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Capitolo
Primo
Itzocar si svegliò
all’alba. La notte era trascorsa, nonostante tutto. Riprendendo coscienza di
sé, si rendeva conto finalmente di cosa fosse successo. Gli eventi si erano accavallati
troppo in fretta per poterli subito focalizzare freddamente. Adesso, nel fresco
del mattino non ancora riscaldato dal sole nascente, la sua mente ricostruiva
quanto successo il giorno prima. I servi, come di consueto, gli avevano fatto
trovare il latte di capra appena munto. Sorseggiandolo, come in un lampo,
rivide suo figlio Damasu sollevare il braccio contro di lui; Elki cadere sotto
il suo tremendo fendente; suo figlio, con la sorpresa e il terrore dipinti sul
viso, gettare il suo pugnale per terra e scappare; poi era scoppiato il caos.
Una cosa era certa, oggi come ieri: quel colpo era diretto a lui; suo figlio voleva
ucciderlo.
Perché? Che cosa aveva
sbagliato con il suo primogenito? Quali torti aveva commesso nei suoi
confronti? Non lo aveva forse fatto designare, dopo avere superato la prova di
ammissione tra i guerrieri, a succedergli come capo tribù? Non gli aveva assegnato,
in parti uguali con suo fratello Rumisu, un gregge di mille capi di bestiame?
Ma allora, perché? Cosa c’era dietro quel gesto così insano, così folle, così
contro natura? Solo una smodata voglia di assurgere al potere prima del tempo?
Eppure non aveva letto
alcun odio negli occhi del figlio, quando per un interminabile istante, era
rimasto con la mano levata che stringeva ancora il coltello insanguinato di
quel sangue fraterno che doveva essere il suo. Meraviglia e paura, forse anche vergogna, per avere osato
tanto, per avere fallito;
ma non vi aveva letto
odio; no, suo figlio non poteva odiarlo. Nella storia del suo villaggio, e
nelle altre storie che si tramandavano per bocca dei vecchi cantadores,
si era sentito di figli che odiavano i padri, sino a ucciderli, o a venirne
uccisi; ma mai a tradimento; piuttosto in un’ordalia, che a volte i padri
accettavano per lasciare che gli dei delle acque sacre decretassero chi ancora fosse
il più forte, legittimato a comandare,
nel villaggio. E mai, mai, un figlio
aveva osato macchiare la cerimonia sacra del rientro e della riconsegna delle
insegne del comando.
Una domanda salì alla
mente del capo tribù, come un lampo improvviso: chi aveva armato la mano di suo
figlio?
Intanto, in preda a queste
riflessioni, era giunto in vista al recinto dove Rumisu si apprestava a
liberare le sue greggi per condurle al pascolo. Lo vide, prima ancora di
sentirlo, raggruppare gli animali, con quei movimenti e quei richiami che un
pastore ripete con la solennità che gli proviene dall’innato costume a dominare
le greggi, ma senza violenza o malanimo, quasi con amore, come se animali e
uomini fossero una sola entità, sacra e da rispettare. Al contrario del fratello,
Rumisu si era da subito dedicato alla cura delle greggi, con tutta l’anima e
con tutto se stesso. Avevano sposato due sorelle e sua moglie gli aveva già dato due figli, un maschio e una femmina.
«Bentornato, padre», esclamò quando fu a portata di voce.
No, Rumisu non c’entrava
per niente in quella brutta storia. Era rimasto sorpreso anche lui per il gesto
del fratello. Gli aveva letto ancora incredulità e sorpresa sul viso, quando Damasu
era fuggito via, e lui finalmente, passato quel drammatico istante, si era reso conto di
tutto e si era guardato attorno, per vedere se il pericolo fosse cessato con la
fuga del suo mancato assassino.
«Grazie figlio mio. Mi
aiuti a scegliere due caprette da immolare agli dei delle acque per richiedere
la guarigione di Elki? Sceglile tra le mie, naturalmente».
«Se permettete, padre,
vorrei sceglierne due delle mie. Voglio offrirle io in sacrificio».
«Sì, certo! Agli dei piaceranno
doppiamente!» assentì con intimo giubilo Itzocar. «Mandamele con uno dei servi
alla residenza dei sacerdoti, giù al pozzo sacro».
«Sarà fatto».
«Vienimi a trovare coi tuoi figli quando
sarai rientrato dai pascoli».
«Va bene», rispose Rumisu
salutando il padre, che subito si avviò in direzione del pozzo sacro.
Il sole adesso era già ben
visibile all’orizzonte e illuminava il villaggio che piano, piano riprendeva
vita. I pastori lasciavano le capanne, dopo averle rifornite del latte per la
colazione e adesso si sarebbero recati ai pascoli con le loro greggi, mentre le
donne avrebbero provveduto alle loro incombenze domestiche. Questa era la vita
del villaggio, da tempo immemore; neanche le feste e le cerimonie, pur
frequenti e attese dagli abitanti, riuscivano a cambiare.
Le capanne occupate dai
sacerdoti si estendevano tutt’attorno al pozzo sacro, come per proteggere il
regno degli dei delle acque. Lì era stato sistemato il fido amico Elki. Chissà
come aveva trascorso la notte, l’uomo che gli aveva salvato la vita. Sua moglie
era certo che quel gesto di protezione fosse stato premeditato dal grande
sacerdote. Non aveva saputo o voluto predisporre alcun’altra difesa contro quel
parricidio annunciato; per paura che allertando le guardie coinvolte nel
complotto, i traditori potessero essere messi sul chi vive e magari decidere
una modalità più complessa per il loro sanguinario piano. Elki aveva valutato e
voluto il vantaggio della sorpresa che i suoi dei gli avevano offerto; e
l’aveva sfruttato, a rischio però della sua stessa vita. In cuor suo fu grato
all’amico e al sacerdote che aveva rischiato la sua vita per lui. «Gli dei
danno e gli dei prendono», pensò ancora. Per un uomo che lo voleva morto, ce
n’era stato un altro che lo aveva salvato dalla morte. Solo che il primo era suo
figlio! Quel pensiero sembrò afferrargli il cuore e strizzarlo sino ad
espungervi tutto il sangue, in uno stillicidio infinito. Sarebbe mai guarito da
quell’afflizione?
Ma adesso occorreva
reagire! E subito! Ci sarebbe stato tempo per piangere, dopo! Adesso doveva
stanare tutti i traditori che si celavano nel villaggio.
Damasu non poteva aver
agito da solo. Non era un pazzo. Gli venne in mente che in quel terribile
istante, in cui lui lo aveva colto, subito dopo il gesto omicida, per una
frazione di secondo suo figlio aveva indugiato con lo sguardo rivolto alla
folla, come se si aspettasse un aiuto concreto, un sostegno, un intervento in
suo favore. A chi aveva rivolto suo figlio quello sguardo che cercava soccorso?
Evidentemente doveva sapere che in mezzo alla folla c’erano delle persone che
stavano dalla sua parte; ma queste persone chi erano? E perché non erano
intervenute in suo aiuto?
Cercò di sforzarsi di
ricordare: lo sguardo di Damasu che cercava soccorso si era diretto alla sua
sinistra, verso uno dei due ingressi del recinto sacro, quello settentrionale,
da cui era rientrato, seguito da una moltitudine di persone. Oltre al suo seguito,
tutti quelli che si erano accodati a lui, all’ingresso nel recinto; mentre gli
altri, quelli alla sua destra li aveva trovati già schierati, quando si era
diretto al sedile a lui riservato, nella serie ininterrotta che correva lungo
la circonferenza del recinto in pietra. Era impossibile battere la pista della
memoria. Ci voleva qualcos’altro per ricostruire quei terribili eventi.
Sembrava che Manai, il
numero due della gerarchia sacerdotale del villaggio, lo aspettasse, quando
giunse in prossimità del pozzo sacro.
«Come ha passato la notte
il nobile Elki?» gli chiese subito il re dopo i convenevoli di rito.
«L’ho vegliato tutta la
notte. Sono riuscito a cacciar via il demone del ferro che gli ha morso le
carni: a forza di impacchi di acqua fresca del pozzo; poi gli ho indotto il
sonno con un decotto a base di acacia, cardo, genziana e melissa. E gli sono
stato al fianco tutto il tempo».
«Ha parlato?», chiese
ancora Itzocar con un gesto di apprezzamento per le cure profuse all’uomo che gli
aveva salvato la vita.
«Solo frasi senza senso,
prima che io gli levassi l’eccessivo calore dal corpo».
«Ce la farà?» domandò poi
osservando il suo amico sacerdote che dormiva con un viso disteso.
«Credo di sì. Gli dei
sono con lui e ha un fisico ancora forte».
«Intendo offrire due
capretti agli dei dell’acqua per la sua guarigione. Poi ho bisogno di riunire
il Gran Consiglio. Puoi presenziare al posto di Elki?»
«Sarà un onore per me presenziare,
o re di Kolossoi! Mi farò sostituire al capezzale di Elki e verrò subito dopo
il sacrificio».
«Bene, disse Itzocar! »
avviandosi. «Ecco il servo di Rumisu che giunge a proposito! Ti aspetto nella
sala delle udienze, subito dopo il sacrificio agli dei delle acque! Bada di non
contraddirmi se dirò che Elki ha fatto dei nomi!»
«Non oserei mai fare una
cosa del genere, mio re!» rispose Manai.
Anche se il potere
religioso godeva di una certa indipendenza, il
capo tribù Itzocar era considerato al di sopra di tutti gli uomini del
villaggio. Solo gli astri e gli dei potevano più di lui, sulla terra.
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