Capitolo Terzo
«E tu come ti chiami?»
«Sono Giuditta, la nipote dell’Anselmo».
«Io però non ti avevo mai visto prima d’ora».
«In effetti non è da tanto che sto qui al Magazzino
ad aiutare lo zio…»
«Eh sì che ti avrei notata se ci fossi stata. Non
puoi passare mica inosservata, sorbole!»
Giuditta fu lusingata da quelle parole. Lei ci era
abituata ai complimenti, anche se era strano che a farglieli fosse quella donna
dall’accento così buffo e dal fisico mastodontico. Fuori lo sciabordio
dell’acqua, senza soluzione di continuità, segnava lo scorrere del tempo.
«Sei davvero molto bella, lo sai?», aggiunse ancora
il donnone dal buffo accento forestiero.
Giuditta, per niente imbarazzata, arrossì non di
meno lievemente.
«Mo’ certo che lo sai! Chissà quanti uomini ti han
già messo gli occhi sopra!», disse ancora la donna.
«Io mi chiamo Maturina e sono la padrona della casa
alla Sconcia, giù al Borgo San Giorgio. Tu sai cos’è la Sconcia, nevvero?»
Giuditta lo sapeva. E non soltanto perché nei
registri di magazzino figurava quel nome per la fornitura del sapone e di certe
pezze di lino. Aveva sentito quel nome in bocca a molti uomini. Tra i tanti
complimenti ricevuti, lontano dalle orecchie attente di Anselmo, c’era stato
persino qualcuno che le aveva confessato che neanche alla Sconcia aveva visto
una ragazza più bella di lei.
Ma Giuditta aveva imparato ad ascoltare senza
rispondere.
«Se un giorno ti stancassi di fare la magazziniera a tuo zio, vienimi a trovare alla Sconcia. Per una ragazza bella e sveglia come sei tu, avrei una proposta che è qualcosa più di una semplice offerta di lavoro!»
«Ci penserò!», rispose in un modo sicuro Giuditta,
finendo di conquistare l’anziana donna. Poi, udendo la voce di Anselmo che
cercava la nipote, le due donne passarono a parlare della commessa che la
Maturina era venuta a fare per la sua Sconcia.
Giuditta
Maier aveva da poco compiuto 18 anni e da due anni, da quando era rimasta
orfana, stava nella casa dello zio, che l’aveva ospitata insieme ai suoi
fratelli più piccoli.
Suo padre Jacopo, discendente di una delle più ricche famiglie di conversos fuggite alla persecuzione dell’inquisizione spagnola e rifugiatesi a Ferrara dopo il decreto di espulsione del 1492, era un affermato commerciante di tessuti e filati e si trovava nelle Fiandre con sua moglie, per una delle numerose fiere internazionali che da tempo ormai attiravano in quella ricca regione numerosi commercianti da tutto il mondo, quando entrambi vennero aggrediti e uccisi.
Aveva
conosciuto sua moglie, Olimpia Zatterini, la madre di Giuditta e degli altri
cinque figli maschi, nel corso di uno dei tanti contatti commerciali che
intratteneva con la famiglia di lei, che poco a poco si era costruita una
piccola flotta di barche e navigli, grazie alla quale gestiva molti dei
traffici di merci lungo il fiume Po e dal suo delta lungo le coste
dell’Adriatico anche sino a Venezia e ai suoi mercati.
Era
bastato che una sola volta i loro sguardi si incrociassero e quella ragazza
dalla figura slanciata e formosa l’aveva subito conquistato.
Il
padre di Olimpia, concordate le modalità dell’unione e l’entità della dote,
aveva comunicato alla figlia la sua volontà di maritarla al facoltoso mercante
e le nozze erano state celebrate dopo i doverosi preparativi.
Nonostante i quasi venti anni di differenza il loro matrimonio poteva dirsi riuscito ed era stato allietato subito dalla nascita di Giuditta, seguita, come già detto, a cadenza biennale, da cinque figli maschi: Rubio, Daniele, Marco Levi, Giuseppe e Beniamino.
Giuditta
aveva preso il fisico della madre: le lunghe gambe e la vita stretta, che non
abbisognava di cinture e corsetti per mettere in risalto il petto sodo e
prosperoso, slanciavano in alto la sua figura, valorizzando la sua fronte alta
e la folta chioma bruna. Ma quest’ultima, così come gli occhi scuri, le labbra
carnose e il naso aquilino, la cui misura era percepita in modo attenuato
grazie agli zigomi assai alti e pronunciati, doveva averli ereditati dalla
complessione paterna, dato che la madre era piuttosto chiara di carnagione e
con un visino dai lineamenti assai delicati, seppure innestati nel fisico
slanciato già descritto all’attento lettore.
Anche il carattere di Giuditta era un sicuro retaggio della linea paterna: forte, determinato, volitivo, introspettivo, ingegnoso, empatico e con un innato fiuto per gli affari. Uno zio materno di nome Anselmo, scapolo trentacinquenne, l’aveva presa con tutti gli altri cinque nipoti maschi, nella sua casa di Pontelagoscuro, un’ampia costruzione di due piani che aveva annessi i magazzini della flotta fluviale Zatterini.
In
quei magazzini arrivavano via terra parte le merci che il ducato d’Este allora
esportava (mais, riso, pesce, filati e cotone) e vi confluivano, dal
fiume, alcune delle le merci importate:
sale, carta, spezie, maioliche, grano
(quando le ricorrenti carestie lo imponevano) ed altri alimenti.
Fu
da quei magazzini che piano, piano Giuditta, si sentì attratta, come per
vocazione o per destino, anche se lo zio Anselmo l’aveva intesa avviare al
vertice dell’amministrazione della casa, come si conveniva ad una donna di
quella condizione sociale, in quella precisa epoca.
E fu lì che una sera, mentre suo zio le spiegava i criteri di stoccaggio e classificazione delle diverse merci che confluivano nello sterminato magazzino, e lei lo seguiva con quel suo sguardo attento e vivace, che si sentì addosso, per la prima volta, le mani tremanti e bramose di un uomo.
Giuditta,
superato con un guizzo repentino della mente il primo istante di smarrimento,
lo lascio frugare a suo piacimento tra le pieghe delle sue vesti.
La sua mente fredda e razionale, guidata dal suo istinto femminile, andava percependo che quella concitazione frenetica e ansimante, che lei prese subito dopo ad assecondare con improvvisata ed istintiva accondiscendenza, poteva fornirle uno smisurato potere sugli uomini. E questo le piacque, trovandone conferma quando lo zio, smettendo di dimenarsi, cadde sfinito ed appagato sopra di lei. In quel contatto finale, più che durante l’amplesso, Giuditta, senza che pronunciasse una sola parola, avvertì il tacito ringraziamento che il corpo rilassato di suo zio tributava al suo, riacquistando il suo respiro regolare, quasi assopendosi, dimentico della realtà e per un lungo istante rapito in un’altra dimensione e in un altro tempo. E fu ancora lì che aveva conosciuto Maturina, un giorno che era venuta a visionare certi filati e certe stoffe che le occorrevano per gli arredi della sua casa di tolleranza, lì alla Sconcia del Borgo San Giorgio di Ferrara.
Quando,
due anni dopo quell’incontro, suo zio le comunicò che aveva parlato con il
vicario diocesano e che sarebbe stato agevole, previo pagamento di un congruo
compenso, ottenere una dispensa per poter celebrare il loro matrimonio (data la
stretta parentela esistente), Giuditta si ricordò dell’offerta che aveva
ricevuto, quel giorno che si erano conosciute, da quella strana donna dal buffo
accento forestiero.
Fu
proprio allora che capì che era giunto il momento di andare a parlare di affari
alla Sconcia di Maturina.
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