto le ceneri dell’Italia
distrutta dalla guerra. L’Italia, in quegli anni, gettava le basi per la
crescita enorme che sarebbe passata alla storia con il nome di “boom economico”.
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