domenica 11 agosto 2024

Memorie di scuola

 

Prima media
Anno scolastico 1965-1966

 

 

Ci sono dei momenti, nella vita di ciascuno di noi, in cui ci sentiamo sospinti da una forza invisibile che, come una corrente misteriosa, ci conduce da qualche parte, non importa dove. E non importa neppure dove noi vogliamo andare. E’ la forza misteriosa che ci spinge; è lei che sa dove noi dobbiamo andare.

Di questi momenti nella mia vita ne ho vissuti di diversi. Per esempio nel 1968, quando la protesta studentesca mi trascinò, piano, piano, anno dopo anno, fin sulle  sulle barricate di una rivolta epocale, tremenda, cieca che voleva distruggere tutto e finì col distruggere gli aspiranti distruttori (mi fermò soltanto la mia idiosincrasia per ogni forma di violenza e di potere, il mio pacifismo convinto e idealista, il mio desiderio di conoscenza; lo stesso che mi spinse a Londra, al tramonto della rivoluzione, quando un’altra forza mi afferrò e mi spinse nelle lande nebbiose di Albione; ma di questo parlerò più avanti).

Nel 1965, al momento di scegliere la scuola media, fu ancora una forza misteriosa a spingermi verso Arborea.

Quell’anno, i neo-licenziati maschi della quinta elementare del mio paese, scelsero di iscriversi al collegio che i Salesiani, con tanto onore, tenevano ad Arborea (la vecchia colonia fondata dai Veneti, chiamata prima Mussolinia, ed allora, come oggi, ridente ed attiva cittadina dell’oristanese, molto attiva nella produzione latto-casearia). Lì, i valenti sacerdoti di San Giovanni Bosco, formavano i futuri sacerdoti del clero sardo, prima attraverso un’adeguata istruzione nella scuola media unificata e, successivamente, per i più dotati e pervicaci, attraverso il ginnasio e il liceo classico.

In questa corrente, che di mistico e di religioso, come poi i fatti dimostrarono, non aveva molto,  io mi immisi di buon grado, complice il desiderio di mia madre di vedere almeno uno dei figli maschi con la tonsura e la tonaca nera da prete (mia mamma non ne faceva alcun mistero; anzi, a voce alta invocava il buon Dio perché le facesse la grazia di un figlio prete; ma, poveretta, fallì con me, come aveva fallito prima con un fratello maggiore e come fallì qualche anno dopo con uno dei fratelli minori!).

Così, senza una grande vocazione, mi ritrovai nel Seminario di Arborea. Occorre dire che ancora in quegli anni sessanta era molto vivo quel movimento, iniziato subito dopo la guerra, che spingeva i giovani in Seminario anche senza vocazione. Le famiglie sapevano che in quei luoghi di studio e di meditazione, venivano assicurate, in cambio di una modesta retta mensile (che per i più bisognosi veniva coperta dagli stessi Salesiani), una cultura ed un’istruzione adeguate, congiuntamente a un vitto e  a un alloggio decorosi (che non tutte le famiglie potevano assicurare ai numerosi figli che la Provvidenza e la mancanza della televisione mandavano alle coppie precoci e fertili di allora).

La maggior parte di questi aspiranti sacerdoti lasciavano il seminario alla vigilia dei voti e si ritrovavano sul mercato del lavoro con un diploma di laurea che, quantomeno, spianava la strada all’insegnamento nelle discipline umanistiche.

Mia madre, appoggiata da mio padre che, seppure anticlericale viscerale, non voleva ostacolare le sue aspirazioni celesti, mi dotò di un ricco e copioso corredo e così iniziò la mia carriera ecclesiastica (che, come il paziente lettore potrà dappresso appurare, non fu invero molto lunga).

Arrivai qualche giorno prima dell’inizio dell’anno scolastico, a fine settembre (in quegli anni l’anno scolastico iniziava ancora ad ottobre).

Del primo giorno, oltre all’odore delle saponette, della cancelleria e dei libri di testo, freschi di stampa, mi ricordo “il passo volante”.

Il passo volante era una specie di giostra, posizionata al centro dello sterminato  cortile che fungeva da parco giochi per le ore di ricreazione (indispensabili in ogni collegio dei Salesiani che si rispetti); la giostra era composta da un palo centrale al culmine del quale  ruotava  una corona dentata da cui si dipartivano delle catene che terminavano in altrettanti seggiolini di legno;   il giocatore, seduto a cavalcioni, spingeva con le gambe correndo attorno all’asse e, presa la rincorsa, spiccava il volo per poi atterrare, una volta esauritasi la spinta.

Mi cimentai in quel gioco in modo così azzardato che, ricordo ancora oggi, al termine di una corsa particolarmente spericolata, mi si avvicinò un sacerdote il quale mi chiese se mi sentissi bene.

In effetti io stavo benissimo; almeno finché si giocava al passo volante; mi piacevano anche il calcio, la dama e la pallamano. Come hobby culturale, tra il traforo e la legatura  dei libri, scelsi la legatoria; una passione per i libri cartacei che ancora mi porto appresso.

Di quell’anno scolastico 1965-1966 e di quella prima media ricordo con piacere lo studio indefesso cui i Salesiani,  con la notoria competenza,  ci sottoposero: latino, italiano, storia, francese erano le mie materie preferite; un poco meno amavo la matematica, la fisica e il disegno (in cui ero proprio negato); ma la mia pagella fu comunque più che buona; ricordo anche il mio impegno nei cantores e nei super cantores (un gruppo ristretto del coro, prescelto dall’organista per accompagnare le messe domenicali); mi accadeva inoltre di essere prescelto come lettore (in particolare della seconda lettura) alla messa della domenica. Insomma tutto faceva sembrare che il sogno di mia mamma potesse finalmente avverarsi!

Celentano cantava “Il ragazzo della via Gluck”, primo, grande manifesto ecologista, che ci avrebbe accompagnato fino a tutto il 1966 (e per gli anni a venire); Little Tony “Riderà”; I Rockes “E la pioggia che va”. I Beatles spopolavano con “Michelle”. Il ritornello faceva “I need you, I need you, I need you…”; e io, che non avevo ancora iniziato a studiare la lingua inglese, nella mia ingenuità capivo “Anita, Anita, Anita…”; anche perché una ragazza del mio vicinato, che così si chiamava,  girava in bicicletta lungo la strada su cui si affacciava il nostro negozio, mettendo in mostra le sue belle gambe; ed io pensavo che quelle attrazioni mobili meritassero quel ritornello così accattivante e melodioso.

A onor del vero mi piaceva molto anche studiare. Ricordo che Don Mancini, il direttore, che insegnava latino, per mostrarmi il suo apprezzamento, visto che i miei compiti erano sempre tra i migliori, mi assegnò il compito di rivedere i compiti dei miei compagni, per aiutarlo a identificare gli errori più vistosi. Anche in francese ero alquanto bravo. Occorreva memorizzare i verbi irregolari ed io, grazie all’esercizio della memoria che avevo sviluppato con lo studio delle tabelline, delle poesie e delle provincie italiane nelle scuole elementari, me la cavavo alla grande. In matematica non eccellevo ma, come diceva don Perucatti (si trattava di un diacono e non di un sacerdote, in quanto non aveva preso ancora i voti; ma vestiva come un prete e so che in seguito è divenuto un ottimo Salesiano) la sufficienza me la mettevo in tasca ben prima degli scrutini trimestrali.

Grazie alla mia voce squillante, ed alla buona intonazione, inoltre, venni inserito da Don Atzori (anche lui, come don Peruccati, era uno studente di teologia che non aveva preso definitivamente i voti, ma era sulla buona strada) nei Cantores (il gruppo base che cantava alle Messe) e, addirittura, nei SuperCantores (un gruppo ristretto, formato da dodici persone, che intonava i canti più difficili e solenni, nei momenti topici della funzione e che lo attorniava mentre lui suonava l’organo a canne). Quando non cantavo, ero adibito alla lettura della seconda lettura (di solito una delle lettere di San Paolo, oppure dei   Santi Apostoli Pietro, Giacomo, Giuda Taddeo o Giovanni Evangelista) per cui, nei giorni festivi, mi succedeva di presenziare a due e anche più Messe.

Eppure, nonostante questo mio agevole e variegato inserimento, qualcosa non funzionò.

Ma di questo vorrei scrivere nella prossima puntata.

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