venerdì 6 settembre 2024

Memorie di scuola

 


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Seconda media
Anno scolastico 1966-67



Alla fine anno scolastico 65-66, come accennato in precedenza, venni promosso a pieni voti e così in estate potei ricongiungermi finalmente alla mia famiglia.

Debbo dire che il mio paese, la mia famiglia, i miei amici (a parte, ovviamente, quelli che avevano diviso con me i sacrifici della vita collegiale) mi erano mancati molto.

Al mio paese ritrovai tutto come prima. I campi assolati, le lunghe giornate d’estate che sembravano non finire mai. Le gite al fiume su mezzi improvvisati: sulla canna di una bicicletta o sul triciclo portabombole di Giorgio se si andava a “Funtananoba”, ma anche a piedi se si andava a “Sa Cascadedda” o a “Su Sifoi”.

Mio padre era drasticamente contrario che si andasse al fiume. Era proibito per i miei fratelli maggiori, figuriamoci per me. Lui manifestava a voce le sue paure, che lì, fra le canne del fiume, i vagabondi del paese (mio padre chiamava così quei ragazzi più grandi di noi che frequentavano il fiume regolarmente, vuoi per pescare, per nuotare o per semplice, spensierato vagabondaggio) potessero commettere degli abusi sessuali nei nostri confronti (o chissà, dentro di sé, aveva paura che i miei fratelli più grandi potessero abusare magari loro dei ragazzi più piccoli).

Io per non sbagliare, ci andavo di nascosto anche dei miei fratelli, così correvo meno rischi di essere scoperto.

E ad onor del vero io non sono mai stato sessualmente molestato in quelle innumerevoli volte in cui sono stato al fiume. Anche se debbo dire che mio padre non aveva in fondo tutti i torti.

Mi ricordo infatti un certo “Marieddu su tuffadori” (un ragazzo un po’ più grande di noi, così chiamato perché eseguiva dei tuffi davvero impossibili, da altezze per noi inimmaginabili) che si era fissato su uno dei miei coetanei, un certo Caddeo (se la memoria non mi inganna). Marieddu cominciò col dire, nel suo sardo colorito e turpe, una volta che Caddeo volgendoci le spalle, si dirigeva verso l’acqua per nuotare:

- ” Avete notato che il culo di Caddeo è bello come quello di una donna?” E ripeti oggi e ripeti domani, nella nostra fantasia di adolescenti a digiuno di tutto (e soprattutto, ovviamente, di donne) quel deretano bianco e formoso finì per apparirci desiderabile. Così un bel giorno, mentre Caddeo si trovava a mezza coscia già immerso nel fiume, Marieddu lanciò un urlo, incitandoci a cogliere quel frutto di femminile sembianza. Da buon capo branco fu il primo a lanciarsi verso l’ambita preda. E noi, stupidi inconsapevoli di un gioco che poteva volgersi in atroce dramma, lo seguimmo.

Caddeo difese con le unghie e con i denti (nel senso letterale dei termini) il frutto dei desideri insani di Marieddu e tutto finì in quegli spruzzi e in quelle spinte di giocosa eppur focosa incoscienza.

Per fortuna arrivò a mio padre la voce delle mie gite proibite al fiume. Così fui costretto, insieme a qualche altro fratello che col fiume non aveva niente a che vedere, all’odiata siesta pomeridiana (quanto poi l’avrei amata e desiderata negli anni seguenti lo dirò più avanti).

Io aspettavo che cominciasse a russare e poi me la svignavo alla grande; ovviamente, in tali casi, occorreva pianificare bene ed essere di rientro prima che mio padre si levasse per l’apertura del negozio (prevista per le 17,00). Ma in quel lasso di tempo era obiettivamente più difficile cacciarsi nei guai e combinare disastri.

Ma quando mio padre scoprì quel giochetto arrivò la misura più drastica, il massimo della pena: la sera sarei andato con lui in negozio, ad aiutarlo. Non che io fossi in grado di aggiustare gli orologi, intendiamoci; ma intanto avrei dovuto imparare a stare al banco di vendita (“quattro occhi vedono meglio di due” ripeteva sempre per invogliarmi a seguire il suo lavoro, soprattutto quando esponeva gli oggetti d’oro ai clienti visitatori); poi stando accanto a lui nel banco da lavoro avrei imparato ad eseguire i lavori più semplici: scoperchiare gli orologi dal fondello con l’apricassa, affilatissimo, senza graffiarlo; sostituire il vetro; sostituire le anse e il cinturino degli orologi; per poi passare a qualcosa di più complicato ma che comportava uno smontaggio solo parziale e limitato dell’orologio: la sostituzione di albero e corona di carica e la sostituzione della molla di carica (gli orologi elettronici, ovviamente, non c’erano ancora; più tardi, quando ero già studente universitario, presi l’abilitazione alla manutenzione degli orologi elettronici analogici, ma anche di questo vorrei parlare più avanti all’affezionato lettore).

Al rientro ad Arborea mi prese una grande malinconia. Gli amici del paese si erano tutti ritirati, o quasi. Eppure tutto sembrava come l’anno prima: l’accoglienza affettuosa dei precettori salesiani; il passo volante; l’odore profumato delle saponette, del bucato e del dentifricio nuovi di zecca; l’odore intenso della cancelleria comprata per l’occasione e quello di libri freschi di edizione.

Ma qualcosa era cambiato dentro di me; io non saprei dire cosa.

Ora mi pesavano di più la severità degli orari, la disciplina a tavola, dove non si poteva fiatare (pena dei rudi colpi in testa col campanello che i guardiani della sala da pranzo portavano con sé, ben saldi nelle mani dietro la schiena, nei giri di ronda tra i tavoli della refezione), io che ero abituato alla giocosa convivialità dei pranzi di famiglia, quando ci si trovava tutti insieme attorno alla tavola rotonda che mio padre aveva fatto costruire apposta dal falegname, per contenere comodamente tutti e dieci figli, mia nonna materna (che spesso soggiornava con noi per lunghi periodi), Mariangela (la ragazza che aiutava mia madre nelle faccende domestiche, che la sera rientrava a casa sua, per riprendere il servizio l’indomani mattina) e naturalmente mamma e papà.

Anche la notte, nel dormitorio, mi colpì una sorveglianza stretta e rigorosa che l’anno prima non avevo notato.

Forse eravamo diventati più maliziosi e quindi più pericolosi agli occhi dei nostri educatori; o forse fu il mio malessere a farmi travisare la realtà; fatto sta che a un certo punto ci fu qualcuno di noi che parlò di non meglio identificate molestie sessuali da parte di uno dei giovani precettori, neppure ancora consacrati. Preciso che si trattava del più severo e odiato dei giovani chierici; i suoi colpi di campanello alla testa erano micidiali e facevano male davvero (io ne porto ancora i segni in testa); ma preciso altresì che io non ho mai subito molestie sessuali da chicchessia, né ho mai assistito ad alcuna azione turpe o scurrile da parte di uno solo degli addetti al controllo e all’insegnamento di noi studenti. C’era molta severità, questo sì; anche mezzi di correzione manuali ( i temuti colpi di campanello alla testa ne erano un esempio eclatante) e anche pedestri (i calci nel sedere ai più riottosi e discoli di noi non erano certo rari) ma mai gesti sconvenienti, neppure simulati.

E aggiungo che noi eravamo, in linea generale, una masnada di indisciplinati, chiacchieroni e scansafatiche; e secondo me i calci in culo e i colpi di campanello ce li siamo meritati tutti (e anche di più).

Ma io, quando vidi che i miei genitori facevano resistenza alle mie richieste insistenti di rientrare a casa, usai la diceria delle molestie sessuali che si era diffusa in collegio, come leva per vincere la resistenza dei miei genitori.

Nessuno, in casa, mi chiese dei particolari su quella stupida diceria, per cui non ebbi bisogno di inventare niente di niente.

La diceria esisteva e si era diffusa e io la avvertii come minaccia (o forse la sfruttai a mio comodo). Ma ripeto che a me non risulta per niente che ci sia stata, in quel collegio e in quel tempo da me speso come studente interno al Seminario, alcuna molestia di natura sessuale in danno dei ragazzi. E d’altronde è comprovato che mai ci fu alcuna denuncia contro alcuno degli educatori, giovani o vecchi, laici o clericali che essi fossero.

Quando le mie richieste si erano fatte più insistenti, una domenica sera, mio padre e mia madre vennero a riprendermi. Per me fu una liberazione.

Il viaggio di rientro passò quasi nel completo silenzio, non so se dovuto all’ imbarazzo di mio padre, alla delusione di mia madre o alla mia emozione per aver ottenuto l’agognato rientro.

Mio padre interruppe il silenzio soltanto una volta. E fu per dire in tono asciutto:” Non pensare di trovare l’America in casa!”

Il che voleva dire, nel gergo da lui prediletto, che non mi avrebbe dato modo di spassarmela troppo (forse pensava ancora alle mie scorribande al fiume o per i campi assolati).

Invece mio padre aveva in mente uno dei suoi colpi di scena. Una delle sue intuizioni felici, da noi figli non sempre capite appieno, frutto del suo desiderio di elevare una famiglia numerosa al livello economico delle più grandi imprese familiari regionali.

Ma di questo suo intuito vorrei parlare più diffusamente in un’altra occasione, se il lettore affezionato me ne vorrà dare agio.

La mia ventata di riacquistata libertà durò veramente poco: il tempo di un trimestre scolastico per l’esattezza.

Insomma, non avevo fatto ancora in tempo ad apprezzare appieno la mia nuova classe (finalmente una classe mista, con tante ragazze; dopo aver vissuto segregato in un ambiente dove le uniche gonnelle erano quelle dei preti, questo sì che era un grande risultato!) che mio padre calò il suo jolly! Contrordine: si torna in Sicilia!

Veramente più che un ritorno, per me, per mia madre e per la turba dei miei fratelli minori (tutti eccetto uno che fu piazzato da mia nonna, nel paese natio di mia madre) si trattava di una assoluta novità (beh, a onor del vero, mia madre era stata in Sicilia in viaggio di nozze, tanti anni prima, ma si era trattato di un soggiorno breve e nel paesello di montagna in cui era nato mio padre).

Per farla breve mio padre, in preda al mal di Sicilia, aveva pensato che la Sardegna era troppo stretta e limitata per le sue ambizioni imprenditoriali. Sicuramente avrà giocato un ruolo importante anche la nostalgia (mica esiste solo il mal d’Africa! Esiste anche quello di Sicilia, oltre che quello di Napoli e di Sardegna!) della sua terra.

Pertanto mio padre aveva congegnato di costituire una specie di testa di ponte: mia madre, io e gli altri fratelli più piccoli di me ci saremmo trasferiti a Spadafora, in provincia di Messina, dove mio padre, tramite certi suoi amici (in particolare ricordo un grande personaggio, il sig. Pipo, un uomo dal cuore d’oro, amicissimo di mio padre sin dai tempi della loro infanzia) avrebbe affittato, insieme alla casa, anche un locale commerciale ad essa adiacente, dove egli avrebbe impiantato un esercizio commerciale, con orologi, articoli da regalo, oreficeria; tanto per tastare il terreno, a quanto fu dato di capire alla mia povera, piccola testolina di tredicenne.

Come potesse mai, mia mamma, badare a me e ai miei fratelli più piccoli, cucinare, fare la spesa e seguire il negozio io non sono mai riuscito a capirlo.

Eppure mio padre era tutt’altro che stupido! La nostra casa siciliana era nella via principale del paese; una strada strapiena di esercizi commerciali, di studi professionali, di abitazioni lussuose e di servizi. La piazza col Castello, il Campo sportivo (con la scritta “mens sana, in corpore sano”) ed il Municipio (nei cui pressi c’era anche la casa del sig. Pipo) non erano distanti dalla nostra casa; così come la scuola e la stazione dei treni.

Eppure, evidentemente, qualcosa non funzionò, se è vero come è vero, che con la fine delle scuole ce ne ritornammo tutti in Sardegna. E meno male che mio padre aveva pensato bene di continuare le attività imprenditoriali già avviate in Sardegna (due negozi di gioielleria) ed era rimasto lì coi miei fratelli più grandi, nella speranza di poterci raggiungere quanto prima con il resto della merce e della famiglia.

Non saprei dire neppure oggi cosa non abbia funzionato esattamente.

Della Sicilia ricordo un amico col quale, la domenica mattina, invece di andare a Messa, andavamo a bighellonare per gli sterminati agrumeti della periferia spadaforese (ma mia madre, una domenica, me le fece pagare tutte in una volta, quelle fantastiche gite; ciò che mi allontanò ancora di più dalla frequentazione della Chiesa e dai buoni consigli che ivi, comunque, si apprendono, come avrò modo di narrare in seguito al paziente lettore nel prosieguo della narrazione).

Ricordo anche un flipper, nel bar centrale, dove i campioni si sfidavano nei pomeriggi e alle domeniche. Ricordo un giornale che a tutta pagina annunciava la guerra dei sei giorni e la gente che nelle strade e nei bar preannunciava con timore la Terza Guerra Mondiale.

Ricordo i miei album di figurine dei calciatori. Non avendo il coraggio di chiedere i soldi a mia madre per comprarle all’edicola (nella mia ingenuità, capivo comunque che i soldi incassati nel negozio non erano sufficienti), mi ingegnai a vincerli al gioco. Si giocava nel cortile della chiesa, “a soffio”. Il gioco consisteva nell’appoggiare al muro un mazzo di figurine e nel soffiarlo con la bocca alla base. Si vincevano quelle figurine che si riusciva a capovolgere con la soffiata. Riuscii a completare ben due Album di figurine: con il primo vinsi un libro di narrativa (ricordo ancora il titolo: “L’ultimo dei Mohicani”); con il secondo vinsi invece un’armonica a bocca.

Poi ricordo anche un’amica di mia sorella; una certa Mina, ma potrei ricordare male il nome. Mi sfidava a mostrarle le mie parti intime, ma quando toccava a lei, in qualche modo si schermiva. Mia sorella mi disse una volta che le piaceva orinare dappertutto, dove le capitava; una volta persino in chiesa; naturalmente di nascosto.

Ricordo un professore privato di Francese (nella mia scuola si studiava l’Inglese ma io sostenni l’esame di Francese in privato) che aveva una fabbrichetta di gazzose e di aranciate. E me ne offriva spesso, anche se oggi non ne ricordo più la marca.

Ricordo l’anno scolastico 1966-1967 come l’anno più confuso e travagliato della mia carriera scolastica.

Il primo trimestre, come ho già narrato nella precedente puntata, lo avevo trascorso ancora ad Arborea.

Il secondo trimestre, o forse, per meglio dire, da gennaio a marzo avevo frequentato alla scuola media del mio paese.

L’anno scolastico lo conclusi, come già accennato in precedenza, alla scuola media statale “Cima” di Spadafora, in provincia di Messina.

Il motivo della partenza per la Sicilia l’appresi solo da grande.

Del viaggio ricordo soltanto la 1100 Fiat familiare con mio padre alla guida che veniva imbracato in una rete enorme ed issato a bordo con una gru (le navi Tirrenia, all’epoca, infatti, non avevano ancora la poppa ribaltabile per consentire un agevole imbarco agli autoveicoli e, così, si ricorreva al metodo che ho descritto).

Poi mio padre ripartì. E per me fu una strana primavera quella del 1967.

I giovani compaesani di mio padre, nonostante la chiara origine del mio cognome, iniziarono a chiamarmi “U Sardignolu”. A me non piaceva né il termine in sé, né il modo con cui quei ragazzi lo pronunciavano. Grazie alla mossa segreta, già sperimentata al mio paese natio con il mio rivale capobanda Rodolfo, ne mandai a gambe all’aria più di uno. E presto, non so se per timore o per rispetto, la smisero di usare quel termine offensivo; ed io mi integrai bene nei diversi gruppi.

A scuola mi misero all’ultimo banco con un ragazzone argentino di nome Armando, i cui genitori, forse tentavano come mio padre un impossibile e nostalgico rientro in Sicilia, partendo però dall’altra parte dell’oceano. Armando parlava più lo spagnolo che l’italiano; ed io, così piccolo di statura, da quell’ultimo banco, e con quella compagnia (il simpatico Armando non faceva altro che parlarmi delle mirabolanti cose argentine) non seguivo certo le spiegazioni degli ottimi docenti di quella scuola. In quella seconda media, inoltre, non vi erano corsi di francese (la lingua straniera che io avevo nel mio curriculum) ma di inglese; per cui il francese lo preparai in privato.

Per fortuna la professoressa di lettere (di cui purtroppo non ricordo il nome), in seguito ad una mia ennesima scena muta, diede una così tremenda sferzata al mio orgoglio (mi disse letteralmente: “Basile, quando sei arrivato sembrava volessi spaccare il mondo! E adesso non fai altro che chiacchierare a vanvera!) che da allora, chiesto ed ottenuto di cambiare banco (con la scusa che non vedevo bene la lavagna) cominciai una lenta ma decisa risalita che mi condusse alla promozione a pieni di voti.

Ricordo ancora Armando, a giugno, davanti ai quadri di fine anno che commentava: “Ma come? Basile promosso ed io bocciato?!?”

Povero Armando. Non si era neanche accorto del mio cambio di passo.

Ricordo l’Equipe 84 con la canzone ”29 settembre”; Dalida con “Bang, Bang!”; Adamo con “La notte”.

Quando mio padre si stancò di mandare soldi dalla Sardegna (dove i suoi affari andavano invece a gonfie vele) ce ne tornammo tutti a casa.

La macchina di mio padre fu imbracata nuovamente nella rete di corde robuste della Tirrenia e la famiglia fu ricomposta in quella che di lì a poco, grazie al boom della “Costa Smeralda” stava per trasformarsi da terra di confino e di esilio a paradiso di vacanze e di promozioni.

Siamo ormai abituati a considerare la scuola come quell’istituzione gestita dallo Stato (in competizione con pochi privati autorizzati) che ci accompagna, attraverso l’esame di maturità, sino all’università (dispersione scolastica permettendo).

Eppure la scuola non è tutta lì.

Anzi, dobbiamo ricordare che in un passato non tanto remoto, la scuola statale era del tutto inesistente.

Senza scomodare Socrate e Platone, che intrattenevano i loro discenti all’ombra dei colonnati dell’antica Atene, e i loro epigoni, trasferiti in massa a conquistare, come guide e precettori, i figli dei loro conquistatori Romani, ci è facile osservare, con un piccolo sforzo di memoria storica, come l’istruzione fosse, sino a poco più di un secolo addietro, soprattutto in mano ai diversi ordini religiosi.

Eppure la scuola, ancora oggi, non è soltanto quella istituzionale dei banchi di scuola.

Per chi come me, purtroppo o per fortuna, è già nei terzi “anta”, tornano alla memoria le vecchie botteghe artigianali dove i giovani che, per le più svariate ragioni, non fossero risultati idonei agli studi religiosi ovvero non fossero, a loro volta, figli di medici, avvocati o ingegneri, si formavano per la vita e per il lavoro.

Erano queste botteghe artigianali delle vere e proprie scuole di vita.

Nelle barberie, officine meccaniche, sellerie, calzolerie, sartorie, nei pastifici, nei cantieri edili e in tutti gli spazi produttivi disseminati lungo lo stivale si apprendeva la dura arte dell’ubbidienza, della discrezione, dell’apprendere, prima osservando, poi creando con le proprie mani il proprio futuro.

Della bottega di orologiaio di mio padre ho dei ricordi legati soprattutto all’estate.

Mio padre mi ci portava perché aveva paura che, finita la scuola istituzionale, io finissi con il frequentare i vagabondi del paese, i bastasoni, i perditempo, i perdigiorno o i calandroni, come li chiamava lui, a seconda del giorno e dell’umore.

E poi, mi ripeteva, “impara l’arte e mettila da parte!”.

Insomma, volente o nolente, le mie estati anziché odorare di fiume e di campo, odoravano di grasso di iena e di olio di lince (mio padre, soprattutto davanti ai clienti, chiamava in questo modo misterioso, certi solventi che si usavano per la pulizia e per la lubrificazione degli orologi e dei suoi innumerevoli ingranaggi, principalmente perché era un uomo dalla spiccata fantasia e gli piaceva infatti inventare; a suo modo era infatti un artista, ma io questo l’ho capito dopo); io credo però che il motivo fosse anche legato alla segretezza e alla gelosia che ogni capo bottega ha dell’ arte che vi si svolge e degli ingredienti che vi si usano.

Quando i clienti, entrando nella bottega (il cui accesso era consentito soltanto ai clienti più affezionati, che si spingevano oltre il banco di vendita) lo salutavano con l’appellativo di “Maestro” io, nonostante mi rodesse il fatto di essere costretto a frequentare la bottega, mi sentivo orgoglioso del mio papà!

Mio padre a quel saluto sollevava lo sguardo dall’orologio al quale si stava dedicando, senza togliersi neppure la lente d’ingrandimento, che lui calzava nell’occhio sinistro, incastrandola con abilità nell’orbita oculare ossea, sfruttando evidentemente una mobilità e una resistenza muscolare fuori dall’ordinario.

Non amava affatto interrompere il suo lavoro (fatto di massima concentrazione e ferrea precisione) e sul suo volto si stampava sempre un’aria di severa interrogazione (io, se fossi stato bravo in disegno, avrei potuto, senza tema di sbagliare, disegnargli una nuvoletta, all’altezza della fronte, con su scritto “chi sarà mai questo rompicoglioni?”).

Ovviamente rispondeva con una domanda di stile, della serie “salute a lei, mi dica!”, o qualcosa del genere. Mi dava sempre l’impressione che scendesse da un altro pianeta, a confrontarsi sulla terra con degli esseri inferiori che osavano interrompere il suo viaggio interstellare.

Devo dire per completezza che mio padre non amava neppure staccarsi dal banco da lavoro per recarsi al banco di vendita; e se non c’era un affare importante in vista (magari già avviato) preferiva delegare me o qualche altro fratello, così lui poteva dedicarsi ai suoi amati orologi e ai suoi misteriosi ingranaggi. Io ero ben contento, al contrario di lui, di servire la clientela che entrava nel negozio per acquistare, fosse anche per sostituire il cinturino dell’orologio o il moschettone di chiusura della catenina o del bracciale. Il mio massimo era servire qualche avvenente ragazza con cui mio padre si sarebbe scazzato da morire (dato che diceva che le donne erano sempre troppo indecise e gli facevano perdere del tempo per lui prezioso).

L’apprendistato dell’orologiaio iniziava con un anno intero passato a guardare il “maestro” lavorare. Mio padre era un uomo di poche spiegazioni: occorreva osservare e intuire. Non amava neppure le domande, che spezzavano la sua concentrazione.

Quel primo anno serviva anche per imparare il nome dei solventi (oltre al grasso di iena e all’olio di lince, c’erano diversi acidi, come quello che serviva a staccare la spirale del bilanciere) e il nome dei diversi attrezzi (la pinzetta finissima, i cacciaviti, numerati da 1 a 10, la tronchesina, gli alesatori, gli oliatori, l’estrattore, i punzoni, numerati da 1 a 50 e così via; c’erano anche pinze e tenaglie ma mio padre le usava raramente, perché diceva, ridendo, che quelli erano attrezzi più adatti agli scarpari che agli orologiai); inoltre occorreva essere capaci di trovare, velocemente, il pezzo che eventualmente fosse caduto al maestro durante la lavorazione (e lì capivi l’importanza di fissare il lavoro con lo sguardo; una distrazione in quella circostanza, oltre che una sgridata o, peggio, un manrovescio, significava non sapere in quale direzione indirizzare la propria ricerca; e se si trattava, ad esempio, di una molletta di calendario o di una qualsiasi altra molletta, erano guai sul serio) .

Dopo il primo anno l’apprendista poteva cominciare a pulire qualche sveglia, privata dello scappamento dal maestro oppure da qualche apprendista più anziano e comunque sotto stretta sorveglianza di qualcuno più anziano in bottega.

Dopo due anni l’apprendista poteva cominciare a smontare e a rimontare un EB 700 oppure un AS 1130. Si trattava dei due macchinari più semplici (il primo senza rubini mentre il secondo ne montava ben 17!), allora commercializzati sotto diversi marchi (mio padre trattava gli svizzeri Imperios e Superior , che montavano anche l’AS 1130, indistruttibili e senza tempo); i macchinari su cui all’inizio si esercitavano i praticanti però, non appartenevano ai clienti ma erano di orologi che appartenevano alla bottega (magari erano stati versati in occasione dell’acquisto di un orologio nuovo; oppure erano appartenuti a clienti che per non pagare il costo della riparazione avevano preferito rinunciare all’orologio; e ciò nonostante mio padre fosse molto meticoloso e preciso nei suoi preventivi, sconsigliando sempre la riparazione quando il costo sarebbe stato eccessivo rispetto al valore dell’orologio).

Se questi primi montaggi andavano in porto positivamente, allora il praticante era ammesso alla sostituzione dell’asse del bilanciere o dell’albero di carica (con o senza coroncina) e della molla di carica sugli orologi dei clienti; ma sempre supervisionato dal maestro o da altro praticante più anziano.

Insomma, se tutto andava per il verso giusto, al decimo anno, forse, eri in grado di riparare i “cinque linee” (cioè gli orologi da donna più minuscoli allora in commercio), gli orologi automatici, quelli a calendario e via, via, i cronografi, con e senza fasi lunari, e i pendoli, il cui apice era costituito, a quel tempo, da quelli che battevano il quarto d’ora e avevano delle icone mobili che comparivano nelle diverse fasi del giorno.

Io mi fermai al montaggio e rimontaggio degli AS 1130 (anche se più tardi, ormai laureando e collaboratore commerciante di mio padre, mi riscattai superando a pieni voti un corso per la manutenzione dei nuovi orologi analogici al quarzo, organizzato dalla prestigiosa casa svizzera LONGINES; serbo ancora con orgoglio il diploma che mi venne rilasciato a fine corso)

Per mia fortuna dopo qualche anno dalla sfortunata campagna di Sicilia (su cui ho già intrattenuto il lettore in precedenza) mio padre ebbe un’altra delle sue coraggiose iniziative e pensò bene di comprare un locale commerciale di oltre centocinquanta metri quadrati nel centro di Cagliari per farvi una gioielleria con tutti i crismi. Anche in questa circostanza la testa di ponte fu costituita da mia madre (col suo ruolo di mamma), da me (col ruolo di vice-capofamiglia) e tutti e cinque i miei fratelli più piccoli.

Anche questa nuova avventura non andò bene ma debbo dire, per onestà, che questa volta mio padre aveva visto giusto, ma noi figli non fummo all’altezza delle sue grandi visioni di allargamento e di ingrandimento dell’azienda paterna. E perciò, rivenduto degnamente il locale commerciale, i miei fratelli preferirono espandersi nei paesi viciniori all’azienda fondata da mio padre.

Ma questo fa parte già di un’altra storia.

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