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Anno Scolastico 1962-63
Dopo l’esperienza di Giorgino tornai al mio paese, dove mi aspettava il fiocco giallo della terza elementare.
Le nuove scuole elementari di via Matta non erano state ancora ultimate, per cui il Comune comunicò ai genitori che i propri figli avrebbero continuato a frequentare le scuole elementari nel vecchio Convento dei Cappuccini.
Tornai così nell’antico edificio seicentesco, secolarizzato con la legge del 29 maggio 1855, la prima di una serie di leggi con cui il Regno di Sardegna prima, e il Regno d’Italia poi, acquisirono l’ingente patrimonio ecclesiastico al patrimonio statale, nell’ambito di quel movimento politico ed economico teso a combattere la c.d. “manomorta”, ovvero l’accumulo delle proprietà immobiliari nelle mani degli ordini religiosi.
Il Convento era stato assegnato al Comune nel 1866, con l’obiettivo di adibirlo a scopi di natura pubblica.
Ci avrebbe pensato poi Mussolini, nel 1929, coi Patti Lateranensi, a risarcire la Chiesa per quelle espropriazioni, contribuendo così a costituire il primo nucleo di quella gestione finanziaria che grazie a uomini onesti e capaci come l’ing. Bernardino Nogara e ad ecclesiastici, non meno capaci, ma sicuramente meno onesti, come il cardinale Marcinkus, ha portato il Vaticano, ed il suo braccio finanziario, lo IOR, al vertice delle potenze finanziarie off shore, o paradisi fiscali che chiamar li si voglia, del mondo globalizzato.
Ma a quel tempo certe cose non si sapevano; e se qualcuno le sapeva non veniva certo a dirle a noi.
Insomma queste scuole si trovavano in uno dei quartieri storici del mio paese: su Guventu, che comprendeva, oltre alle strade attorno al vecchio convento dei Cappuccini, anche la via Cimitero, che univa il camposanto e la Piazza Chiesa, attraverso la via Roma.
L’altro quartiere storico era quello che si snodava attorno alle vie Siviller e alla via Baronale costruite attorno al Castello quattrocentesco dei Marchesi di Alagon e di Siviller, antichi feudatari del re Aragonese Martino, fiero avversario della giudicessa Eleonora d’Arborea, poi decaduti in epoca sabauda.
Infine c’era il mio quartiere, relativamente nuovo, ricompreso tra la Piazza del Municipio, la stazione ferroviaria e lo Zuccherificio (che allora produceva alla grande, dando lavoro a un sacco di gente, direttamente e indirettamente, con l’indotto, come si usa dire oggi).
Ognuno di questi quartieri aveva la sua banda di ragazzini. Quella de su Guventu era capeggiata da Mariano, un tipetto dalla fama da duro, che non permetteva ai ragazzini degli altri quartieri di entrare nel suo, senza buscarle di santa ragione. Ricordo una sfida epica con lui e la sua banda, fatta di lanci di pietre (a mano libera e con la fionda, “su tirallasticu”, che noi stesso realizzavamo con una forcella di legno di fico a “Y”, due strisce di camera d’aria in disuso e una pezzetta di cuoio forata ai lati).
In testa porto ancora il ricordo di quella e di altre sfide: “is staffeddasa”, ovvero dei tagli visibili sulla cute, dovute all’impatto con i sassi taglienti.
A me toccava di stare in prima fila. L’obbligo mi discendeva dal fatto che io ero stato prescelto come capo-banda. Non tutti, però, erano stati concordi nella scelta del capo; mi ricordo in particolare un caro amico di quei tempi andati: Rodolfo; avevamo la stessa età ma lui era più alto e robusto di me; quindi rivendicò per sé, non so dietro a quale altro pretesto, la leadership; mi sfidò apertamente un pomeriggio d’estate, levandosi la maglietta e mostrando la corazza di cuoio che gli copriva tutto il busto e che, a suo dire, lo rendeva invincibile e degno del comando. Più tardi mi confessò che si trattava di un busto ortopedico che gli era stato prescritto per risistemare non so bene quale sporgenza ossea; ma in quel momento credetti soltanto che si trattasse di un escamotage inventato per togliermi il bastone del comando faticosamente conquistato.
Alla vista di quella corazza, che Rodolfo scoprì con un urlo di minacciosa sfida, tutti i componenti della banda ammutolirono di colpo; ma quando capirono che non intendevo cedere il comando senza lottare si disposero in cerchio attorno a noi; ci studiammo a lungo, con finte e occhiatacce di sfida; io intuii che se mi avesse afferrato, corazza o non corazza, mi avrebbe stritolato; allora, istintivamente, escogitai un trucco che mi sarebbe servito negli anni a venire per atterrare avversari ben più temibili: mi lanciai in avanti afferrandolo dietro ai polpacci; poi, tirando con forza verso di me, lo atterrai pesantemente; paradossalmente, quella corazza, che lui credeva il suo punto di forza, si dimostrò invece quell’handicap che in effetti era, impedendogli di divincolarsi dalla presa in cui lo avevo steso, con il peso del corpo e le mie ginocchia sulle scapole che lo inchiodavano a terra. Alla mia affannosa domanda “t’arrendisi?” , lo spaventato amico non poté fare altro che rispondere con un mesto assenso e il boato della banda decretò la mia vittoria; Rodolfo si dimostrò un valido e leale luogotenente in tutte le nostre scorribande.
Il capo banda del quartiere “Castello”era un certo Francischeddu. Con lui ricordo un litigio nei gradini del bar di Isidoro (“su bar de Sidoru”, lo chiamavamo noi in Sardo) che mi procurò il distacco e la perdita di tutti i bottoni della mia prima camicia (la ricordo bene perché era la mia prima camicia, una camicia che, come usava al tempo, era stata di uno dei miei fratelli più grandi; una camicia verde, mezze maniche con taschino), ma anche il rispetto di Francischeddu col quale, se pure non diventammo amici, almeno ci salutavamo senza più guardarci in cagnesco.
A scuola ci assegnarono il maestro Camerini, un siciliano che divenne amico di mio padre; a parte il difetto di pronuncia (quaccio più quaccio fa occio, somaro!) si dimostrò un ottimo insegnante, che istituì il servizio bibliotecario (allora sconosciuto al mio paese) avviando alla lettura decine di scolari (me compreso) che conobbero così “Il piccolo Lord”, “I ragazzi della via Paal”, “Incompreso” e i classici senza tempo: “Pinocchio”, “Ventimila leghe sotto i mari”, “I tre Moschettieri”.
Alla radio impazzavano Paul Anka, Celentano, Modugno, Gene Pitney, Adamo e Bobby Solo (con la celeberrima “Una lacrima sul viso”) e Gigliola Cinquetti con la sua indimenticabile “Non ho l’età”, vincitrice del Festival di Sanremo in quell’anno 1964.
Ma la nostra età, invece, avanzava, eccome! Adesso la mia età si scriveva con due cifre e ci aspettava la quarta elementare, nelle scuole nuove di zecca, finalmente più vicine a casa!
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