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Capitolo Quinto
«Eccellenza, gli ospiti spagnoli sono giunti e chiedono di essere ricevuti», disse il primo segretario con una certa agitazione nella voce, affacciandosi alla porta dello studio che il vice legato aveva lasciata aperta in attesa dell’arrivo di quegli ospiti lungamente attesi.
«Finalmente! È tutto il santo giorno che li aspetto», disse rivolto al suo interlocutore, interrompendolo. Poi, rivolto al suo braccio destro aggiunse: «Falli accomodare e poi recati subito in sala da pranzo. Che tutto sia pronto a dovere per il desinare degli ospiti!»
Un uomo dal fisico atletico e dall’età indefinibile e apparente, tra i quaranta e i cinquant’anni, fece il suo solenne ingresso nell’ufficio. Seppure non tanto alto, aveva un passo marziale, in linea con la foggia dei suoi abiti, che avevano qualcosa di militaresco. La barba e i baffi, ben sagomati, erano neri e leggermente spruzzati di grigio, come la sua folta capigliatura.
Che fosse un militare venne confermato dal colpo di tacchi che diede, scattando sugli attenti, per presentarsi al padrone di casa, andatogli incontro in segno di accoglienza e rispetto.
«Don Agostino Barozzi ho il piacere di presentarvi don Pedro Domingo Mendoza Martinez, inviato di sua maestà il re di Spagna Filippo IV! Don Pedro, lasciate che vi presenti il Presidente del Tribunale dell’Inquisizione di Ferrara, confermato in sede da Sua Santità, il nuovo papa Urbano VIII», disse subito dopo avere dato il suo caldo benvenuto all’ospite ed essersi a sua volta presentato, volgendosi all’indietro verso l’ imponente figura di un religioso vestito di bianco.
All’Hidalgo don Pedro, quell’accoglienza in pompa magna, piacque soltanto a metà. Apprezzò l’utilizzo della lingua spagnola, che i due prelati italiani, da buoni diplomatici, padroneggiavano assai bene. E gli piacque, tutto sommato, la figura rotonda e gioviale del vice legato.
Forse perché lo superava in statura; inoltre la sua stretta di mano, debole e soffice, denotava un carattere poco bellicoso, anche se gli suggeriva, per esperienza, di guardarsi le spalle dalle sue azioni segrete.
Ciò che più di tutto lo mise a disagio, anche se soltanto a un livello epidermico, fu però quel domenicano, dall’aspetto troppo fiero e troppo gaudente, per quel suo ruolo di inquisitore.
«Ma, come mai, siete solo, eccellenza?», chiese Pasini Frassoni guardando oltre le spalle dell’hidalgo spagnolo.
«Il mio servitore non ama le riunioni conviviali; e padre Alonso de Barranquilla si è trattenuto in carrozza per completare i suoi vespri», disse il cavaliere spagnolo. «Vi sarei grato se ci poteste fare accompagnare ai nostri alloggi. So che il nostro comune amico vi ha raccomandato l’esigenza di una nostra autonomia».
«È tutto pronto, in tal senso. Tuttavia, il nostro comune amico, non mi perdonerebbe mai se vi facessi andar via senza avervi invitato a mangiare qualcosa con noi, dopo un così lungo viaggio! Vi farò accompagnare ai vostri alloggi subito dopo cena».
«Permettetemi allora che io vada a chiamare il mio accompagnatore e assistente spirituale Padre Alonso de Barranquilla e a dare disposizioni al mio servitore!» disse l’hidalgo ringraziando l’ospite per la sua gentilezza.
«Non incomodatevi, manderò uno dei miei servi» lo incalzò Pasini Frassoni.
Non aveva tuttavia finito di parlare che un sacerdote, alto e magro, rigorosamente vestito di nero, fece il suo ingresso nell’ufficio del vice legato. L’uomo fece sparire il suo breviario nelle capaci tasche della tonaca prima di presentarsi.
Nonostante la sua giovane età, il gesuita mostrava una grande sicurezza.
Il tempo di fare le presentazioni del nuovo venuto che Don Giuseppe si affacciò sulla soglia.
«In sala è tutto pronto per la cena!», disse rivolto al suo diretto superiore.
«Benissimo. Don Giuseppe accompagna i nostri ospiti a rinfrescarsi dal viaggio e poi portali in sala da pranzo», ordinò il padrone di casa. «Volete che faccia chiamare il vostro servitore?», aggiunse poi rivolto ai due nuovi arrivati.
«Non c’è bisogno. Ha con sé delle cose personali che non lascerebbe mai incustodite; e poi, come vi ho già detto, non è un tipo che ama troppo le compagnie numerose» lo giustificò l’hidalgo.
«Piuttosto non sarebbe male fargli arrivare qualcosa di caldo da mangiare», interpose il padre gesuita.
«Non si preoccupi. A questo provvederò immediatamente io», lo rassicurò il padrone di casa.
Poco dopo i quattro si ritrovarono in una sala dove troneggiava una tavola imbandita di tutto punto.
Il vice legato e il presidente del tribunale avevano atteso in piedi i loro due commensali.
«Prego accomodatevi. Spero vi piaccia la cucina italiana», disse il vice legato indicando agli ospiti i loro posti.
Dietro ogni sedia vi era un cameriere, che prontamente facilitò la loro seduta, scostando opportunamente le sedie dietro di loro.
«Amiamo abbastanza la vostra gradevole cucina, ma a tavola vorrei parlarvi di alcune cose alquanto riservate», rispose l’Hidalgo, posando il suo sguardo sospettoso sui camerieri.
Con un cenno degli occhi Pasini Frassoni licenziò i quattro camerieri. Intanto il coppiere aveva iniziato a versare il vino nei calici. Gli occhi intensi dello spagnolo si posarono su di lui, più che sul contenuto che aveva versato nei calici.
«State tranquillo don Pedro, si tratta di un fido servitore sordomuto», lo tranquillizzò il vice legato.
L’hidalgo annuì con un cenno d’intesa, cominciando a intuire la sottile intelligenza che animava il suo anfitrione italiano.
«Vi do il benvenuto con questo Savignon, tanto per iniziare», disse Pasini Frassoni levando in alto il calice. «Propongo questo primo brindisi in onore del re di Spagna», aggiunse subito dopo, mentre i calici tintinnavano.
«Al re Felipe e al papa Urbano», aggiunse Padre Alonso de Barranquilla.
Dopo il brindisi il padrone di casa invitò i commensali ad assaggiare il primo piatto, che lo stesso mescitore sordomuto, in mancanza di altro personale, provvide a versare nei piatti, attingendo da una zuppiera che troneggiava al centro della tavola.
Un gradevole profumo di zucchero e di latticini si levò dalla zuppiera e dai piatti fumanti.
«Buono davvero questo riso alla turchesca!», commentò per primo don Agostino Barozzi, che era un vero buongustaio.
«Il cuoco lo ha arricchito anche con farro e mandorle» disse il padrone di casa, apprezzando il complimento del suo connazionale.
«Davvero saporito», convenne il gesuita, sorridendo. Aveva dei denti piccoli e scuri, ma il suo sorriso denotava un animo gentile. Evitò di dire che lo avrebbe gustato meglio con un cucchiaio di legno, ma in fondo si era già rassegnato alle usanze italiane.
«Prima di tutto vorrei parlare del mio metodo di lavoro» disse don Pedro rivolgendosi al vice legato. Il padrone di casa annuì, notando che l’hidalgo, per niente in imbarazzo nell’uso della forchetta e del tovagliolo, aveva appena assaggiato il gustoso primo piatto.
«Non vi è piaciuto il riso?» chiese non di meno al suo ospite.
«È saporito, forse anche troppo, per il mio palato. E poi presumo che abbiate degli altri piatti da farci gustare. Mi voglio riservare uno spazio anche per dopo», rispose l’hidalgo gustando ancora un po’ di vino, per fare onore comunque alla buona tavola imbandita per lui.
Come evocato dalle parole dello spagnolo comparvero due camerieri che portavano due vassoi di arrosti: uno colmo di crostacei e di pesci del Po, l’altro di carni bianche. L’hidalgo, che aveva fatto cenno di continuare il suo discorso sulle sue modalità operative, si era bloccato all’apparire dei due camerieri.
Aspettò pazientemente che il dapifero trinciasse i fagiani e mondasse abilmente i pesci della portata. L’hidalgo, per tutto il tempo gli aveva tenuto gli occhi addosso. Con un cenno eloquente di congedo, Pasini Frassoni li congedò tutti e tre. Poi, sempre senza parlare, fece intendere al coppiere che era ora di cambiare calici e qualità del vino. Con gesti rituali il sordomuto provvide a colmare i nuovi calici di cristallo di un liquido rosso rubino.
«Ho pensato che con gli arrosti il vino più adatto fosse il Fortana».
«Ottima scelta», convenne don Agostino, che aveva già bevuto dell’acqua, dopo avere vuotato il calice del vino bianco e, soprattutto, il piatto di riso e farro.
L’hidalgo sollevò il calice per un ulteriore brindisi. Sembrava quasi rassegnato a quel cerimoniale ma si vedeva che i suoi interessi e la sua testa stavano da un’altra parte.
«Come vi dicevo», riprese infatti dopo avere gustato un piccolo sorso di rosso «io ho bisogno di una certa autonomia nel mio lavoro di indagine».
«In che senso?», interpose don Agostino dopo avere fatto schioccare la lingua sul palato, in segno di apprezzamento per il gusto del vino Fortana.
«Nel senso che noi seguiamo i nostri metodi e le nostre procedure in maniera autonoma. Per questo abbiamo chiesto un alloggio ampio e isolato» disse don Pedro Domingo Mendoza Martinez, sempre rivolto al vice legato. Non poté fare di osservare, comunque, con quanta lascivia il domenicano ingurgitasse i gustosi gamberoni di fiume.
«Però voi sapete che potete contare su di noi per ogni tipo aiuto. Il nostro comune amico mi ha raccomandato di non negarvi alcun appoggio possiate necessitare per il successo della vostra missione».
«Vi ringrazio e conto davvero sul vostro appoggio, soprattutto dandomi le opportune informazioni sull’Accademia capitanata da quel Pietro Marino De Regis segnalatami dal mio illustre committente e sui suoi indegni sodali».
«Potete contarci in toto, don Pedro», lo rassicurò il vice legato.
«Quanti soldati mi potete mettere a disposizione?», rilanciò subito lo spagnolo, dimostrando di voler subito giungere al sodo.
«Ho già pensato anche a quello. Alla fortezza del Barco vi è un plotone di soldati che si alternano nell’arco delle ventiquattrore. Il comandante, per mio incarico, è già stato informato del vostro arrivo».
«Sa già che lui e i suoi uomini saranno sotto il mio diretto comando per tutto il tempo in cui starò qui in missione?»
«Sì, certo. Glielo preciserò ulteriormente, se ci tenete»
«Certo che ci tengo. E vi ringrazio per ciò che farete per assicurarmi la più ampia autonomia».
«Ma non è che sorgano poi problemi di giurisdizione con il nostro comune amico? Sapete bene quanto egli sia geloso delle prerogative e delle competenze dell’umile ufficio che qui rappresentiamo…», intervenne a dire don Agostino, ch’era già passato a degustare i fagiani arrosto.
Don Pedro capì che un uomo di legge come il vice-legato poteva restare influenzato dal discorso del domenicano che, evidentemente, non era soltanto un mangione. Ma lo spagnolo conosceva bene l’animo umano e sapeva come muoversi anche sul piano dialettico.
«Anche io sono soltanto un umile servitore del re Filippo IV, ma sono qui per incarico del nostro comune amico onde assicurare alla giustizia divina l’anima di numerosi peccatori eretici. Non è forse così Padre Alonso?»
Il gesuita assentì in direzione dell’hidalgo con uno dei suoi sorrisi intelligenti e mansueti.
«Ma state pur sicuri che dopo il pentimento e la confessione degli eretici, il loro corpo vi verrà consegnato per le giuste punizioni.
E con il loro corpo anche i loro beni materiali rientreranno nella loro naturale giurisdizione; e sarete voi ad occuparvene, dal momento della confessione in poi» concluse lo spagnolo con un’espressione del viso che assomigliava più a un ghigno che a un vero sorriso.
Quest’ultimo inciso piacque assai all’ambizioso vicario che in realtà non ce l’aveva con il De Regis in funzione delle sue letture (lui stesso stava consultando avidamente certi scritti di Copernico, rinvenuti negli archivi estensi che in parte erano rimasti a Ferrara dopo la Devoluzione), ma puntava alla confisca delle sue proprietà (indispensabile corollario della sentenza di condanna per eresia in forza delle norme inquisitorie in vigore). Non di meno non volle che il domenicano avvertisse da parte sua una scarsa considerazione per le sue corrette considerazioni e ci tenne a tranquillizzarlo in tal senso. «State tranquillo don Agostino che provvederò personalmente a informare il nostro comune amico della misura e delle forme con cui abbiamo utilizzato la sua delega nei confronti del nostro ospite, qui in missione per conto di lui!»
Dopo cena il vice legato accompagnò i suoi ospiti in una saletta riservata ove, con grande stupore di tutti, dispiegò sopra un tavolo quadrato, una dettagliata mappa che comprendeva sia la vecchia città medievale, sia l’addizione erculea, comprensiva del tragitto che di lì a poco il terzetto spagnolo avrebbe percorso in direzione dell’edificio che un tempo aveva ospitato l’ Osteria del Buon Samaritano.
Pasini Frassoni li informò che li avrebbe fatti accompagnare da Cristoforo Messìppo, un abile cavallerizzo e suo conduttore personale, che avrebbe mantenuto i contatti riservati tra le due sedi. Gli mise inoltre a disposizione, uno scalco- credenziere e due delle sue migliori inservienti, una cuoca e l’altra pulitrice e rassettatrice.
Omise ovviamente di informare l’astuto hidalgo che in realtà si trattava di tre fidatissimi agenti della sua segreteria personale, incaricati di riferirgli nel dettaglio tutto quanto sarebbe avvenuto nella sede operativa prescelta per gli interrogatori degli inquisitori spagnoli.
Preso nota di alcune altre fondamentali informazioni sull’Accademia degli Increduli e su Pietro Marino De Regis, Don Pedro Domingo Mendoza Martinez e Padre Alonso de Barranquilla si avviarono nel cocchio personale del vice legato, condotto da Cristoforo Messìppo.
Li seguiva dappresso il carro con le vivande e le masserizie, nonché con il bagaglio della commissione inquisitoria iberica (escluso il bauletto di Tenoch, che lo legò sul dorso del suo cavallo, in sella al quale affiancava il cocchio che conduceva il suo padrone) guidato dallo scalco e credenziere.
Una luna piena e velata li accompagnava.
Messìppo pensò che l’indomani tutta Ferrara sarebbe stata avvolta nella nebbia.
Ma non disse niente. Il suo padrone gli aveva raccomandato infatti di mostrarsi indifferente a tutto e di tutto osservare senza dare nell’occhio.
Don Pedro Domingo Mendoza Martinez era un vero e proprio hidalgo, intransigente e irreprensibile. Discendente dei Conquistadores che nel secolo precedente avevano assicurato alla fede cattolica la parte centrale e buona parte di quella meridionale del continente americano, nutriva la stessa cieca convinzione sulla infallibilità della dottrina e della fede cattolica, che aveva spinto i suoi antenati alla conquista di nuove terre oltreoceano, anche se, per uno strano gioco del destino, o forse perché la sete di oro del suo casato era stata già appagata, al contrario dei suoi illustri e avventurosi ascendenti, egli non nascondeva altri retro pensieri, dietro al suo fanatismo religioso, all’infuori della sua patria e del suo re.
Odiava tanto i mestizos ed i conversos, quanto i riformisti e gli eretici di ogni sorta. Per contro amava il suo sovrano e i principii della fede cattolica. Ed era disposto a dare la sua vita pur di difendere la purezza della religione contro chiunque ne avesse messo in discussione l’assoluta preminenza. Per questo aveva accettato di entrare al servizio della Congregazione in difesa della Fede Cattolica. Ed era stato immesso direttamente dal re di Spagna nei ranghi dell’Inquisizione.
Nei primi anni, ancora giovanissimo, era stato istruito sulle tecniche investigative e su quelle dell’interrogatorio, che spesso sfociavano nella tortura, ogniqualvolta l’inquisito si rifiutava di confessare le sue eresie e di pentirsi, promettendo di seguire ciecamente gli insegnamenti di Madre Chiesa.
Poi, col tempo, era stato utilizzato come agente operativo, nei territori dell’immenso impero ispanico, coperto dall’immunità diplomatica ma ancora inquadrato nei ranghi della temibile e potente inquisizione spagnola.
Tenoch Tixtlancruz era il nome cristianizzato dell’impronunciabile appellativo patronimico di un discendente diretto di un guerriero Azteco, sbarcato con Colombo a Cadice, al termine del suo secondo viaggio nelle Indie (o quelle che lui credeva tali ma che poi si rivelarono essere le Americhe).
Attraverso vari incroci con la stirpe iberica, ne era venuto fuori un gigante alto quasi due metri, con il naso schiacciato, le labbra prominenti e una testa enorme che i capelli corvini, tagliati corti, rendevano ancora più grande. Agli orecchi portava due orecchini di foggia azteca e gli occhi grossi e neri cerchiati di sangue suscitavano terrore solo al vederli. Don Pedro lo chiamava semplicemente Tenoch ed era praticamente il suo braccio armato. Era lui che provvedeva, invero assai volentieri, agli esercizi della tortura cui erano sottoposti gli eretici prima di confessare o di morire colpevoli e dannati (la non confessione non era contemplata nel dizionario del truce torturatore).
Seppure orami convertito al cattolicesimo, aveva conservato della sua stirpe originaria, e della classe dei guerrieri a cui suo bisnonno si vantò sino alla morte di essere appartenuto, l’animo truculento, lo spirito di abnegazione e di sacrificio per il suo credo, una forza erculea e una fiducia incrollabile nel potere costituito, di natura civile o religioso che esso fosse.
Nella sua mente, il racconto della Creazione del libro della Genesi con cui era iniziata la sua educazione cattolica, sostituiva in maniera impeccabile e perfetta, le avite credenze sulla potenza del sole e delle stelle. Si convinse da subito che quel Dio Onnipotente e Sempiterno era lo stesso Sole che avevano adorato i suoi avi o, quantomeno, un parente assai prossimo, se non proprio il padre, il Creatore, per l’appunto.
Portava con sé, ovunque andasse, un baule di legno dentro il quale custodiva le sue pinze strappa seni (che non disdegnava di utilizzare anche per schiacciare i testicoli dei prigionieri più riottosi), un imbuto di metallo, un otre della capacità di tre litri (con cui somministrava agli eretici l’acqua in dosi, sino al numero di sei) e una serie di funi e carrucole per lo stiramento delle ossa dei poveri malcapitati nella stanza delle torture dell’Inquisizione.
Completava il terzetto ispanico, come già detto, Padre Alonso Ramirez de Barranquilla, un gesuita che aveva in comune con i due compagni di viaggio soltanto la fede nello stesso Dio (anche se a volte lui stesso dubitava che si trattasse davvero del medesimo Dio). Anzi, forse la sua presenza nel trio si giustificava proprio per la sua diversità che, in qualche misura, fungeva da calmiere della passionale intemperanza dei suoi compagni di viaggio.
In effetti lui era con loro per consolare e per confessare i prigionieri; e per convincerli che sarebbe stato inutile resistere e che era meglio pentirsi e riconciliarsi con Dio.
Davanti ad una confessione piena e incondizionata le torture non avevano più senso di esistere e dovevano cessare immediatamente. E lui, con la sua autorevolezza, otteneva che cessassero.
Di fronte al pentimento e al ravvedimento il prigioniero non era più un reietto da punire, una carne da macellare, una potenza demoniaca da dissolvere nei tormenti dell’espiazione; al contrario, il torturato si tramutava, per grazia evangelica, in un figliol prodigo, tornato alla casa del padre a capo chino, desideroso solo di essere riaccolto e perdonato.
E se l’atto di riconciliazione, sancito dall’assoluzione che Padre Ramirez non disdegnava di elargire con ampi gesti della mano e con la formula solenne in latino e che il Servo di Gesù comunicava raggiante ai due torturatori, non esonerava il povero disgraziato dalla punizione umana, il perdono divino, pur tuttavia, lo riabilitava nella sua dignità umana, riscattandolo da quei recessi di ignominia e degrado in cui era precipitato con il peccato, restituendolo al consorzio cristiano, ridandogli lo status di figlio di Dio e come tale, inviolabile nella sua sacralità filiale.
Ed ogni volta che questo accadeva (praticamente sempre, o quasi sempre) il buon gesuita sentiva che le sue sofferenze, il suo disagio, la ripugnanza stessa che quelle torture e quei torturatori procuravano alla sua anima sensibile e pia, trovava un’equa compensazione nel riscatto di quell’anima recuperata alla salvezza eterna.
E poco importava, a quel punto, se gli infelici malcapitati fossero stati, all’origine, innocenti o colpevoli.
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