venerdì 23 novembre 2018

Memorie di scuola - Volume primo



E’ ben vero che su mille studenti scioperanti, ai cortei ci ritrovavamo in cento; e di questi cento,  soltanto dieci partecipavano alle riunioni dei collettivi nelle varie sedi che si offrivano di ospitare i dibattiti degli studenti in lotta. La maggior parte degli studenti preferivano imboscarsi con le ragazze nei ritrovi della zona del Castello, la parte medioevale di Cagliari, strapiena di club privati (come si chiamavano allora i ritrovi sociali giovanili), dove si faceva di tutto: ballare, fumare, sfranellare e anche il resto.
Ma io avevo addosso il sacro fuoco della rivoluzione, e fedele ai miei principii e alle mie scelte, proseguivo e persistevo nella lotta senza contro le istituzioni.
A pensarci bene, non mi sarebbe convenuto farmi una ragazza e imboscarmi come gli altri in un circolo di Castello?
Non solo mi sarei risparmiato tante arrabbiature, ma mi sarei sicuramente divertito di più!
Invece, sulle ali del mio impegno politico, passai, forse senza rendermene conto, quel segno che qualcuno aveva tracciato per terra come limite massimo della protesta.
In seguito ad un’assemblea negataci dal preside  io mi recai nelle classi e, interrompendo sfacciatamente le lezioni, convocai l’assemblea permanente.
Alcuni docenti non gradirono evidentemente la mia interruzione e mi segnalarono al preside.
Non so se il Capo dell’istituto segnalò la cosa al di fuori della scuola (non l’ho mai saputo; e se lo ha fatto, tutto venne archiviato) ma so per certo che riunì il Consiglio di Classe e chiese l’adozione di seri provvedimenti. Si formarono all’interno del Consiglio di Classe due fazioni: una era per la linea dura ed implicava, con la sospensione sine die della frequenza, l’ espulsione dalla scuola; un’altra propugnava invece una linea più morbida, di comprensione, che prevedeva la sospensione temporanea, per un massimo di 15 giorni, anche per il fatto che il mio profitto scolastico, nei cinque anni, era stato, tutto sommato, più che buono. Alla fine prevalse la linea morbida, anche grazie all’intervento di mia madre che si precipitò a scuola a perorare la mia causa, pregando i miei docenti di non rovinare la mia carriera scolastica e la mia stessa vita (si sa come sappiano essere melodrammatici i cuori di mamma per i loro figli, sempre innocenti, bravi ragazzi o tutt’al più birichini). Ciò non mi evitò comunque  una bella sospensione di 15 giorni, con annessi connessi.
Voglio precisare, per concludere, che la nostra era più una protesta culturale e sociale, piuttosto che politica.  Volevamo molto semplicemente  più spazi per i dibattiti all’interno della scuola e un ruolo costruttivo (magari in unione con gli operai) fuori dalla scuola. Volevamo più libertà di pensiero; odiavamo l’autorità costituita e la scuola gerarchica e schematizzata di stampo ancora fascista (o così sembrava a noi).
Io, pur condividendo gran parte delle rivendicazioni studentesche di quegli anni,  rifiutavo per indole e per istinto la contrapposizione violenta tra gruppi estremisti di sinistra e gruppi estremisti di destra.
Detestavo (e detesto tuttora) ogni forma di violenza. I miei idoli erano Kennedy, Marthin Luther King e Gandhi; e della religione mi affascinava soltanto Gesù, con la Sua mitezza, la Sua innocenza, il Suo amore per gli ultimi e i diseredati, mentre detestavo con tutta la forza dei miei diciotto  anni le gerarchie vaticane (non è che mi facciano impazzire neanche tutt’oggi; a parte papa Francesco, naturalmente).
Questo mio amore per Gesù lo pagai a caro prezzo all’esame di maturità (come si chiamava allora l’esame conclusivo di licenza superiore).
Ma questo fa già parte della prossima puntata.
Con il mio allontanamento da scuola e la mia sospensione,  gli scioperi e le proteste ebbero termine.
Le emozioni e i sentimenti che provai in quei quindici giorni passati a casa, lontano dalla scuola, furono assai intensi e contraddittori.
Passavo dal pentimento alla rabbia; dal vittimismo al desiderio di rivalsa; dalla rassegnazione ad un senso di sollievo perché, tutto sommato, poteva anche essermi andata peggio; quindi subentrava un sentimento di disagio e di inadeguatezza, dovuto  all’ incapacità di ricapitolare razionalmente quanto mi era successo e, a momenti, perfino un sentimento di frustrazione per non poter tornare indietro, per riavvolgere gli ultimi avvenimenti occorsi ed imprimergli un finale meno umiliante e amaro.
E in fondo all’animo riflettevo sulla condizione umana. Pensavo che siamo come i bagagli degli aeroporti. Qualcuno, un giorno, ci confeziona e ci imbarca; così iniziamo un viaggio lungo e contorto.  Se superiamo ostacoli e tragitti, finalmente  vediamo la luce, attraverso l’uscita del  nastro trasportatore che ci immette nella sala di recupero dei bagagli dove, se tutto va bene, qualcuno è ansioso di prendersi cura di noi. In casi estremi , ma non è raro, possiamo anche perderci per dimenticanza o menefreghismo degli stessi soggetti che ci hanno concepiti. E se vediamo la luce della sala d’attesa, uscendo da quel buffo carosello che si chiama nastro trasportatore, inizia la nostra vita. E siamo come pantaloni, cappelli, cravatte, camicie, giacche, mosse dal vento, spinti talvolta così lontano,  da non ritrovare neppure la strada per ricongiungerci a chi sembrava così affezionato da non poter vivere senza di noi.
O forse,  se siamo fortunati,  siamo come la pioggia, che scende da cielo sulla terra, la feconda, e poi evapora e ritorna in cielo.
Io mi sentivo come una pietra di fiume, rovente ed immobile nel greto secco, rotolando a valle sotto lo scorrere dell’acqua nei periodi di piena, capace di aggregarmi, lungo il percorso, con chiunque mi fosse capitato vicino: alghe, pesci, altri ciottoli rutilanti, oggetti organici ed inorganici coinvolti con me in quel viaggio senza altra meta che una indefinita valle dove attendere un’altra stagione di pioggia o di sole per poter ricominciare tutto da capo.
Passavo le giornate ascoltando le canzoni che allora andavano per la maggiore: Alice di  Francesco De Gregori; E mi manchi tanto degli  Alunni Del Sole; Erba di casa mia di  Massimo Ranieri; Vento nel vento , Il mio canto libero e  Io vorrei non vorrei ma se vuoi di Lucio Battisti;  Viva l’Inghilterra di  Claudio Baglioni; Vado via di Drupi;  Canzone intelligente di  Cochi E Renato
Crocodile rock e Daniel di  Elton John;   Walk on the wild side di  Lou Reed; You're so vain di  Carly Simon e tante altre di cui cercavo gli accordi sulla chitarra, testardamente, per ore ed ore.
Quando rientrai a scuola feci appena in tempo a prendere visione del programma svolto e delle cose da studiare che fu subito Pasqua. Riuscii a recuperare e ad ottenere la sufficienza in  tutte le materie. Così venni ammesso a sostenere l’esame di maturità.
Sfortuna volle però che venisse designato come Commissario Interno il docente  di Inglese, un certo prof. Zucca (che io avevo soprannominato Joe Vernaccia) e che apparteneva all’ala dei duri del Consiglio di Classe (cioè di coloro che mi avrebbero ben volentieri fatto fuori per sempre). Oltretutto, ma questo lo scoprii dopo, qualche carogna di compagno di classe gli aveva riferito del soprannome che gli avevo rifilato.
A quel tempo i commissari esterni si affidavano completamente al commissario interno per conoscere la personalità del maturando, anche se i voti e un giudizio sommario stabiliti dal consiglio collegialmente potevano comunque fornire una indicazione, seppure soltanto provvisoria  e non certo decisiva. L’esame consisteva in due scritti (italiano e materia di indirizzo) e in un colloquio comprendente quattro materie designate in precedenza in parte dal Ministero e in parte dal Consiglio di Classe. Di queste quattro una veniva scelta dal candidato e l’altra, a sorpresa, dalla commissione d’esame (in realtà era invalso l’uso di consentire la scelta, tramite il commissario interno, anche della seconda materia).
Insomma l’esame non era un granché difficile.
Io scelsi il tema che invitava il candidato ad esporre con parole sue il significato che egli attribuiva all’art. 11 della Costituzione. Era un tema sulla pace. Io ero per la pace, lo sono sempre stato e sempre lo sarò.
Nel tema parlavo dei miei idoli di allora: Marthin Luther King, il Mahatma Gandhi, Gesù Cristo (che allora riconoscevo e ammiravo come Uomo, vittima dell’incomprensione e della protervia degli uomini di potere; mentre oggi lo riconosco anche per quel che Egli effettivamente è: il Figlio di Dio sceso in terra per la nostra salvezza).
Ma il commissario interno mi aveva presentato come un sovversivo, rivoluzionario e di sinistra (e forse, chissà,  anche un potenziale terrorista).
Sostenne  che io avevo cercato di ingraziarmi la commissione presentandomi come un agnello innocente mentre in realtà ero un lupo.
Per farla breve il mio esame fu un disastro. Ma per fortuna riuscii a superarlo. Un altro anno in quella scuola non lo avrei davvero voluto fare.
E neanche loro, probabilmente, mi ci avrebbero voluto.
Ironia della sorte, la mia tesi all’Università, molti anni dopo,  avrebbe avuto ad oggetto la risoluzione pacifica delle controversie internazionali in ambito ONU.
Mio relatore sarebbe stato  il vecchio  Preside, l’esimio prof. Giovanni  Pau, grande internazionalista, che sarebbe riuscito a farmi dare il massimo punteggio che poteva essere  assegnato per la tesi, in proporzione alla media dei voti riportati (il che mi portò ad una votazione che veniva definita, al tempo, come corrispondente ai “pieni voti legali”).
Ma questo fa già parte di un’altra storia.


Leggi il  testo integrale di Memorie di scuola di Ignazio Salvatore Basile,  acquistando on line(c/o Mondadori store, Feltrinelli, IBS, Libreria Universitaria, Amazon ecc.) oppure in libreria il volume edito da Youcanprint ISBN 9788827845486. Il romanzo è disponibile anche in formato e-book nel sito della casa tramite il link sottostante.
 
 

lunedì 19 novembre 2018

Memorie di scuola - Volume primo




Capitolo Secondo
Le scuole medie inferiori
1.
Prima media
Anno scolastico 1965-1966

Ci sono  dei momenti, nella vita di ciascuno di noi, in cui ci sentiamo sospinti da una forza invisibile che, come una corrente misteriosa, ci conduce da qualche parte, non importa dove. E non importa neppure dove noi vogliano andare. E’ la forza misteriosa che ci spinge; è lei che sa dove noi dobbiamo andare.
Di questi momenti nella mia vita ne ho vissuti di diversi. Per esempio nel 1968, quando la protesta studentesca mi trascinò, piano, piano, anno dopo anno, fin sulle  sulle barricate di una rivolta epocale, tremenda, cieca che voleva distruggere tutto e finì col distruggere gli aspiranti distruttori (mi fermò soltanto la mia idiosincrasia per ogni forma di violenza e di potere, il mio pacifismo convinto e idealista, il mio desiderio di conoscenza; lo stesso che mi spinse a Londra, al tramonto della rivoluzione, quando un’altra forza mi afferrò e mi spinse nelle lande nebbiose di Albione; ma di questo parlerò più avanti).
Nel 1965, al momento di scegliere la scuola media, fu ancora una forza misteriosa a spingermi verso Arborea.
Quell’anno, i neo-licenziati maschi  della quinta elementare del mio paese, scelsero di iscirversi al collegio che i Salesiani, con tanto onore, tenevano ad Arborea (la vecchia colonia fondata dai Veneti, chiamata prima Mussolinia, ed allora, come oggi, ridente ed attiva cittadina dell’oristanese, molto attiva nella produzione latteo-casearia). Lì, i valenti sacerdoti di San Giovanni Bosco, formavano i futuri sacerdoti del clero sardo, prima attraverso un’adeguata istruzione nella scuola media unificata e, successivamente, per i più dotati e pervicaci, attraverso il ginnasio e il liceo classico.
In questa corrente, che di mistico e di religioso, come poi i fatti dimostrarono, non aveva molto,  io mi immisi di buon grado, complice il desiderio di mia madre di vedere almeno uno dei figli maschi con la tonsura e la tonaca nera da prete (mia mamma non ne faceva alcun mistero; anzi, a voce alta invocava il buon Dio perché le facesse la grazia di un figlio prete; ma, poveretta, fallì con me, come aveva fallito prima con un fratello maggiore e come fallì qualche anno dopo con uno dei fratelli minori!).
Così, senza una grande vocazione,  mi ritrovai nel Seminario di Arborea. Occorre dire che ancora in quegli anni sessanta era molto vivo quel movimento, iniziato subito dopo la guerra, che spingeva i giovani in Seminario anche senza vocazione. Le famiglie sapevano che in quei luoghi di studio e di meditazione, venivano assicurate, in cambio di una modesta retta mensile (che per i più bisognosi veniva coperta dagli stessi Salesiani), una cultura ed un’istruzione adeguate, congiuntamente a un vitto e  a un alloggio decorosi (che non tutte le famiglie potevano assicurare ai numerosi figli che la Provvidenza e la mancanza della televisione mandavano alle coppie precoci e fertili di allora).
continua ...



Leggi il  testo integrale di Memorie di scuola di Ignazio Salvatore Basile,  acquistando on line(c/o Mondadori store, Feltrinelli, IBS, Libreria Universitaria, Amazon ecc.) oppure in libreria il volume edito da Youcanprint ISBN 9788827845486. Il romanzo è disponibile anche in formato e-book nel sito della casa tramite il link sottostante.


domenica 11 novembre 2018

Memorie di scuola-Parte prima


Memorie di scuola
Ricordi di uno scolaro senza tempo dalle elementari alla cattedra, passando per le scuole medie, l’università e per le  molte altre scuole della vita
di ignazio salvatore basile 
4.
Anno  scolastico 1963-64
In quell’anno scolastico 1963-1964, insieme al fiocco azzurro della classe quarta, noi della classe di ferro 1954, inaugurammo anche l’edificio delle nuove scuole elementari di via Vitale Matta.
La nostra nuova maestra si chiamava signora Soro (il nome di Battesimo non lo ricordo). Era una bella signora, non più giovanissima ma molto tenera e materna.
I ricordi di quell’anno scolastico sono legati soprattutto a due episodi.
Mi era stata regalata una confezione di  colori: 24 matite nuove di zecca, dal bianco al nero, passando per il quattro tonalità di verde e di azzurro, oltre, naturalmente, al rosso, all’arancio, al giallo e così via enumerando.
Li avevo messi sul banco con orgoglio.
C’era in classe, tra i tanti, un certo Carmelo, anche se tutti lo chiamavano “Cramelleddu”. Era un ragazzo, oggi lo intuisco, che di colori nuovi fiammanti come quelli, nella sua vita scolastica, forse  non ne aveva mai visti; o magari sì; non saprei. Quel che so per certo che a un certo momento, dopo essermi distratto a far non so che, mi accorgo che Cramelleddu si è impossessato di una manciata dei miei colori e, sbeffeggiandomi sardonico, si diletta a tentare di colorare un suo foglio bianco, spuntandomeli alla grande, uno per uno.
Scoppiai in lacrime, lamentandomi per il torto subìto. La maestra intervenne prontamente, facendo un sermoncino al mio compagno sul rispetto delle cose altrui e sulla necessità di chiedere il permesso al proprietario prima di utilizzarle.
Ho spesso ripensato a quell’episodio. Oggi mi vergogno di essere stato così egoista. Avrei dovuto gioire per il fatto che un mio compagno, sprovvisto del necessario, potesse divertirsi utilizzando i miei colori.
Caro, vecchio Cramelleddu, se per qualche miracolo della tecnologia informatica tu ti trovassi a leggere questo mio scritto, sappi che io, se potessi tornare indietro, ti regalerei la metà dei miei colori; naturalmente a condizione che tu poi me li prestassi, al bisogno, e che non sghignazzassi con quel simpatico sorriso da canaglia che, a turno, avevamo stampato in viso in quei lontani giorni, prima che il boom economico ci facesse dimenticare il valore di una camera d’aria usata, di una tavola di legno, di cuscinetti dismessi e perfino di un cerchione da bicicletta  da spingere a rotta di collo con un corto bastone in mano.


continua...

Leggi il  testo integrale di Memorie di scuola di Ignazio Salvatore Basile,  acquistando on line(c/o Mondadori store, Feltrinelli, IBS, Libreria Universitaria, Amazon ecc.) oppure in libreria il volume edito da Youcanprint ISBN 9788827845486



giovedì 8 novembre 2018

Memorie di scuola - Parte prima



Ognuno di questi quartieri aveva la sua banda di ragazzini. Quella de su Guventu era capeggiata da Mariano, un tipetto dalla fama da duro, che non permetteva ai ragazzini degli altri quartieri di entrare nel suo, senza buscarle di santa ragione. Ricordo una sfida epica con lui e la sua banda, fatta di lanci di pietre (a mano libera e con la fionda, “su tirallasticu”, che noi stesso realizzavamo con una forcella di legno di  fico a “Y”, due strisce di camera d’aria in disuso e un pezzetta di cuoio forata ai lati).
In testa porto ancora il ricordo di quella e di altre sfide: “is istaffeddasa”, ovvero dei tagli visibili sulla cute, dovute all’impatto con i sassi taglienti.
A me toccava di stare in prima fila. L’obbligo mi discendeva dal fatto che io ero stato prescelto come capo-banda. Non tutti, però,  erano stati concordi nella scelta del capo; mi ricordo in particolare un caro amico di quei tempi andati: Rodolfo; avevamo la stessa età ma lui era più alto e robusto di me; quindi rivendicò per sé, non so dietro a quale altro pretesto,  la leadership; mi sfidò apertamente un pomeriggio d’estate, levandosi la maglietta e mostrando la  corazza di cuoio che gli copriva tutto il busto e che, a suo dire, lo rendeva invincibile e degno del comando. Più tardi mi confessò che si trattava di un busto ortopedico che gli era stato prescritto per risistemare non so bene quale sporgenza ossea; ma in quel momento credetti soltanto che si trattasse di un escamotage inventato per togliermi il bastone del comando faticosamente conquistato.
Alla vista di quella corazza, che Rodolfo scoprì con un urlo di minacciosa sfida, tutti i componenti della banda ammutolirono di colpo; ma quando capirono che non intendevo cedere il comando senza lottare si disposero in cerchio attorno a noi; ci studiammo a lungo, con finte e occhiatacce di sfida; io intuii che se mi avesse afferrato, corazza o non corazza, mi avrebbe stritolato; allora, istintivamente, escogitai un trucco che mi sarebbe servito negli anni a venire per atterrare avversari ben più temibili: mi lanciai in avanti afferrandolo dietro ai polpacci;  poi, tirando con forza verso di me, lo atterrai  pesantemente; paradossalmente, quella corazza, che lui credeva il suo punto di forza, si dimostrò invece quell’handicap che in effetti era, impedendogli di divincolarsi dalla  presa in cui lo avevo steso, con il peso del corpo e  le mie ginocchia sulle scapole che lo inchiodavano a terra. Alla mia affannosa domanda “t’arrendisi?” , lo spaventato amico non poté fare altro  che rispondere con un mesto assenso e il boato della banda decretò la mia vittoria;   Rodolfo si dimostrò un valido e leale luogotenente in tutte le nostre scorribande.
continua...

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domenica 4 novembre 2018

Memoria di scuola - Parte seconda



A settembre del 1974, dopo il solenne giuramento, cominciò il corso vero e proprio. Oltre alle immancabili esercitazioni, adesso vi erano le lezioni teoriche: occorreva conoscere l’organizzazione di cui facevamo parte (la Fanteria dell’Esercito italiano che, come è noto a tutti, fa capo al ministero della Difesa), apprendere le nozioni di base delle armi in dotazione ( il F.A.L. 75, ovvero il fucile d’assalto leggero, in dotazione a tutti i fanti di allora; le granate e le mine anticarro e antiuomo; le armi proprie del reparto di appartenenza che per me erano costituite dal Mortaio 81).
Le lezioni teoriche terminavano alle 17,00.
Io mi trattenevo nell’aula per mettere a punto l’esame di “Istituzioni di diritto romano”.
Avevo seguito con passione tutte le lezioni del prof. Carlo Augusto Cannata, da novembre ’73 sino a maggio ’74 e avevo con me un piccolo quadernetto dove avevo preso a trascrivere i punti salienti della lezione di quel grande luminare.
A distanza di oltre quarant’anni ricordo ancora le sue lezioni. Carlo Augusto Cannata era un uomo ancora giovane, non tanto alto, direi, e ancor meno lo definirei un uomo grasso o robusto. Era un uomo normale, modesto nel vestire e nel suo apparire in generale. Ma quando iniziava a parlare degli istituti del diritto romano, dall’epoca repubblicana a quella imperiale, ai miei occhi si trasformava in una divinità della scienza giuridica scesa in terra dall’Olimpo per farmi innamorare di quelle formule magiche.
Scrivendo  alla lavagna si impiastrava di gesso l’abito scuro e io, al posto del gessetto, lo immaginavo nel foro romano, con la toga indosso e la festuca mentre pronunciava solennemente rivolto ai due litiganti: “Mittite ambo hominem!”, per poi ritirarsi  a deliberare a quale  dei due, l’attore o il convenuto, spettasse il dominio sul povero schiavo, oggetto del loro contendere.
Devo confessare che gli esami di quel primo anno che ho amato di più sono stati proprio quelli a contenuto romanistico: “Storia del diritto romano” , che avevo già sostenuto come primo esame il 4 giugno del 1974 (subito seguito fa “Filosofia del diritto” e da “Teoria generale del diritto” sul quale ho già intrattenuto l’attento lettore) e “Istituzioni di diritto romano” che andai a sostenere con licenza speciale del colonnello a ottobre del 1974 e che superai con una votazione di  venticinque/trentesimi.
Più tardi appresi a mie spese che avrei fatto meglio a dedicare i miei sforzi e le mie passioni all’esame di  Istituzioni di diritto privato (fondamentale crocevia per chiunque voglia impadronirsi dell’ordinamento giuridico italiano).
Ma a quel tempo io ero perso nei miei sogni e nel mio mondo, il diritto romano contava certo di più degli istituti giuridici che,  dopo un tortuoso percorso di rielaborazione, li avevano ormai soppiantati e sostituiti, nelle moderne e contemporanee codificazioni. E se avessi potuto scegliere sarei rimasto ancora lì, a studiare quelle fonti antiche così piene di fascino e di storia.
Quando poi mi sono accostato alla professione di avvocato e all’insegnamento del diritto (seppure limitatamente alle scuole superiori per ragionieri) ho voluto  e persino dovuto imparare e capire come si erano evoluti quegli istituti arcaici che tanto mi avevano affascinato all’università, anche se mi sono ritrovato spesso a comparare le strutture attuali del pensiero giuridico con quelle di epoca romana.
Forse molti colleghi converranno con me che la lentezza, le incomprensioni e la complessità del  sistema processuale italiano, a volte di difficile comprensione anche per gli addetti ai lavori, sono in parte dovute alla  matrice originaria del processo romano, strutturato interamente su formule solenni e invariabili, che gli avvocati di allora dovevano rispettare alla lettera e di cui noi operatori del diritto attuale (parlo anche dei magistrati, forse più prigionieri di noi avvocati di quel retaggio arcaico) siamo in parte ancora ostaggi.
8. continua…


La prima parte del libro, che va dal 1960 al 1973 si può acquistare in tutti gli store (Mondadori, Feltrinelli, Amazon, IBS, Libreriauniversitaria ecc.) o 

giovedì 1 novembre 2018

Memorie di scuola - Parte prima



5.
Quinta Ragioneria
Anno scolastico 1972-73

Se mi chiedessero oggi, in forza di  quale sfrontatezza o coraggio, in nome di quale diritto o in base a quale dovere,  in quell'ottobre del 1972, io mi misi a capo  degli studenti  della mia scuola e, insieme ad altri coraggiosi e sfrontati  del movimento studentesco  delle scuole superiori, ci mettemmo ad organizzare scioperi, occupazioni scolastiche e cortei per le strade cittadine, non saprei cosa rispondere.
O forse risponderei che io sentivo di vivere intensamente  uno di quei momenti, ciclicamente ricorrenti nella storia dell'umanità, in cui delle forze ancestrali e misteriose, sembrano muovere delle masse umane contro il potere costituito, illudendole di poter alfine spezzare quei vincoli invisibili che li costringono a seguire per una strada già segnata, senza alternativa e senz'altra scelta che quella, per essere finalmente protagonista della tua storia , della tua vita, del tuo destino. E allora, come un'aquila che spicchi per la prima volta il suo volo dalle sommità di una vetta, trattieni il respiro e poi ti lanci nell'aria, per vedere se le tue ali son capaci di volare, per vivere realmente o morire.
Oppure, più prosaicamente, risponderei che i vecchi leaders si erano diplomati e se non avessi preso io le redini in mano, tutto si sarebbe fermato. E io non volevo che quel sogno di riscatto e di libertà, in cui ormai credevo ciecamente,  finisse soltanto perché io non avevo trovato la forza o l'ardire di continuare quella lotta che sentivo giusta e sacrosanta.
Per capire meglio quegli anni e quei sentimenti occorre ricordare che mentre in Francia  il movimento del ‘68 si è accontentato della testa del generalissimo De Gaulle (ed è finito con la caduta della sua onorevole testa); e che  se in Inghilterra la rivoluzione è stata subito assorbita e metabolizzata nel tessuto di concessioni e miglioramenti economici e sociali che la classe politica astutamente e prontamente ha concesso ai giovani ed ai proletari in rivolta (qualcuno ha scritto che la nobiltà inglese soffre ancora la sindrome della ghigliottina del ‘98, per cui, pur di tenere la testa ben salda sul collo, e le rendite parassitarie intatte, è pronta a cedere ad ogni richiesta che la Casa dei Comuni, l’unica Assemblea elettiva e realmente  rappresentativa, avanzi in nome del popolo sovrano);  e che se infine le diverse dittature hanno soffocato nel sangue  i rigurgiti rivoluzionari degli spagnoli e  dei paesi dell’est europeo, in Italia la rivoluzione sessantottina è stata soltanto l’inizio di un lungo e sofferto cammino che i giovani della mia generazione  hanno percorso e vissuto attraverso diverse tappe; un decennio terribile, iniziato nella gioia e nei colori del ’68 (che, a sua volta, affondava le sue radici nella rivoluzione dei figli dei fiori di San Francisco e dintorni, della metà degli  anni sessanta, poi diramatosi in mille rivoli, a Berkeley, a Seattle, a Woodstock) e sviluppatasi negli anni successivi nelle lotte politiche e nei movimenti della sinistra extra-parlamentare, per sfociare infine nelle sanguinarie azioni dei gruppi armati, la cui deriva politica e storica, può farsi  risalire al rapimento e alla barbara uccisione dell’onorevole Aldo Moro (1978), la vittima innocente, l’agnello sacrificale, il capro espiatorio di una classe politica cinica e corrotta che ha segnato un’epoca.
Insomma l’Italia, forse anche a causa della sua instabilità politica, di quel suo essere una terra di confine ideologico, dove ancora si fronteggiavano due partiti di opposte ed inconciliabili vedute politiche (la DC ed il PCI) che facevano capo ai due blocchi allora predominanti nel mondo (la Nato ed il Patto di Varsavia), fu teatro di uno scontro interno in cui alle schegge impazzite di una sinistra ormai decisa a rompere  definitivamente  il cordone ombelicale che la legava a Mosca, per entrare a far parte delle forze di governo, risposero le manovre occulte di apparati dello stato, collusi e manovrati dai burattinai americani, per niente convinti della buona fede dei comunisti, anzi diffidenti che   la loro manovra fosse un cavallo di Troia i cui fili erano mossi dai sovietici per espugnare Roma e successivamente minare alle basi e dall’interno la stessa Alleanza Atlantica.
 Solo così si spiega il triste epilogo del tentativo di Aldo Moro di traghettare i comunisti italiani nell’area di influenza ideologica occidentale. Ma i grandi uomini e i grandi progetti spesso vengono equivocati ed interpretati con diffidenza dagli animi affetti di piccineria e dagli uomini offuscati dalla sete di potere.
Ma su Aldo Moro e sul 1978 tornerò ancora, se il lettore vorrà seguirmi. Adesso siamo ancora nel 1972, anche se molti avvenimenti di quell’anno sono come un preludio degli avvenimenti futuri, come d’altronde è per ogni vicenda umana.
continua...

Leggi il  testo integrale di Memorie di scuola di Ignazio Salvatore Basile,  acquistando on line(c/o Mondadori store, Feltrinelli, IBS, Libreria Universitaria, Amazon ecc.) oppure in libreria il volume edito da Youcanprint ISBN 9788827845486

Delitto al Quadrivio - 1

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