giovedì 6 giugno 2024

Il Manuale del Perfetto Orologiaio

 

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Capitolo Quarto

 

«Ecco, signor duca, nel raffronto tra le due mappe, si può apprezzare lo sviluppo della capitale in direzione nord», disse l’architetto Biagio Rossetti stendendo sul ripiano del tavolo due ampie carte rilevatrici.

Il duca Ercole I d’Este si era concentrato sulle due mappe della città di Ferrara. Una, di colore giallo, riportava la data del 1471 e ritraeva  la città già ampliata da suo padre Borso; la seconda, di colore bianco e senza data, redatta dallo stesso architetto estense, pur avendo lo stesso formato della vecchia, riempiva la vasta area  che dal Castello Belfiore e dal Palazzo Schifanoia, portava sino al Po di Volano, praticamente al confine con il territorio della  Repubblica di Venezia.

«Non dimenticate di realizzare una possente cinta muraria a ridosso del fiume. Non sia mai che i Veneziani ritentino per quella via, la sortita già fallita per la via del mare», disse il duca, annuendo soddisfatto.

 

 

 

 

 

 

 

 

«Se vostra Eccellenza me lo conferma, qui, a ridosso della cinta muraria, io ho previsto la costruzione di una fortezza capace di ospitare una guarnigione fissa di cinquecento soldati e sino a quattrodici bocche da fuoco, puntate sul fiume».

«Confermo. Procedete quanto più speditamente potete», ordinò il potente duca che non vedeva l’ora di vedere la capitale dei suoi domini protetta anche nel punto più debole, quello settentrionale.

Così era iniziata, per volontà del duca Ercole I d’Este, alla fine del XV secolo, la realizzazione della direttrice nord, uno dei due assi ortogonali che abbracciavano lo spazio dell’addizione erculea che univa idealmente Palazzo Ducale alla Porta degli Angeli, a difesa delle incursioni delle temute milizie venete. Oltre alla cinta muraria e a un profondo fossato ricolmo dell’acqua di uno dei bracci del delta del Po su cui anche allora si ergeva la capitale del Ducato, scavalcabile soltanto da un agile ponte levatoio, il duca aveva ordinato al grande architetto ferrarese che venisse costruita attorno alla Porta degli Angeli una fortezza militare.

 

 

 

 

 

 

 

 Ai dodici cannoni a bocca di fuoco 120 voluti da Ercole I, più tardi, suo nipote Ercole II ne fece aggiungere un tredicesimo, il cannone denominato “La Giulia”, che suo padre Alfonso  aveva fatto fondere con il metallo della statua di Giulio II che i ferraresi avevano abbattuto per festeggiare la  morte dell’odiato papa Della Rovere.

Attorno a quella fortezza si era andato sviluppando, piano, piano, un agglomerato che,  oltre agli alloggi e alle mense dei militari comprendeva tutta una serie di botteghe artigianali, di cascine agricole, di allevamenti di bestiame di diversa natura e numerose magioni, per lo più precariamente costruite con paglia impastata a  mattone crudo a presidio di orti e frutteti che,  numerosi più delle case,  abbellivano quella vasta superficie, nota con il nome di Bellaria,  che si estendeva dalla città medioevale originaria sino alla novella cinta muraria settentrionale e che doveva restare comunque scarsamente popolata ancora per molti secoli.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Questo agglomerato, sorto senza un piano urbanistico preciso, ma che non di meno, aveva conquistato l’altisonante appellativo di Borgo del Barco, aveva creato una fiorente rete economica di scambi e commerci che, grazie ai contributi versati in termini di conferimenti annonari, tributi civili e decime religiose, era riuscita a farsi riconoscere dalla amministrazione comunale centrale dalla quale comunque dipendeva sia, ovviamente, dal punto di vista militare, sia dal punto di vista amministrativo e religioso. Fra quelle botteghe e baracche del Barco del Duca, come veniva indicato ufficialmente nelle carte, a ridosso di un’enorme  porcilaia con annesso  un macello, di cui si servivano  tutti gli allevatori del borgo,  spiccava una costruzione in pietra dove, per anni, aveva operato una taverna che,  dietro l’ambigua denominazione di “Osteria del  Buon Samaritano”,  ospitava una  casa di meretricio che alleviava non solo le inevitabili solitudini dei soldati di stanza nella fortezza, ma serviva ad allietare anche le noiose serate dei giovani guardiani degli orti e degli artigiani del Borgo.

 

 

 

 

 

 

La taverna era stata chiusa dalle autorità alla fine del 1500, anche se certi documenti sembravano attestare invece la data del 1577,  quando in città erano stati accertati alcuni casi di un morbo che, ai sintomi della peste sembrava sommare i caratteri di una nuova malattia nota con il nome di sifilide. La casa era stata confiscata a seguito di una condanna penale che era stata inflitta ai gestori e proprietari dell’infame osteria, ma il clamore e la paura che quella notizia avevano suscitato in tutta Ferrara erano stati così eclatanti che nessuno aveva voluto più abitare in quella casa, soprannominata dopo la chiusura, la casa colombiana.

Fu lì che il vice legato Pasini Frassoni decise di sistemare l’emissario spagnolo del cardinale Garzia Mellini e il suo seguito. Ed è certo che don Pedro Domingo Mendoza Martinez, se anche avesse mai saputo la storia degli alloggi a lui riservati da quel referente togato, non avrebbe avuto alcuna riserva ad occuparli, tanto più che quella nomea popolare, ai suoi orecchi, sarebbe suonata come un’eco delle prodigiose gesta dei suoi valorosi antenati conquistadores.

 

 

 

 

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