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Quinto
Di buon mattino Dario
lasciò l’Agnata. Fabrizio aveva insistito perché fosse accompagnato da un suo
collaboratore almeno sino a Tempio. In sua presenza, alla stazione Arst, comprò
un biglietto per Sassari, anche se sapeva bene che questa volta avrebbe
proseguito per Nuoro. Ma non disse niente a nessuno di questa sua intenzione.
Durante il viaggio si
perse nei suoi pensieri, osservando il paesaggio agreste che si susseguiva
chilometro dopo chilometro. Muretti di pietre a secco contrassegnavano il
paesaggio ai lati della strada, limite e confine delle numerose tanche, spesso
adibite a pascolo delle mucche e delle greggi, con fitti gruppi di macchia
mediterranea a perdita d’occhio, che si inerpicavano nelle valli e nei monti
circostanti. L’odore del cisto, del lentischio, del ginepro, della menta
selvatica e degli altri aromi della vegetazione penetravano dai finestrini
socchiusi e si percepivano più intensamente ogni volta che il pullman si
fermava per fare salire qualche passeggero o per consentire a chi già fosse a
bordo di scendere.
A Sassari scese per
sgranchirsi le gambe e comprare un biglietto di prosecuzione sino alla sua meta
di destinazione.
Scendendo a sud, il
paesaggio si fece ancora più selvaggio e i centri abitati meno frequenti. Ma il
sonno, a un tratto, ebbe il sopravvento sui suoi pensieri e si addormentò.
Una volta giunto a Nuoro,
Dario preferì telefonare. Dopo molti squilli, quando stava per riattaccare la
cornetta, una voce profonda si udì dall’altro capo del telefono.
«Chi è?»
Dario si ricordò che Vittorio
gli aveva suggerito la massima discrezione, parlando il meno possibile al
telefono e sempre senza fare nomi.
«Sono l’amico
continentale che dovevate ospitare i mesi scorsi…»
«È sicuro di avere fatto
il numero giusto. Questa non è una casa vacanza per continentali.»
Prima che quello
riattaccasse Dario pensò bene di sbilanciarsi un poco.
«Mi mandano i compagni di
Genova e non per vacanza.»
Dopo un attimo di
incertezza, l’altro sembrò capire. «Dove sei?»
«Alla stazione dei
pullman, in via La Marmora.»
«Aspettami che vengo a
prenderti.»
Dario riattaccò e si
guardò in giro. Sentiva un po’ freddo, anche se il sole, alto sopra l’orizzonte,
sembrava essersi deciso a riscaldare un po’ l’aria. Decise di sgranchirsi le gambe e si mise a
passeggiare in cerca di un bar. Dopo un buon caffè si accese una sigaretta e si
riavviò verso la stazione dei pullman. Notò subito un tipo, con gli occhiali e
una barba rada e grigia, che lo osservava. Si aspettava di vedere l’uomo che
aveva visto con Vittorio nella boscaglia dell’Agnata, ma non era lui. Intanto
perché era vestito in maniera molto normale.
«Sei tu il genovese?» gli
chiese sottovoce. Ostentava indifferenza e parlò senza quasi guardarlo.
«Piacere sono…»
«Seguimi» lo interruppe
l’altro, voltandogli le spalle. «Le presentazioni le facciamo dopo.»
L’uomo, sulla quarantina,
aveva parcheggiato la sua auto poco lontano. In macchina scoprì che si chiamava
Marino. Gli disse che aveva sentito Vittorio al telefono, la sera prima, e che
sapeva tutto.
«Quindi Fabrizio De André
è un tuo amico d’infanzia?» chiese l’uomo dopo un rapido scambio di nomi e di
formalità.
Anche se la domanda fu
pronunciata con tono ammirato, l’assenso di Dario non fu dello stesso tenore.
«Caspita! Lo sai che è il
mio cantautore preferito?» domandò Marino. «Ma che tipo è questo Fabrizio De
André? Io l’ho sempre considerato uno di noi, magari un po’ troppo anarchico e
troppo poco inquadrato, ma in ogni caso un uomo di sentimenti e di idee nelle
quali mi riconosco pienamente» continuò, visto che Dario si era limitato, come
prima, ad annuire.
«Non è mai stato uno di
noi» disse finalmente Dario, dandosi un tono saccente.
«No?» chiese quello deluso. «E perché?»
«Il padre è impaccato di
soldi e anche lui, in fondo, è nato benestante e
al di là delle apparenze resta un borghese.»
«Ah! Ma pensa! Io credevo
che fosse un tuo amico» esclamò Marino sorpreso.
«Che c’entra? Una cosa è essere stati amici nell’infanzia,
un’altra è constatare che ancora oggi ci separa un abisso ideologico ed
economico. Anzi, questa nuova consapevolezza, getta anche un’ombra sulla nostra
infanzia.»
«In che senso?»
«Nel senso che, con il tempo,
ti rendi conto che tu nella vita non hai avuto un belin, mentre altri sono
cresciuti nella ricchezza e continuano a farlo. Non hai visto che cosa si è
comprato nelle campagne di Tempio?» aggiunse Dario, contento di sorprendere il
suo interlocutore.
«No, ma ne ho sentito
parlare, anche se non sono mai stato lì. Non mi ero immaginato una cosa di
lusso, però.»
«Beh, io non parlo di
lusso. Ma quella tenuta enorme, con tutti quegli animali, deve valere una
fortuna.»
«Allora hanno visto bene i
bittesi» replicò Marino.
«In che senso? E chi sono
questi bittesi?»
«Ogni cosa a suo tempo»
disse l’uomo fermando l’auto sul bordo della strada. «Siamo arrivati.»
La palazzina stile anni
cinquanta davanti alla quale si erano fermati aveva un aspetto anonimo in
quella che appariva sicuramente la periferia di Nuoro. In lontananza Dario
osservò il profilo dei monti, oltre una vallata sul cui ciglio vi erano sparsi
altri edifici sorti nello stesso periodo o forse anche un decennio dopo.
«Lascia pure qui il tuo
bagaglio. Dopo pranzo ti mostrerò dove potrai sistemarti. Ti faccio strada in
cucina. Ti dovrai accontentare di un pranzo freddo e improvvisato» disse l’uomo
appena furono dentro casa.
Il pranzo era freddo,
seppure quel pane asciutto, quel formaggio e quella salsiccia avevano un
profumo e un gusto che Dario apprezzò e soprattutto quel vino rosso gli
rallegrò l’animo e mise entrambi di buonumore. Dopo il caffè si trattennero
ancora in cucina, a chiacchierare. Una canna che Marino gli passò, dopo avergli
semplicemente chiesto se gli piacesse fumare, gli sciolse la lingua
definitivamente, abbattendo le barriere della diffidenza che prima si erano
frapposte tra loro. L’uomo che aveva davanti, adesso gli ispirava una totale
fiducia. Dario gli confidò i suoi sentimenti rivoluzionari, ma anche i dubbi e
la crisi che lo avevano investito dopo quell’azione di fuoco in cui era morto
il sindacalista dell’Italsider. Evidentemente la sua sincerità gli piacque e lo
ascoltò con profonda partecipazione, annuendo ogni tanto, come per
incoraggiarlo a continuare il suo racconto.
«Ma lo sai che io sono
qui, a Nuoro, senza sapere il vero motivo che ha spinto Vittorio a mandarmi da
te? Non mi fraintendere. Io sono convinto e
leale verso di lui e verso la nostra causa, ma certe volte vorrei sapere di
più, capire meglio…non so se tu mi comprendi. »
«Certo che ti capisco. Ma
guarda che qualche volta è meglio non sapere e non intendere, credimi».
«Che significa?» chiese
Dario che ormai aveva fiducia in quell’uomo.
«Voglio dire che ciascuno
di noi deve svolgere il suo ruolo, dando ciò che ha e ciò che può, senza porsi
troppo domande e senza cercare di analizzare ciò che a volte è meglio non
comprendere…»
«Continuo a non capire» affermò
Dario accendendosi una sigaretta. Sentiva la gola secca e bevve un abbondante
sorso d’acqua.
«Ti faccio un esempio
pratico. Prendi me. Io sulle armi ho le tue stesse perplessità, ma ti ammiro perché
sei riuscito a fare parte di un commando armato. Io non sarei capace, non è
soltanto questione di coraggio, credimi. È che io ho la vocazione per fare
altro. Vittorio e i miei amici bittesi e non soltanto quelli lo hanno capito e
non mi chiederebbero mai di fare parte di un gruppo d’assalto o di partecipare
a un’azione di fuoco…»
Dario lo guardò con aria
interrogativa, senza parlare. Marino sembrò interpretare correttamente la sua
aria sorpresa, perché continuo a raccontare.
«Io svolgo una funzione
da intermediario tra il mondo pastorale, che conosco bene, dato che mio padre
produceva formaggi e da piccolo mi portava con sé, in giro per gli ovili a
ritirare il latte che gli serviva per la sua impresa nascente e il mondo degli
intellettuali dei quali faccio parte in qualità di insegnante.»
«E quindi?»
«Quando sento dire
qualcosa da qualcuno, non faccio domande. Ho introdotto Vittorio nella realtà
agropastorale e il mio compito è finito là. Sono a disposizione del movimento
per altri compiti ma non sarei capace di fare altro. Credimi se ti dico che non
è stato facile per me accettare, ma sono convinto che fosse la cosa giusta, in
questo momento storico, e l’ho fatto, restando fedele, in un certo senso, alla
mia vocazione non violenta.»
«Ma perché Vittorio è voluto entrare in contatto con il mondo dei
pastori?» chiese ancora Dario che adesso cominciava a capire chi fosse
quell’uomo silenzioso che aveva visto nelle campagne dell’Agnata in compagnia
di Vittorio.
«Io questo non lo so. Posso
intuirlo e poi, più che Vittorio sono stati i suoi amici guerriglieri a
chiedermelo.»
«Amici guerriglieri?»,
chiese Dario d’istinto, sentendosi subito dopo uno sciocco.
«I giornali li
chiamerebbero terroristi o fuorilegge ma loro preferiscono autodefinirsi
guerriglieri e combattenti per la liberazione della Sardegna dal giogo
colonialista.»
«Quindi anche i pastori lottano
per una Sardegna comunista, libera dall’oppressione capitalistica?»
«Vittorio e gli altri ne
sembrano convinti»
«Tu no?» domandò ancora
ingenuamente il giovane.
«Molti di loro lottano e
agiscono per degli ideali ma non siamo tutti uguali al mondo.»
Anche stavolta Marino
sembrò leggere nella mente di Dario le perplessità che avevano suscitato le sue
parole.
«D’altronde, alcune volte
mi ritrovo a riflettere su cosa pensano i sassaresi e i cagliaritani, cioè la
maggioranza numerica dei Sardi, di questa nostra lotta rivoluzionaria. Se anche
vincessimo, ci seguirebbero di buon grado? L’accetterebbero?»
«Nelle nostre riunioni ho
sempre sentito dire, da quelli che ne sanno più di me, che sono le élites a
prendere il potere. Le masse devono seguire, perché hanno bisogno di essere
guidate.»
« L’ho letto anche io da
qualche parte. Ma vedi, noi Sardi siamo troppo fatalisti per credere davvero
nella vittoria finale. Personalmente ho sempre pensato che sarebbe stato
diverso se non fosse morto un certo editore, uno con i soldi e la testa da
condottiero. Lui sì che ci credeva nella rivoluzione, anche se alcuni dicono
che avesse confuso la Sardegna con Cuba.»
Marino, invece di soddisfare
l’aria interrogativa che aveva visto ancora dipingersi sul viso del suo
interlocutore, questa volta si alzò di scatto dopo avere
guardato il suo orologio da polso.
«Devo uscire a
telefonare. Vieni che ti mostro la tua stanza. Mettiti a tuo agio, io ritorno
subito».
Andando via Marino gli
rivolse un ultimo saluto. «Guarda che il telefono, qui in casa, funziona. Dipende
soltanto da quello che devi dire e a chi tu debba telefonare.»