Prima mediaAnno scolastico 1965-1966
Ci sono dei
momenti, nella vita di ciascuno di noi, in cui ci sentiamo sospinti da una
forza invisibile che, come una corrente misteriosa, ci conduce da qualche
parte, non importa dove. E non importa neppure dove noi vogliamo andare. E’ la
forza misteriosa che ci spinge; è lei che sa dove noi dobbiamo andare.
Di questi momenti
nella mia vita ne ho vissuti di diversi. Per esempio nel 1968, quando la
protesta studentesca mi trascinò, piano, piano, anno dopo anno, fin sulle
sulle barricate di una rivolta epocale, tremenda, cieca che voleva
distruggere tutto e finì col distruggere gli aspiranti distruttori (mi fermò
soltanto la mia idiosincrasia per ogni forma di violenza e di potere, il mio
pacifismo convinto e idealista, il mio desiderio di conoscenza; lo stesso che
mi spinse a Londra, al tramonto della rivoluzione, quando un’altra forza mi
afferrò e mi spinse nelle lande nebbiose di Albione; ma di questo parlerò più
avanti).
Nel 1965, al
momento di scegliere la scuola media, fu ancora una forza misteriosa a
spingermi verso Arborea.
Quell’anno, i
neo-licenziati maschi della quinta elementare del mio paese, scelsero di iscriversi
al collegio che i Salesiani, con tanto onore, tenevano ad Arborea (la vecchia
colonia fondata dai Veneti, chiamata prima Mussolinia, ed allora, come oggi,
ridente ed attiva cittadina dell’oristanese, molto attiva nella produzione
latto-casearia). Lì, i valenti sacerdoti di San Giovanni Bosco, formavano i
futuri sacerdoti del clero sardo, prima attraverso un’adeguata istruzione nella
scuola media unificata e, successivamente, per i più dotati e pervicaci,
attraverso il ginnasio e il liceo classico.
In questa
corrente, che di mistico e di religioso, come poi i fatti dimostrarono, non
aveva molto, io mi immisi di buon grado, complice il desiderio di mia
madre di vedere almeno uno dei figli maschi con la tonsura e la tonaca nera da
prete (mia mamma non ne faceva alcun mistero; anzi, a voce alta invocava il
buon Dio perché le facesse la grazia di un figlio prete; ma, poveretta, fallì
con me, come aveva fallito prima con un fratello maggiore e come fallì qualche
anno dopo con uno dei fratelli minori!).
Così, senza una
grande vocazione, mi ritrovai nel Seminario di Arborea. Occorre dire che
ancora in quegli anni sessanta era molto vivo quel movimento, iniziato subito
dopo la guerra, che spingeva i giovani in Seminario anche senza vocazione. Le
famiglie sapevano che in quei luoghi di studio e di meditazione, venivano
assicurate, in cambio di una modesta retta mensile (che per i più bisognosi
veniva coperta dagli stessi Salesiani), una cultura ed un’istruzione adeguate,
congiuntamente a un vitto e a un alloggio decorosi (che non tutte le famiglie
potevano assicurare ai numerosi figli che la Provvidenza e la mancanza della
televisione mandavano alle coppie precoci e fertili di allora).
La maggior parte
di questi aspiranti sacerdoti lasciavano il seminario alla vigilia dei voti e
si ritrovavano sul mercato del lavoro con un diploma di laurea che, quantomeno,
spianava la strada all’insegnamento nelle discipline umanistiche.
Mia madre,
appoggiata da mio padre che, seppure anticlericale viscerale, non voleva
ostacolare le sue aspirazioni celesti, mi dotò di un ricco e copioso
corredo e così iniziò la mia carriera ecclesiastica (che, come il paziente lettore
potrà dappresso appurare, non fu invero molto lunga).
Arrivai qualche
giorno prima dell’inizio dell’anno scolastico, a fine settembre (in quegli anni
l’anno scolastico iniziava ancora ad ottobre).
Del primo giorno,
oltre all’odore delle saponette, della cancelleria e dei libri di testo,
freschi di stampa, mi ricordo “il passo volante”.
Il passo volante
era una specie di giostra, posizionata al centro dello sterminato cortile
che fungeva da parco giochi per le ore di ricreazione (indispensabili in ogni
collegio dei Salesiani che si rispetti); la giostra era composta da un palo
centrale al culmine del quale ruotava una corona dentata da cui si
dipartivano delle catene che terminavano in altrettanti seggiolini di legno;
il giocatore, seduto a cavalcioni, spingeva con le gambe correndo
attorno all’asse e, presa la rincorsa, spiccava il volo per poi atterrare, una
volta esauritasi la spinta.
Mi cimentai in
quel gioco in modo così azzardato che, ricordo ancora oggi, al termine di una
corsa particolarmente spericolata, mi si avvicinò un sacerdote il quale mi
chiese se mi sentissi bene.
In effetti io
stavo benissimo; almeno finché si giocava al passo volante; mi piacevano anche
il calcio, la dama e la pallamano. Come hobby culturale, tra il traforo e la
legatura dei libri, scelsi la legatoria; una passione per i libri
cartacei che ancora mi porto appresso.
Di quell’anno
scolastico 1965-1966 e di quella prima media ricordo con piacere lo studio
indefesso cui i Salesiani, con la
notoria competenza, ci sottoposero:
latino, italiano, storia, francese erano le mie materie preferite; un poco meno
amavo la matematica, la fisica e il disegno (in cui ero proprio negato); ma la
mia pagella fu comunque più che buona; ricordo anche il mio impegno nei cantores
e nei super cantores (un gruppo ristretto del coro, prescelto
dall’organista per accompagnare le messe domenicali); mi accadeva inoltre di
essere prescelto come lettore (in particolare della seconda lettura) alla messa
della domenica. Insomma tutto faceva sembrare che il sogno di mia mamma potesse
finalmente avverarsi!
Celentano cantava
“Il ragazzo della via Gluck”, primo, grande manifesto ecologista, che ci
avrebbe accompagnato fino a tutto il 1966 (e per gli anni a venire); Little
Tony “Riderà”; I Rockes “E la pioggia che va”. I Beatles spopolavano
con “Michelle”. Il ritornello faceva “I need you, I need you, I need you…”; e
io, che non avevo ancora iniziato a studiare la lingua inglese, nella mia
ingenuità capivo “Anita, Anita, Anita…”; anche perché una ragazza del mio vicinato,
che così si chiamava, girava in bicicletta
lungo la strada su cui si affacciava il nostro negozio, mettendo in mostra le
sue belle gambe; ed io pensavo che quelle attrazioni mobili meritassero quel
ritornello così accattivante e melodioso.
A onor del vero
mi piaceva molto anche studiare. Ricordo che Don Mancini, il direttore, che
insegnava latino, per mostrarmi il suo apprezzamento, visto che i miei compiti
erano sempre tra i migliori, mi assegnò il compito di rivedere i compiti dei
miei compagni, per aiutarlo a identificare gli errori più vistosi. Anche in
francese ero alquanto bravo. Occorreva memorizzare i verbi irregolari ed io,
grazie all’esercizio della memoria che avevo sviluppato con lo studio delle
tabelline, delle poesie e delle provincie italiane nelle scuole elementari, me
la cavavo alla grande. In matematica non eccellevo ma, come diceva don
Perucatti (si trattava di un diacono e non di un sacerdote, in quanto non aveva
preso ancora i voti; ma vestiva come un prete e so che in seguito è divenuto un
ottimo Salesiano) la sufficienza me la mettevo in tasca ben prima degli
scrutini trimestrali.
Grazie alla mia
voce squillante, ed alla buona intonazione, inoltre, venni inserito da Don Atzori
(anche lui, come don Peruccati, era uno studente di teologia che non aveva
preso definitivamente i voti, ma era sulla buona strada) nei Cantores (il
gruppo base che cantava alle Messe) e, addirittura, nei SuperCantores (un
gruppo ristretto, formato da dodici persone, che intonava i canti più difficili
e solenni, nei momenti topici della funzione e che lo attorniava mentre lui suonava
l’organo a canne). Quando non cantavo, ero adibito alla lettura della seconda
lettura (di solito una delle lettere di San Paolo, oppure dei Santi
Apostoli Pietro, Giacomo, Giuda Taddeo o Giovanni Evangelista) per cui, nei
giorni festivi, mi succedeva di presenziare a due e anche più Messe.
Eppure, nonostante
questo mio agevole e variegato inserimento, qualcosa non funzionò.
Ma di questo
vorrei scrivere nella prossima puntata.
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