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In quell’anno
scolastico 1970-1971 ero approdato alla terza classe dell’istituto Tecnico per
Ragionieri “Leonardo da Vinci” di Cagliari.
Proprio in quell’anno mi ero accorto di avere sbagliato scuola: la Ragioneria e la Tecnica Commerciale, materie di indirizzo, mi annoiavano a morte, mentre studiavo sempre più volentieri l’italiano, la storia e le lingue straniere; per fortuna iniziammo a studiare il diritto e l’economia; tutto sommato potevo sopravvivere senza cambiare scuola; avrei studiato anche le materie professionali, almeno il bastante per arrivare alla sufficienza. D’altronde non è che i professori potessero ammazzarci di studio.
Qualcuno
l’avrebbe anche voluto (noi li chiamavamo “fascisti e reazionari”) ma ormai
eravamo troppo impegnati nella lotta contro le vecchie istituzioni scolastiche
e chiedevamo a gran voce di essere arbitri dei nostri destini.
I nostri
professori e le istituzioni più in generale, dal Preside sino al ministro della
P.I. (quell’anno, se le fonti e la memoria non mi ingannano era il
democristiano Misasi), d’altro canto, si scoprirono abbastanza impreparati a
fronteggiare quella protesta rumorosa e convinta, tanto più incontrollabile,
quanto più essa era sorta in maniera spontanea e non organizzata.
Il terzo anno,
nella Ragioneria, così come, credo, in tutti gli istituti superiori, è un anno
cruciale.
Intanto di
solito si cambia di corso (io infatti fui trasferito dal corso F al corso D).
In secondo luogo si studiano delle materie del tutto nuove.
Così fu anche
per me in quell'ottobre del 1970.
I miei nuovi professori erano assai diversi tra loro. Intanto c'erano quelli delle materie così dette di indirizzo: Ragioneria e Tecnica (che trattava tre specializzazioni diverse nel corso del triennio: commerciale, mercantile e bancaria); oggi, nella moderna ragioneria le due materie sono state unificate sotto il nome di Economia Aziendale, ma all'epoca, come dicevo, vi erano due materie e due insegnanti.
Il professore di Ragioneria era un uomo tutto
d'un pezzo. Si chiamava Murru. Quando entrava in classe noi ci levavamo tutti
in piedi, in segno di saluto e di rispetto (ma lo facevamo per tutti i docenti
indistintamente).
Col braccio destro levato in aria e la mano tesa ci ordinava di sedere senza pronunciare parola. Ma i suoi occhi chiari e freddi scrutavano attenti tutta la classe; quello sguardo era eloquente più di qualunque parola, così come quel saluto solenne e ormai fuori moda: se non parlo io che sono il capo, sembrava dire il bellicoso professore di ragioneria, perché dovreste farlo voi, che siete dei poveri studenti, ancora senza arte né parte (e chissà se mai ce l'avrete con quei cappellacci lunghi e con quelle minigonne)?
Si lavorava in
silenzio e sodo. Io mi ero rassegnato, dopo due anni di latitanza, ad occupare
il primo banco (sempre per via della storia che i piccoletti dovevano stare
avanti).
Da lui, oltre
al saluto caratteristico ricordo altre due cose: la prima è che ripeteva spesso
che i sindacati, soprattutto quelli di fede socialista, sono la
rovina dell'Italia (narrava, a metà tra il serio ed il faceto, che i
sindacalisti erano dappertutto e che se uno di noi, un domani, rientrando a
casa, avesse scovato nell'armadio o sotto il letto un uomo, non ci sarebbe
stato alcun bisogno di chiedergli i documenti: si sarebbe trattato di un
sindacalista di fede socialista); la seconda era la tecnica che aveva per
ricordare gli articoli del codice civile (questa tecnica mi tornò poi utile
anche all'università per memorizzare i quattro codici).
Un giorno che ci spiegava il contratto di
società, citando l'art. 2247 c.c., disse che ricordava quel numero facilmente,
essendo nato nel 1922 ed essendosi poi sposato nel 1947; e faceva queste
associazioni per
tutti o quasi
gli articoli del codice civile; così, concludeva, li aveva potuti memorizzare
tutti.
Della sua
materia non ricordo un beato picchio. Non mi piaceva (forse perché non mi
piaceva lui; o magari, viceversa, non mi piaceva lui, perché mi era antipatica
la sua materia).
Era un uomo
freddo e distante; sicuramente preparato (si intuiva che nella sua materia non
era uno sprovveduto), non vi era però alcuna emozione nel trasmettere la sua
scienza.
Quando anni
dopo, sono divenuto un insegnante, ho messo l'emozione e la passione al pari
con la preparazione e la conoscenza; ma io ho sempre amato le materie che ho
insegnato; ho amato ed amo insegnare, anche se adesso lascerei volentieri il
posto a uno più giovane (ma pare che la riforma Fornero-Monti mi abbia bloccato
in cattedra sino a 67 anni!).
È vero anche che i tempi sono cambiati. Oggi i giovani non accetterebbero quella severità e quella distanza glaciale che ci separava dai nostri professori.
Io pendevo
dalle labbra dei miei professori perché volevo imparare da tutti e di tutto! Ed
ero come una spugna, desideroso di apprendere!
Oggi i giovani
hanno a portata di click, tramite il PC o il Tablet, o meglio ancora l’I-phone
e il cellulare, tutto lo scibile possibile e immaginabile in qualsiasi campo
della scienza e di ogni altro campo della vita!
Altro che
giornaletti e fumetti! Altro che sognare "Le Ore!" Adesso bastano tre
lettere sulla barra di Google e tutto il bello e il brutto della vita ti
si spalanca davanti agli occhi!
Peccato che
questi giovani, troppo spesso, facciano un uso distorto e superficiale di
questa portentosa invenzione chiamata Internet; di questa rete infinita di
autostrade e sentieri, di valli e praterie, percorsi aerei, marini e terrestri
che si chiama WEB!
Io ammiro davvero l'ingegno umano! Ma ripeto ancora: meno male che gli altri uomini non sono come me! Altrimenti altro che World Wide Web! Noi saremmo ancora nelle caverne, arrostendo il frutto della caccia e nelle interminabili sere d'estate, siederemmo ancora attorno al fuoco, ad ascoltare dai poeti erranti, le vicende antiche delle nostre genti, tramandate oralmente di padre in figlio, da maestro a discente, da poeta ad allievo!
Del professore
di Tecnica non ricordo bene il cognome. Ricordo che la moglie era un'insegnante
e che il fratello era medico sociale del Cagliari Calcio (che di lì a poco
avrebbe vinto lo scudetto del massimo campionato di calcio, grazie alle reti
eccezionali del grande Gigi Riva e a dispetto dei soldi investiti invece dai
grandi club delle città più ricche e famose d'Italia: Milano, Torino e Roma).
Aveva una barca, ormeggiata in inverno a Marina Piccola (dove ormeggiano le barche da diporto dei cagliaritani facoltosi e non solo), e in estate ormeggiata in giro per il Mediterraneo. Faceva il commercialista e l'assicuratore (più il secondo che il primo, a onor del vero). L'assicuratore marinaio aveva mangiato la foglia e doveva essersi detto nelle sue riflessioni, tra una polizza assicurativa e una manovra di trinchetto: a questi giovani qui non gli va di fare un beato cacchio.
Vogliono la rivoluzione, il sei
politico, la promozione garantita; fanno gli scioperi, vogliono le assemblee e
la pari dignità studenti-professori!
Ebbene,
accontentiamoli! In un discorso alquanto serio ci aveva quindi detto: se volete
lavorare, io son qua! Usatemi come si usa uno strumento e farò ciò che volete!
Detto e fatto!
A noi ragazzi non ci andava di far niente (io men che meno nella sua materia)!
Alle ragazze sentir parlare di strumento doveva aver fatto venire in mente
delle altre fantasie, dato che il professore si presentava più alla mano
rispetto a quello di ragioneria. E comunque si associarono a noi maschi per non
far niente.
Ricordo anche
degli altri professori.
Naturalmente quello di diritto e di economia, materie che amavo e che amo ancora, come ho già avuto modo di dire! Anche se non erano le mie preferite!
Le materie che
mi appassionavano maggiormente erano invece l'Italiano e la Storia. Le ho
sempre apprezzate! Sicuramente anche per merito delle professoresse e dei
professori che hanno avuto la pazienza di decifrare la mia quasi impossibile
grafia, nei lunghi temi in cui sfogavo la mia verve di imberbe scrittore!
E la storia? Come si può non amare la storia?
Come ci si può annoiare a leggere quei libri dove vengono narrate le gesta dei
nostri avi? Dove ci sono scritti i segreti e le spiegazioni di ciò che fummo e
le anticipazioni di ciò che saremo?
La mia
professoressa del triennio si chiamava Annamaria Chessa; non ricordo però il
nome di battesimo della sorella, anche lei insegnante di lettere, ma nel corso
C. Nonostante ci desse del lei (ma tutti i docenti davano del lei agli studenti
nella nostra scuola) e nonostante la sua cattedra fosse distante e sopraelevata
su di una imponente pedana, io la sentivo vicina; emanava una grande umanità e
una notevole empatia la legava a noi studenti.
Ha cercato di
insegnarmi a esercitare uno spirito critico e una intelligenza libera da
pregiudizi; si preoccupava, oltre che dell'insegnamento, anche della formazione
di noi giovani, trasmettendoci il senso del dovere anche con il suo esempio.
Io credo che un
vero e buon insegnante debba prima di tutto dare il buon esempio: un cittadino
si forma con l'esempio di giustizia, di lavoro, di rettitudine, di onestà, di
puntualità, di disponibilità nel servizio e di studio e preparazione continui
ed ininterrotti. Il buon esempio vale più di mille parole! E lei, in questo, fu
esemplare per davvero!
Mi sono
ispirato anche a lei nei primi anni del mio insegnamento (anche se gli studenti
mi pregavano di dargli del tu ed io, dopo poco tempo, ho preso a chiamarli
perfino con il nome di battesimo!).
Non si lavorò comunque molto in quei primi mesi dell'anno scolastico 1970-1971.
Lo sciopero era sempre nell'aria e noi
rivendicavamo il diritto di riunirci e di discutere dei problemi del mondo e
non soltanto di scuola e di argomenti legati al programma.
Cominciai in
quell'anno a scioperare con maggiore convinzione anche io. Nella mia scuola vi
era un gruppo di organizzatori entusiasti e capaci; erano tutti ragazzi di
quarta e di quinta; qualcuno era impegnato anche politicamente.
Molti erano semplicemente del movimento studentesco, quello non politicizzato, che si occupava soltanto dei temi della scuola, rivendicando diritti allora quasi impronunciabili: assemblee di classe, assemblee di istituto, rappresentanza nelle istituzioni, diritto a conoscere i voti, diritto di interagire e discutere alla pari con i docenti; diritto di contestare e di ribellarci; diritti, solo diritti e sempre diritti. Gli adulti furono molto pazienti con noi. Alcuni, anche fra i politici, erano perfino impauriti. Tirava una brutta aria e certi studenti sembravano non avere alcuna voglia di scherzare.
Altri uomini
politici erano semplicemente dei dritti: gente che aveva studiato prima e più
di noi e che sapeva che se ci avessero affrontato di petto, rischiavano il
tracollo; presi così, invece, di fianco, forse ci saremmo stancati prima noi!
La ribellione sembrava comunque epocale! Secondo me era il prosieguo della
rivoluzione dei Figli dei Fiori! Insomma avevamo scoperto che il mondo poteva
essere nostro e volevamo prendercelo, tutto e subito!
Chi erano quei
matusa grigi e senza fantasia per impedire a noi giovani di essere noi stessi?
Come potevano impedirci di vivere le nostre esperienze? E perché soltanto i
ricchi potevano andare a scuola? La cultura non era forse di tutti? E il potere
non doveva essere del popolo, come insegna la parola democrazia?
A questi cori confusi ed indistinti, ma forti e mirati, si aggiungevano quelli delle femministe: sesso libero; no al maschilismo; il sesso ce lo vogliamo gestire da noi; abbasso i padri e i mariti padroni! A morte il paternalismo!
Lavoro per
tutti! Pillola, aborto e divorzio garantiti! Vogliamo la parità coi maschi! E
così via gridando, manifestando e protestando!
Arrivammo così
a dicembre. La resa dei conti dopo le schermaglie dell'ennesimo autunno caldo.
Si
fronteggiavano due Italie: una vecchia, rivolta al passato, appoggiata dalla
Chiesa e dalla classe politica democristiana e liberale; l'altra, proiettata
verso il futuro, rivolta in avanti, appoggiata dai comunisti, dai socialisti e
dai radicali di Marco Pannella.
E chi può dire
cosa sia meglio nel cammino dell'uomo? Non è che a forza di andare avanti
finiremmo col cadere in un burrone senza fondo? Cosa c'è dietro dell'angolo di
questo infinito progresso, di questa ricerca senza fine, di questo spasmodico
ritmo che travolge il passato ed è incentrato sul futuro, senza se e senza ma?
Ripeto sempre ed ancora che per fortuna gli altri uomini non sono come me! Altrimenti saremmo ancora nelle caverne ad arrostire il frutto della caccia con archi e frecce, a raccontare le antiche storie tramandate da padre in figlio, adorando la luna nelle notti di plenilunio.
A gennaio, dopo
le vacanze di Natale, si rientrava a scuola e si riprendeva a frequentare
regolarmente.
Succedeva
sempre e quell'anno 1971 non fece eccezione. Anche se occorre sottolineare che
nella scuola c'era fermento anche tra i docenti, che rivendicavano degli
aumenti stipendiali che dei governi fragili non erano riusciti a garantire
(ricordo, oltre ai monocolore democristiani, i più frequenti quadripartiti con
il PSI di Nenni e Di Martino che poi diverrà solo di Bettino Craxi, il PRI
di Ugo La Malfa e di Giovanni Spadolini e il PLI di Valerio Zanone, che
divennero più tardi governi di pentapartito, con l'aggiunta del Partito
socialdemocratico, sino ai primi anni novanta, quando le inchieste giudiziarie
di Tangentopoli spazzeranno via tutta quella classe politica) .
Sia detto per chiarezza, anche se per inciso, che dal ciclone di tangentopoli sembrò salvarsi soltanto il PCI; qualcuno pensò che il motivo stesse nel fatto che i giudici della procura di Milano e di quelle che la imitarono nell'inquisire i politici corrotti, fossero degli uomini di sinistra.
Ma il motivo è
un altro: i comunisti, a livello nazionale, non riuscirono mai ad entrare e
diedero solo degli appoggi esterni nei momenti topici della vita del Paese; il
povero Aldo Moro pagò con la vita il tentativo di far sedere i comunisti ai
posti di comando, nei palazzi del potere nazionale; povero Aldo Moro, chissà se
voleva farli entrare per dimostrare che anche i comunisti erano corruttibili
come e più degli altri politici (Enrico Berlinguer a parte), come poi
dimostreranno nelle sedi del potere regionale e, più tardi, con altri
nomi, anche alla guida dei governi nazionali (ma qui parliamo già dell'oggi; e
la strada da percorrere è ancora lunga).
In quei primi mesi del 1971, attraverso i giornali, la radio e la televisione apprendiamo dell'esistenza dei Tupamaros uruguaiani e degli Halcones messicani; Tito si reca in Vaticano da Paolo VI (primo leader comunista a visitare un papa cattolico); a proposito di comunisti, quelli cinesi di Maotzetung e Ciuenlai aprono al dialogo con gli USA con il pretesto del Ping-Pong (disciplina in cui i Cinesi sono bravissimi); si parla moltissimo in Italia anche di un colpo di stato organizzato dalla destra, su imitazione di quello avvenuto in Grecia nello stesso anno, per portare i militari al governo.Sembra che l'anima del fallito golpe sia stato il principe Junio Valerio Borghese, un pluridecorato eroe, militare e militarista. Viene trovata anche la lista dei 500, una lista con 500 nomi di politici, imprenditori, militari e semplici cittadini (tra cui figurano nomi che vediamo ancora adesso in TV: Berlusconi, Cicchito, Costanzo); sembra che questa lista sia legata a un certo Licio Gelli, grande maestro della massoneria, anticomunista, poeta (che abbia ragione Francesco De Gregori? I poeti sono un imbroglio! O era Roberto Vecchioni? Ora non ricordo davvero...) e grande organizzatore. Si sente inoltre parlare per la prima volta di Gladio, un'organizzazione, anch'essa segreta, come la P2 di Licio Gelli, che sottotraccia deve monitorare la politica italiana, pronta ad intervenire nel caso i comunisti, con le buone (attraverso normali elezioni) o con le cattive ( Lotta Continua, Potere Operaio, i gruppuscoli marxisti-leninisti, la stessa Unità ed altri movimenti comunisti più o meno ufficiali, più o meno clandestini, perfino gruppi terroristici in via di azione e formazione, come le Brigate Rosse e i GAP, che si faranno sentire molto di più in futuro, in effetti continuano ad inneggiare alla rivoluzione proletaria) assumano il potere. Insomma, si vive in un gran bailamme di notizie non confermate, di sospetti, di intrighi e di misteri.
Potevo io, coi miei poveri diciassette anni, neppure compiuti, riuscire a dipanare quelle matasse aggrovigliate di complotti, di intrecci politici, di associazioni segrete, di poteri occulti, quando in realtà non avevo neppure presenti e chiari i poteri palesi e istituzionali (peraltro fragili e perfino poco autorevoli e scarsamente indipendenti in un mondo che sembrava dominato alla grande dal gigante USA)?
Infatti non li
capivo. Protestavo, come tanti giovani di allora, contro la corruzione, lo
strapotere democristiano, l'imperialismo americano, l'arroganza dei ricchi, le
scarse opportunità offerte ai figli dei proletari, lo sfruttamento degli
operai, la scarsa libertà, il perbenismo interessato (come cantava il grande
Francesco Guccini), la voglia e il desiderio di un mondo diverso, con più
uguaglianza, con una più equa distribuzione della ricchezza, con più lavoro e
più benessere per tutti. Protestavo perchè intuivo, più che capire, che era il
momento di far sentire la nostra voce, la voce dei deboli, di coloro che erano
stati zitti per lunghi anni, forse per decenni o addirittura per secoli!
Ma il 1968 (e
gli anni di riverbero e prosecuzione) non sarà stato il prosieguo dei moti del
1848?
Ci sarà un filo comune che lega le ribellioni di ogni tempo contro il potere costituito, contro ogni forma di oppressione, contro chi si arroga il diritto di tenere per sé tutta la ricchezza che si produce, prima nelle terre e nelle miniere, poi nelle industrie e nelle fabbriche?
Forse la vita è
soltanto un susseguirsi di sopraffazioni cui fanno seguito delle illusioni, dei
sogni, delle ribellioni, delle piccole, provvisorie conquiste; eppoi,
inevitabile, subentra nuovamente la repressione che si riprende, con gli
interessi e la vendetta, quello che ha dovuto cedere obtorto collo!!!
Mi sembra di
averlo letto, forse nei libri di storia; o in qualche romanzo; o forse nei
giornali. O magari l'ho inventato io! Però mi sembra che sia proprio così!
Ed a pensarci
bene, certi misteri e certi intrecci italiani non li ho capiti neppure oggi che
negli -anta ci sono da molti decenni!
A giugno arrivò
un'altra promozione diretta.
Promosso alla
quarta classe, diceva la pagella!
Potrà sembrare buffo ma leggendo quella pagella io mi chiesi se sarei stato all'altezza di quella promozione! Sarei stato capace di organizzare gli scioperi, di condurre dei dibattiti, di affrontare il preside e i professori con il piglio che esercitavano quei fratelli maggiori che andavano diplomandosi (seppure con fatica, visto che i professori, stanchi di chiedere, senza esito, gli aumenti stipendiali, proprio quell'anno bloccarono gli scrutini degli studenti licenziandi di ogni ordine e grado!).
Dicono che per
maturare, ciascuno di noi debba percorrere i suoi sentieri; e dicono anche che
questi sentieri siano sempre costellati di errori, ingenuità e fraintendimenti,
frutto della nostra inesperienza, della nostra spavalderia, del nostro
carattere, più o meno forte, più o meno profondo, più o meno riflessivo; frutto
della nostra cifra intellettiva, ma anche di ciò che abbiamo vissuto, del latte
cha abbiamo succhiato, dell'aria che abbiamo respirato, della cultura di cui
siamo stati imbevuti sin dai nostri primi passi sulla terra. Frutti del mistero
chiamato uomo.
Io amavo
ascoltare la canzone "Un fiume amaro", nella traduzione dal greco
proposta dalla voce di Iva Zanicchi.
E mi crogiolavo così, in quella età incerta che chiamano adolescenza, dove non si è ancora uomini e non si è più ragazzi. E si vorrebbe essere un’altra persona, da un'altra parte della terra, in un luogo ideale, dei sogni che non si avverano mai, ma senza dei quali non possiamo vivere.
Tra i brani
stranieri preferivo "My sweet
Lord!" di George Harrison, e mi chiedevo chi fosse mai quel Dio
cantato dal più mistico dei Beatles (ormai sulla via dello scioglimento, se non
addirittura in Tribunale per la divisione del loro immenso patrimonio).
Sicuramente era un Dio, pensavo io nella mia
ignoranza, diverso da quello dei papi del nepotismo rinascimentale, grandi
predicatori e voluttuosi razzolatori, un Dio diverso da quello che risiedeva
nel Vaticano dei mille misteri e dei ricchi cardinali; delle chiese e delle
prediche così distanti da noi poveri giovani, in cerca di libertà e piacere a
basso e pronto consumo.
Forse era un Dio permissivo e generoso, che riusciva a parlare e ispirare i musicisti del movimento rock; un Dio giovane e moderno, non un vecchio barbone semiaddormentato nei cieli che non riusciva a vedere le storture e le ingiustizie del mondo; che non riusciva a fermare le sempiterne guerre dell'uomo, le sue avidità, la sua prepotenza, la sua violenza.
Beata
presunzione della prima età! Come se i peccati dell'uomo non fossero un frutto
dell'uomo stesso, ma fossero da addebitare ad un'entità esterna e responsabile
delle nefandezze umane!
Ma in
fondo la canzone che ascoltavo con maggiore coinvolgimento emotivo, in
assoluto, era "Samba pa ti" di Carlos Santana (un altro
mistico che cercava Dio). Con le sue note vibrava il mio stesso corpo al
contatto con altri corpi, nei balli che riuscivo a strappare nelle balere di
provincia, dove la domenica cercavo di dimenticare i miei enigmi esistenziali.
Nell’estate del ’71 mio fratello Pietro Marino, che in aperto dissenso con la strategia di espansione aziendale che nostro padre aveva perseguito per anni, se n’era andato via di casa per tentare, in solitario, la sua fortuna commerciale, aveva trasferito il suo esercizio dalla periferica via Cagliari alla centralissima via Roma della cittadina di Samassi, un centro abitato confinante con la zona di influenza dell’azienda paterna, dove mio padre era comunque conosciuto, sin da quando, subito dopo la guerra, aveva iniziato come ambulante la sua attività di artigiano orologiaio e successivamente di rivenditore al minuto di orologi, sveglie, articoli da regalo, oreficeria e gioielleria.
La sua
ribellione, che in realtà aveva serpeggiato sotto traccia sin da quando mio
padre lo aveva ritirato dalla scuola pubblica per avviarlo alla sua scuola di
orologiaio(come ho già avuto modo di narrare all’attento lettore), era esplosa
apertamente, per una magica e strana coincidenza, proprio nel 1968. In
quell’anno infatti il mio fratello maggiore aveva compiuto i 21 anni (che
all’epoca segnavano per legge il compimento della maggiore età con la
possibilità, condizioni economiche permettendo, di affrancarsi dal giogo
genitoriale).
A parte quella coincidenza, mio fratello Marino al movimento rivoluzionario del ’68 non sembrava attribuire troppa importanza, se non per criticarlo e addirittura esecrarlo per i suoi eccessi.
La sua
ribellione non era infatti contro una società che, spinta da quelle forze
misteriose che l’uomo ha imparato ad etichettare come rivoluzioni e progresso,
la sottopongono a continui e perenni trasformazioni, ma bensì contro
l’autoritarismo paternalistico di nostro padre.
Che poi, se
vogliamo, a ben vedere, era un modo pragmatico e personale di fare il ‘68. Che
altro non fu quel movimento, se non una ribellione contro l’autoritarismo ed il
potere costituito a favore di una maggiore libertà e di una più autentica
democrazia?
Pur tuttavia
mio fratello a parole e nei fatti aborriva la protesta giovanile; denigrava i
capelloni, propugnava sonore legnate per gli studenti e i lavoratori
scansafatiche e per i sindacalisti che li appoggiavano nei continui e rumorosi
scioperi.
Rifuggiva dalle mode che tentavano e di fatto omologavano tutto e tutti, quasi imponendo comportamenti consumistici di massa; odiava la sinistra extraparlamentare e i comunisti ortodossi allo stesso modo; detestava le femministe, per non parlare delle droghe e di ogni altra forma di evasione che andasse fuori dai binari tradizionali.
E non di meno,
gli slogan della sua lotta contro l’autorità paterna, erano stati ”viviamo in
un regime di libertà!” “il sabato e la domenica li voglio liberi!” “il
ventennio è finito da un pezzo!” e così via protestando.
Qualche mese
dopo il compimento della sua maggiore età (Marino era nato nel mese di dicembre
del 1947) mio padre, forse anche per riconquistare la sua fiducia, aveva
comprato, come ho già avuto modo di dire, uno spazioso e luminoso locale
commerciale a 5 minuti dalla stazione ferroviaria di Cagliari.
Di comune
accordo mio fratello aveva impiantato all’interno dell’esteso locale un piccolo
laboratorio artigianale completo del necessario per riparare gli orologi.
Vi era un moderno banchetto da lavoro in legno, con una serie di cassetti laterali di diverso spessore, un ripiano centrale, con rientranza a mezzaluna, illuminato da una lampada alogena e con un reparto a scomparsa, sottostante, che conteneva l’attrezzeria mobile di uso comune: l’apricassa, un paio di cacciaviti, le pinze a becchi tondi, la lente d’ingrandimento, l’estrattore per vetri, lo stantuffo, la spazzola; le pinzette finissime, gli oleatori, le boccette degli acidi, del grasso e dell’olio stavano sul ripiano rigido oppure protetti nei cassetti, comunque sempre chiusi dalle apposite protezioni.
E naturalmente vi era tutto il necessario per le sostituzioni e i ricambi di routine per gli orologi meccanici di allora: corone, alberi e molle di carica; vetri infrangibili; assortimento di assi per bilancieri di orologi non incabloc (ancora molto diffusi, quando cadevano per terra oppure prendevano un colpo abbastanza forte, si spezzava l’asse del bilanciere e occorreva per l’appunto sostituirlo); un vasto assortimento di cinturini, sfere delle ore, dei minuti e dei secondi e una infinità di ansette, viti, ingranaggi, rocchetti, perni e mollette a volte quasi invisibili a occhio nudo.
Ma fosse per
colpa dell’idiosincrasia che da subito mio fratello aveva mostrato verso quel locale (che per lui era diventato
l’emblema della programmazione centralizzata e antidemocratica di mio padre) o
fosse a causa della posizione non
proprio centrale del locale (mio fratello da subito aveva contestato, insieme
all’idea espansionistica di mio padre, anche la scelta del locale, che lui
avrebbe voluto vicino al centro commerciale che allora, più di oggi, era
costituito dall’asse viario e pedonale via Mannu-via Garibaldi oppure vicino al
mercato di via San Benedetto, ancora oggi
il vero cuore pulsante della Cagliari commerciale) o magari fu mio
fratello che, inconsciamente, voleva
dimostrare l’inopportunità e l’errore di quell’acquisto, fatto sta che il
laboratorio non progredì e, dopo alcuni mesi mio fratello si era trasferito,
armi e bagagli, a Samassi.
Come dicevo, nell’estate del ’71 aveva abbandonato il vecchio locale di via Cagliari, dove per tutta l’estate del ’70 io gli avevo fatto compagnia (ero più un supporto psicologico che un aiuto al banco di vendita, dato che l’afflusso della clientela non era rilevante e al banco delle riparazioni, in presenza di mio fratello, avrei potuto soltanto guardare per cercare di imparare qualcosa), e si era trasferito in via Roma.
Il cambio di
negozio non giovò soltanto agli affari (che subirono un notevole incremento) ma
anche e soprattutto all’umore e alla salute di mio fratello che parvero
rifiorire da quelle lande di depressione e malessere in cui sembravano essere
scivolate dopo la sua grande ed eclatante rivolta contro i disegni egemonici di
mio padre.
I clienti
entravano ed uscivano in continuazione, soprattutto la sera.
Mio fratello
vendeva con discrete capacità ed io lo affiancavo per vedere che qualche
mariuola dalle mani svelte, approfittando magari di un suo momento di
distrazione, facesse sparire qualche oggetto d’oro.
”Stai attento soprattutto se vedi qualche avvenente ragazza che mette in mostra le tette!” – soleva ripetere mio fratello per darmi la carica.
Quando vi era
più di un cliente anche io ero autorizzato a servire al banco, sia per la
vendita di oggettistica minuta, sia per sostituire un cinturino o altre facili
operazioni.
Il periodo più
calmo era a fine mattinata. Il negozio chiudeva alle 13,00 ma alle 11,30 in
giro non si vedeva molta gente. Anche a Samassi, come in tutti i paesi a
vocazione agricola della zona, il pranzo è rigorosamente previsto alle 12,00.
Mio fratello ne
approfittava per fare le riparazioni. Io lo guardavo affascinato, come avevo
fatto qualche anno prima al seguito di mio padre. Era preciso e delicato
esattamente come il suo maestro. Solo che al contrario di lui, mio fratello
amava chiacchierare durante il lavoro di riparazione al banco (a parte in quei
rari momenti topici in cui il lavoro richiedeva un’applicazione particolare e
massimo silenzio).
Se era di
malumore mi parlava della sua infanzia disgraziata, di quanto avrebbe voluto
studiare invece di essere stato brutalmente messo a bottega; degli errori
di
In fatto di donne, mio fratello era un grande esperto; si prodigava infatti in un vero profluvio di pillole di saggezza sulla materia: a cominciare dal carattere delle donne e sulla loro psicologia instabile e umorale; e sulle loro apparenti virtù di castità e ritrosia; sulla inutilità di stabilire con loro relazioni stabili e sulla convenienza a farsi delle avventure, senza scrupoli e senza rispetto. Aveva in generale poca stima del sesso femminile; alcune categorie sociali erano da lui etichettate come poco di buono, da evitare come la peste: erano le parrucchiere e le infermiere, a suo dire, tutte ragazze di facili costumi, da non considerare per eventuale relazione stabile, tutt’al più, se fossero state “bone”, da inforcare e via. Mi raccomandava di non lasciar correre le numerose occasioni che, fortunato com’ero, lui non si sarebbe certo fatto sfuggire, nel mondo corrotto e libertino della scuola, dove le donne cercavano una cosa sola; e bisognava dargliela!
Lui sì che
avrebbe provveduto alla grande! E guai se io mi fossi tirato indietro.
Io avrei
preferito dei consigli più pratici, magari su come corteggiare una donna, come
conquistarla, su quale fosse stato l’approccio più corretto per entrare in quel
mondo femminile così ricco, per me, di attrattiva, di fascino e di mistero; ma
mio fratello era un fiume in piena e non sembrava attribuire alla psicologia un
ruolo rilevante; le donne, secondo lui, erano delle bambole da conquistare, da
trombare e da mollare.
Oggi capisco
che quelle sue contumelie erano il risultato di tutte le delusioni che lui
aveva avuto nei suoi rapporti con il c.d. gentil sesso.
Perché queste
delusioni gli fossero occorse non so spiegare nei dettagli, perché lui non si
confidava con nessuno sulle sue vicende private.
Posso però supporre che il mio caro e sfortunato fratello sia in qualche modo rimasto vittima della sindrome del bravo ragazzo di cui le donne sembrano essere, a loro volta, vittime (qualcuno la chiama la sindrome della crocerossina; non so però se i due paradigmi affettivi coincidano davvero).
È noto comunque
che le donne siano attratte più dalle simpatiche canaglie che dai bravi
ragazzi.
Mio fratello
era sicuramente un bravo ragazzo, affidabile, con un’ottima posizione economica
eppure con le donne non ebbe mai fortuna.
Guardandomi in
giro ho visto spesso delle ragazze molto carine e pulite, accompagnarsi con dei
ceffi dall’aspetto poco raccomandabile.
Mio padre, a
tal proposito, ripeteva spesso che se fosse nato donna, sarebbe morto vergine,
perché mai si sarebbe fatto toccare da certi elementi maschili, neppure con una
canna di venti metri!
Io allora vedevo le donne come delle dee, da adorare e venerare; sicuramente da rispettare e da amare, ma mai da considerare come una merce di consumo, da pagare per delle prestazioni sessuali; e neppure dei corpi di cui godere, per poi scappare, in cerca di altro piacere, come sembravano suggerire le teorie di mio fratello ma anche di tanti altri uomini di mentalità maschilista. Eppure questa attrattiva che i cattivi esercitavano sulle donne; questa loro attitudine a legarsi sentimentalmente con dei caratteri arroganti, con degli spavaldi, quando anche non perfino delinquenti e malvagi, per me rimane un mistero irrisolto e, forse, irrisolvibile.
Può darsi che sia soltanto un problema di sicurezza interiore. Ho avuto modo, in periodi diversi della mia vita, di appurare che le donne sono attratte da un carattere stabile, fermo e sicuro; magari per contrasto con il loro carattere, in fondo volubile e, se non altro, fisicamente più fragile. E a volte, ai loro occhi, un bravo ragazzo è soltanto un carattere insicuro e fragile (e si sa che i simili si respingono); mentre gli opposti si attraggono; ed ecco spiegata la loro attrazione per i supermachos motorizzati, che vivono ai margini della legge e che non hanno altre sicurezze nella vita che il loro ego smisurato e la loro boria.
Eppure i
femminicidi che si susseguono oggi a ritmo impressionante, mostrano al
contrario una grande fragilità psicologica nei maschi e allo stesso tempo
sembrano dar ragione però a una certa attitudine all’autodistruzione e ai guai
che le donne hanno sempre mostrato di avere, sin nella scelta dei loro uomini.
Così passò
anche quell’estate del 1971, tra grandi discorsi, inestricabili misteri e
canzonette facili che mio fratello metteva alla radio in sottofondo, quando non
ascoltava chiamate Roma 3131 o altri programmi radiofonici pseudo-culturali.
Tra le canzoni
che più ho amato, in quell’anno, oltre a quelle già menzionate nei capitoli
precedenti, mi piace ricordare “Ed io tra di voi” e “L’istrione” di Charles
Aznavour; “Donna felicità” dei Nuovi Angeli; “Pensieri e parole” del grande
Lucio Battisti (e di Mogol Giulio Rapetti).
Quando tornammo a Cagliari, preludio all’inizio dell’anno scolastico, imparai da un amico quattro accordi alla chitarra ( Do, La minore, Re minore e Sol). Davvero ben poca cosa se si pensa che in questo stesso anno i Led Zeppelin pubblicano “Stairway to Heaven”, David Bowie “Ziggy Stardust” e i Rolling Stones “Brown Sugar”.
Ma io li avrei conosciuti
soltanto qualche anno più tardi. Quell’anno conobbi “Jimi Hendrix” ed il
suo meraviglioso “Electric Ladyland” grazie a uno scambio che feci con
un amico che nel darmi la cassetta di Hendrix in cambio di una che io
avevo di Orietta Berti (non ne ricordo il titolo, né come l’avessi avuta,
perché in realtà non l’avevo mai neppure ascoltata) mi disse di pensarci bene,
perché stavo facendo il peggiore affare della mia vita e che lui era disposto a
darmela senza niente in cambio, perché comunque lui ne avrebbe guadagnato
qualcosa già nel liberarsene.
Io ascoltai per anni, in estasi, quelle meravigliose composizioni musicali, quella magica chitarra, quella voce che sembrava arrivare da un altro mondo. Solo più tardi scoprii che dietro quelle composizioni musicali, così come per quelle dei Led Zeppelin, dei Rolling Stones, di David Bowie e di tanti altri artisti della musica rock c’era davvero un altro mondo, fatto di esperienze vissute attraverso il consumo di sostanze stupefacenti, dalle più leggere e forse innocue, a quelle più pesanti e micidiali. Tanto ciò è vero che molti di questi artisti sono morti per l’abuso di queste sostanze stupefacenti.
Ma all’epoca io
ero davvero all’oscuro di queste esperienze, che feci soltanto più tardi negli
anni, quando mi recai a Londra, in cerca neppure io saprei dire di cosa. E
anche di questo avrò modo di parlare in seguito al paziente ed affezionato
lettore, se vorrà continuarmi a seguire.
Io però,
all’epoca, non vedevo l’ora di tornare a scuola. Lì, più che in casa mia,
trovavo la mia dimensione ideale.
E poi adesso mi
aspettava la quarta. Stavo diventando grande, anche se non me ne accorgevo.
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