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Capitolo Quarto
«Ecco, signor duca, nel raffronto tra le due mappe, si può apprezzare lo
sviluppo della capitale in direzione nord», disse l’architetto Biagio Rossetti
stendendo sul ripiano del tavolo due ampie carte rilevatrici.
Il duca Ercole I d’Este si era concentrato sulle due mappe della città di
Ferrara. Una, di colore giallo, riportava la data del 1471 e ritraeva la città già ampliata da suo padre Borso; la seconda, di colore bianco e senza
data, redatta dallo stesso architetto estense, pur avendo lo stesso formato
della vecchia, riempiva la vasta area
che dal Castello Belfiore e dal Palazzo Schifanoia, portava sino al Po
di Volano, praticamente al confine con il territorio della Repubblica di Venezia.
«Non dimenticate di realizzare una possente cinta muraria a ridosso del
fiume. Non sia mai che i Veneziani ritentino per quella via, la sortita già
fallita per la via del mare», disse il duca, annuendo soddisfatto.
«Se vostra Eccellenza me lo conferma, qui, a ridosso della cinta muraria,
io ho previsto la costruzione di una fortezza capace di ospitare una
guarnigione fissa di cinquecento soldati e sino a quattrodici bocche da fuoco,
puntate sul fiume».
«Confermo. Procedete quanto più speditamente potete», ordinò il potente
duca che non vedeva l’ora di vedere la capitale dei suoi domini protetta anche
nel punto più debole, quello settentrionale.
Così era iniziata, per
volontà del duca Ercole I d’Este, alla fine del XV secolo, la realizzazione
della direttrice nord, uno dei due assi ortogonali che abbracciavano lo spazio
dell’addizione erculea che univa idealmente Palazzo Ducale alla Porta degli
Angeli, a difesa delle incursioni delle temute milizie venete. Oltre alla cinta
muraria e a un profondo fossato ricolmo dell’acqua di uno dei bracci del delta
del Po su cui anche allora si ergeva la capitale del Ducato, scavalcabile
soltanto da un agile ponte levatoio, il duca aveva ordinato al grande
architetto ferrarese che venisse costruita attorno alla Porta degli Angeli una
fortezza militare.
Ai dodici cannoni a bocca di fuoco 120 voluti
da Ercole I, più tardi, suo nipote Ercole II ne fece aggiungere un tredicesimo,
il cannone denominato “La Giulia”, che suo padre Alfonso aveva fatto fondere con il metallo della
statua di Giulio II che i ferraresi avevano abbattuto per festeggiare la morte dell’odiato papa Della Rovere.
Attorno a quella
fortezza si era andato sviluppando, piano, piano, un agglomerato che, oltre agli alloggi e alle mense dei militari
comprendeva tutta una serie di botteghe artigianali, di cascine agricole, di
allevamenti di bestiame di diversa natura e numerose magioni, per lo più
precariamente costruite con paglia impastata a
mattone crudo a presidio di orti e frutteti che, numerosi più delle case, abbellivano quella vasta superficie, nota con
il nome di Bellaria, che si estendeva
dalla città medioevale originaria sino alla novella cinta muraria
settentrionale e che doveva restare comunque scarsamente popolata ancora per
molti secoli.
Questo agglomerato,
sorto senza un piano urbanistico preciso, ma che non di meno, aveva conquistato
l’altisonante appellativo di Borgo del Barco, aveva creato una fiorente rete
economica di scambi e commerci che, grazie ai contributi versati in termini di
conferimenti annonari, tributi civili e decime religiose, era riuscita a farsi
riconoscere dalla amministrazione comunale centrale dalla quale comunque
dipendeva sia, ovviamente, dal punto di vista militare, sia dal punto di vista
amministrativo e religioso. Fra quelle botteghe e baracche del Barco del Duca, come
veniva indicato ufficialmente nelle carte, a ridosso di un’enorme porcilaia con annesso un macello, di cui si servivano tutti gli allevatori del borgo, spiccava una costruzione in pietra dove, per
anni, aveva operato una taverna che, dietro l’ambigua denominazione di “Osteria
del Buon Samaritano”, ospitava una
casa di meretricio che alleviava non solo le inevitabili solitudini dei
soldati di stanza nella fortezza, ma serviva ad allietare anche le noiose
serate dei giovani guardiani degli orti e degli artigiani del Borgo.
La taverna era stata
chiusa dalle autorità alla fine del 1500, anche se certi documenti sembravano
attestare invece la data del 1577, quando in città erano stati accertati alcuni
casi di un morbo che, ai sintomi della peste sembrava sommare i caratteri di
una nuova malattia nota con il nome di sifilide. La casa era stata confiscata a
seguito di una condanna penale che era stata inflitta ai gestori e proprietari
dell’infame osteria, ma il clamore e la paura che quella notizia avevano
suscitato in tutta Ferrara erano stati così eclatanti che nessuno aveva voluto
più abitare in quella casa, soprannominata dopo la chiusura, la casa colombiana.
Fu lì che il vice legato
Pasini Frassoni decise di sistemare l’emissario spagnolo del cardinale Garzia
Mellini e il suo seguito. Ed è certo che don Pedro Domingo Mendoza Martinez, se
anche avesse mai saputo la storia degli alloggi a lui riservati da quel
referente togato, non avrebbe avuto alcuna riserva ad occuparli, tanto più che
quella nomea popolare, ai suoi orecchi, sarebbe suonata come un’eco delle
prodigiose gesta dei suoi valorosi antenati conquistadores.
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