giovedì 11 luglio 2024

Il popolo delle torri

 


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Capitolo Primo

 

 

Itzocar si svegliò all’alba. La notte era trascorsa, nonostante tutto. Riprendendo coscienza di sé, si rendeva conto finalmente di cosa fosse successo. Gli eventi si erano accavallati troppo in fretta per poterli subito focalizzare freddamente. Adesso, nel fresco del mattino non ancora riscaldato dal sole nascente, la sua mente ricostruiva quanto successo il giorno prima. I servi, come di consueto, gli avevano fatto trovare il latte di capra appena munto. Sorseggiandolo, come in un lampo, rivide suo figlio Damasu sollevare il braccio contro di lui; Elki cadere sotto il suo tremendo fendente; suo figlio, con la sorpresa e il terrore dipinti sul viso, gettare il suo pugnale per terra e scappare; poi era scoppiato il caos. Una cosa era certa, oggi come ieri: quel colpo era diretto a lui; suo figlio voleva ucciderlo.

Perché? Che cosa aveva sbagliato con il suo primogenito? Quali torti aveva commesso nei suoi confronti? Non lo aveva forse fatto designare, dopo avere superato la prova di ammissione tra i guerrieri, a succedergli come capo tribù? Non gli aveva assegnato, in parti uguali con suo fratello Rumisu, un gregge di mille capi di bestiame? Ma allora, perché? Cosa c’era dietro quel gesto così insano, così folle, così contro natura? Solo una smodata voglia di assurgere al potere prima del tempo?

Eppure non aveva letto alcun odio negli occhi del figlio, quando per un interminabile istante, era rimasto con la mano levata che stringeva ancora il coltello insanguinato di quel sangue fraterno che doveva essere il suo. Meraviglia  e paura, forse anche vergogna, per avere osato tanto, per avere fallito;

 

 

 

ma non vi aveva letto odio; no, suo figlio non poteva odiarlo. Nella storia del suo villaggio, e nelle altre storie che si tramandavano per bocca dei vecchi cantadores, si era sentito di figli che odiavano i padri, sino a ucciderli, o a venirne uccisi; ma mai a tradimento; piuttosto in un’ordalia, che a volte i padri accettavano per lasciare che gli dei delle acque sacre decretassero chi ancora fosse  il più forte, legittimato a comandare, nel villaggio.  E mai, mai, un figlio aveva osato macchiare la cerimonia sacra del rientro e della riconsegna delle insegne del comando.

Una domanda salì alla mente del capo tribù, come un lampo improvviso: chi aveva armato la mano di suo figlio?

Intanto, in preda a queste riflessioni, era giunto in vista al recinto dove Rumisu si apprestava a liberare le sue greggi per condurle al pascolo. Lo vide, prima ancora di sentirlo, raggruppare gli animali, con quei movimenti e quei richiami che un pastore ripete con la solennità che gli proviene dall’innato costume a dominare le greggi, ma senza violenza o malanimo, quasi con amore, come se animali e uomini fossero una sola entità, sacra e da rispettare. Al contrario del fratello, Rumisu si era da subito dedicato alla cura delle greggi, con tutta l’anima e con tutto se stesso. Avevano sposato due sorelle e sua moglie gli  aveva già dato due figli, un maschio e una femmina.

«Bentornato, padre»,  esclamò quando fu a portata di voce.

No, Rumisu non c’entrava per niente in quella brutta storia. Era rimasto sorpreso anche lui per il gesto del fratello. Gli aveva letto ancora incredulità e sorpresa sul viso, quando Damasu era fuggito via, e lui finalmente, passato  quel drammatico istante, si era reso conto di tutto e si era guardato attorno, per vedere se il pericolo fosse cessato con la fuga del suo mancato assassino.

«Grazie figlio mio. Mi aiuti a scegliere due caprette da immolare agli dei delle acque per richiedere la guarigione di Elki? Sceglile tra le mie, naturalmente».

«Se permettete, padre, vorrei sceglierne due delle mie. Voglio offrirle io in sacrificio».

«Sì, certo! Agli dei piaceranno doppiamente!» assentì con intimo giubilo Itzocar. «Mandamele con uno dei servi alla residenza dei sacerdoti, giù al pozzo sacro».

«Sarà fatto».

«Vienimi a trovare coi tuoi figli quando sarai rientrato dai pascoli».

«Va bene», rispose Rumisu salutando il padre, che subito si avviò in direzione del pozzo sacro.

Il sole adesso era già ben visibile all’orizzonte e illuminava il villaggio che piano, piano riprendeva vita. I pastori lasciavano le capanne, dopo averle rifornite del latte per la colazione e adesso si sarebbero recati ai pascoli con le loro greggi, mentre le donne avrebbero provveduto alle loro incombenze domestiche. Questa era la vita del villaggio, da tempo immemore; neanche le feste e le cerimonie, pur frequenti e attese dagli abitanti, riuscivano a cambiare.

Le capanne occupate dai sacerdoti si estendevano tutt’attorno al pozzo sacro, come per proteggere il regno degli dei delle acque. Lì era stato sistemato il fido amico Elki. Chissà come aveva trascorso la notte, l’uomo che gli aveva salvato la vita. Sua moglie era certo che quel gesto di protezione fosse stato premeditato dal grande sacerdote. Non aveva saputo o voluto predisporre alcun’altra difesa contro quel parricidio annunciato; per paura che allertando le guardie coinvolte nel complotto, i traditori potessero essere messi sul chi vive e magari decidere una modalità più complessa per il loro sanguinario piano. Elki aveva valutato e voluto il vantaggio della sorpresa che i suoi dei gli avevano offerto; e l’aveva sfruttato, a rischio però della sua stessa vita. In cuor suo fu grato all’amico e al sacerdote che aveva rischiato la sua vita per lui. «Gli dei danno e gli dei prendono», pensò ancora. Per un uomo che lo voleva morto, ce n’era stato un altro che lo aveva salvato dalla morte. Solo che il primo era suo figlio! Quel pensiero sembrò afferrargli il cuore e strizzarlo sino ad espungervi tutto il sangue, in uno stillicidio infinito. Sarebbe mai guarito da quell’afflizione?

Ma adesso occorreva reagire! E subito! Ci sarebbe stato tempo per piangere, dopo! Adesso doveva stanare tutti i traditori che si celavano nel villaggio.

Damasu non poteva aver agito da solo. Non era un pazzo. Gli venne in mente che in quel terribile istante, in cui lui lo aveva colto, subito dopo il gesto omicida, per una frazione di secondo suo figlio aveva indugiato con lo sguardo rivolto alla folla, come se si aspettasse un aiuto concreto, un sostegno, un intervento in suo favore. A chi aveva rivolto suo figlio quello sguardo che cercava soccorso? Evidentemente doveva sapere che in mezzo alla folla c’erano delle persone che stavano dalla sua parte; ma queste persone chi erano? E perché non erano intervenute in suo aiuto?

Cercò di sforzarsi di ricordare: lo sguardo di Damasu che cercava soccorso si era diretto alla sua sinistra, verso uno dei due ingressi del recinto sacro, quello settentrionale, da cui era rientrato, seguito da una moltitudine di persone. Oltre al suo seguito, tutti quelli che si erano accodati a lui, all’ingresso nel recinto; mentre gli altri, quelli alla sua destra li aveva trovati già schierati, quando si era diretto al sedile a lui riservato, nella serie ininterrotta che correva lungo la circonferenza del recinto in pietra. Era impossibile battere la pista della memoria. Ci voleva qualcos’altro per ricostruire quei terribili eventi.

Sembrava che Manai, il numero due della gerarchia sacerdotale del villaggio, lo aspettasse, quando giunse in prossimità del pozzo sacro.

«Come ha passato la notte il nobile Elki?» gli chiese subito il re dopo i convenevoli di rito.

«L’ho vegliato tutta la notte. Sono riuscito a cacciar via il demone del ferro che gli ha morso le carni: a forza di impacchi di acqua fresca del pozzo; poi gli ho indotto il sonno con un decotto a base di acacia, cardo, genziana e melissa. E gli sono stato al fianco tutto il tempo».

«Ha parlato?», chiese ancora Itzocar con un gesto di apprezzamento per le cure profuse all’uomo che gli aveva salvato la vita.

«Solo frasi senza senso, prima che io gli levassi l’eccessivo calore dal corpo».

«Ce la farà?» domandò poi osservando il suo amico sacerdote che dormiva con un viso disteso.

«Credo di sì. Gli dei sono con lui e ha un fisico ancora forte».

«Intendo offrire due capretti agli dei dell’acqua per la sua guarigione. Poi ho bisogno di riunire il Gran Consiglio. Puoi presenziare al posto di Elki?»

«Sarà un onore per me presenziare, o re di Kolossoi! Mi farò sostituire al capezzale di Elki e verrò subito dopo il sacrificio».

«Bene, disse Itzocar! » avviandosi. «Ecco il servo di Rumisu che giunge a proposito! Ti aspetto nella sala delle udienze, subito dopo il sacrificio agli dei delle acque! Bada di non contraddirmi se dirò che Elki ha fatto dei nomi!»

«Non oserei mai fare una cosa del genere, mio re!» rispose Manai.

Anche se il potere religioso godeva di una certa indipendenza, il  capo tribù Itzocar era considerato al di sopra di tutti gli uomini del villaggio. Solo gli astri e gli dei potevano più di lui, sulla terra.

 

 

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