A settembre del 1974, dopo il solenne giuramento, cominciò il corso vero e proprio. Oltre alle immancabili esercitazioni, adesso vi erano le lezioni teoriche: occorreva conoscere l’organizzazione di cui facevamo parte (la Fanteria dell’Esercito italiano che, come è noto a tutti, fa capo al ministero della Difesa), apprendere le nozioni di base delle armi in dotazione ( il F.A.L. 75, ovvero il fucile d’assalto leggero, in dotazione a tutti i fanti di allora; le granate e le mine anticarro e antiuomo; le armi proprie del reparto di appartenenza che per me erano costituite dal Mortaio 81).
Le lezioni teoriche terminavano alle 17,00.
Io mi trattenevo nell’aula per mettere a punto l’esame di “Istituzioni
di diritto romano”.
Avevo seguito con passione tutte le lezioni del prof. Carlo
Augusto Cannata, da novembre ’73 sino a maggio ’74 e avevo con me un piccolo
quadernetto dove avevo preso a trascrivere i punti salienti della lezione di
quel grande luminare.
A distanza di oltre quarant’anni ricordo ancora le sue lezioni.
Carlo Augusto Cannata era un uomo ancora giovane, non tanto alto, direi, e
ancor meno lo definirei un uomo grasso o robusto. Era un uomo normale, modesto
nel vestire e nel suo apparire in generale. Ma quando iniziava a parlare degli
istituti del diritto romano, dall’epoca repubblicana a quella imperiale, ai
miei occhi si trasformava in una divinità della scienza
giuridica scesa in terra dall’Olimpo per farmi innamorare di quelle formule
magiche.
Scrivendo alla lavagna si
impiastrava di gesso l’abito scuro e io, al posto del gessetto, lo immaginavo
nel foro romano, con la toga indosso e la festuca mentre pronunciava solennemente rivolto
ai due litiganti: “Mittite ambo hominem!”, per poi ritirarsi a deliberare a quale dei due, l’attore o il convenuto, spettasse il
dominio sul povero schiavo, oggetto del loro contendere.
Devo confessare che gli esami di quel primo anno che ho amato di
più sono stati proprio quelli a contenuto romanistico: “Storia del diritto
romano” , che avevo già sostenuto come primo esame il 4 giugno del 1974 (subito
seguito fa “Filosofia del diritto” e da “Teoria generale del diritto” sul quale
ho già intrattenuto l’attento lettore) e “Istituzioni di diritto romano” che
andai a sostenere con licenza speciale del colonnello a ottobre del 1974 e che
superai con una votazione di venticinque/trentesimi.
Più tardi appresi a mie spese che avrei fatto meglio a dedicare i
miei sforzi e le mie passioni all’esame di
Istituzioni di diritto privato (fondamentale crocevia per chiunque voglia
impadronirsi dell’ordinamento giuridico italiano).
Ma a quel tempo io ero perso nei miei sogni e nel mio mondo, il
diritto romano contava certo di più degli istituti giuridici che, dopo un tortuoso percorso di rielaborazione,
li avevano ormai soppiantati e sostituiti, nelle moderne e contemporanee
codificazioni. E se avessi potuto scegliere sarei rimasto ancora lì, a studiare
quelle fonti antiche così piene di fascino e di storia.
Quando poi mi sono accostato alla professione di avvocato e all’insegnamento
del diritto (seppure limitatamente alle scuole superiori per ragionieri) ho voluto
e persino dovuto imparare e capire come
si erano evoluti quegli istituti arcaici che tanto mi avevano affascinato all’università,
anche se mi sono ritrovato spesso a comparare le strutture attuali del pensiero
giuridico con quelle di epoca romana.
Forse molti colleghi converranno con me che la lentezza, le
incomprensioni e la complessità del sistema processuale italiano, a volte di
difficile comprensione anche per gli addetti ai lavori, sono in parte dovute alla
matrice originaria del processo romano,
strutturato interamente su formule solenni e invariabili, che gli avvocati di
allora dovevano rispettare alla lettera e di cui noi operatori del diritto
attuale (parlo anche dei magistrati, forse più prigionieri di noi avvocati di
quel retaggio arcaico) siamo in parte ancora ostaggi.
8. continua…
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