giovedì 17 ottobre 2024

Il Manuale del perfetto orologiaio

 

https://www.amazon.it/dp/B0BQ6MR661

Capitolo Quinto

«Eccellenza, gli ospiti spagnoli sono giunti e chiedono di essere ricevuti», disse il primo segretario con una certa agitazione nella voce, affacciandosi alla porta dello studio che il vice legato aveva lasciata aperta in attesa dell’arrivo di quegli ospiti lungamente attesi.

«Finalmente! È tutto il santo giorno che li aspetto», disse rivolto al suo interlocutore, interrompendolo. Poi, rivolto al suo braccio destro aggiunse: «Falli accomodare e poi recati subito in sala da pranzo. Che tutto sia pronto a dovere per il desinare degli ospiti!»

Un uomo dal fisico atletico e dall’età indefinibile e apparente, tra i quaranta e i cinquant’anni, fece il suo solenne ingresso nell’ufficio. Seppure non tanto alto, aveva un passo marziale, in linea con la foggia dei suoi abiti, che avevano qualcosa di militaresco. La barba e i baffi, ben sagomati, erano neri e leggermente spruzzati di grigio, come la sua folta capigliatura. Che fosse un militare venne confermato dal colpo di tacchi che diede, scattando sugli attenti, per presentarsi al padrone di casa, andatogli incontro in segno di accoglienza e rispetto.

«Don Agostino Barozzi ho il piacere di presentarvi don Pedro Domingo Mendoza Martinez, inviato di sua maestà il re di Spagna Filippo IV! Don Pedro, lasciate che vi presenti il Presidente del Tribunale dell’Inquisizione di Ferrara, confermato in sede da Sua Santità, il nuovo papa Urbano VIII», disse subito dopo avere dato il suo caldo benvenuto all’ospite ed essersi a sua volta presentato, volgendosi all’indietro verso l’ imponente figura di un  religioso vestito di bianco.

All’Hidalgo don Pedro, quell’accoglienza in pompa magna, piacque soltanto a metà. Apprezzò l’utilizzo della lingua spagnola, che i due prelati italiani, da buoni diplomatici, padroneggiavano assai bene.

E gli piacque, tutto sommato, la figura rotonda e gioviale del vice legato. Forse perché lo superava in statura; inoltre la sua stretta di mano, debole e soffice, denotava un carattere poco bellicoso, anche se gli suggeriva, per esperienza, di guardarsi le spalle dalle sue azioni segrete.

Ciò che più di tutto lo mise a disagio, anche se soltanto a un livello epidermico, fu però quel domenicano, dall’aspetto troppo fiero e troppo gaudente, per quel suo ruolo di inquisitore.

«Ma, come mai, siete solo, eccellenza?», chiese Pasini Frassoni guardando oltre le spalle dell’hidalgo spagnolo.

«Il mio servitore non ama le riunioni conviviali; e padre Alonso de Barranquilla si è trattenuto in carrozza per completare i suoi vespri», disse il cavaliere spagnolo. «Vi sarei grato se ci poteste fare accompagnare ai nostri alloggi. So che il nostro comune amico vi ha raccomandato l’esigenza di una nostra autonomia».

«È tutto pronto, in tal senso. Tuttavia, il nostro comune amico, non mi perdonerebbe mai se vi facessi andar via senza avervi invitato a mangiare qualcosa con noi, dopo un così lungo viaggio! Vi farò accompagnare ai vostri alloggi subito dopo cena».

«Permettetemi allora che io vada a chiamare il mio accompagnatore e assistente spirituale Padre Alonso de Barranquilla e a dare disposizioni al mio servitore!» disse l’hidalgo ringraziando l’ospite per la sua gentilezza.

«Non incomodatevi, manderò uno dei miei servi» lo incalzò Pasini Frassoni.

Non aveva tuttavia finito di parlare che un sacerdote, alto e magro, rigorosamente vestito di nero, fece il suo ingresso nell’ufficio del vice legato. L’uomo fece sparire il suo breviario nelle capaci tasche della tonaca prima di presentarsi. Nonostante la sua giovane età, il gesuita mostrava una grande sicurezza.

Il tempo di fare le presentazioni del nuovo venuto che Don Giuseppe si affacciò sulla soglia.

«In sala è tutto pronto per la cena!», disse rivolto al suo diretto superiore.

«Benissimo. Don Giuseppe accompagna i nostri ospiti a rinfrescarsi dal viaggio e poi portali in sala da pranzo», ordinò il padrone di casa. «Volete che faccia chiamare il vostro servitore?», aggiunse poi rivolto ai due nuovi arrivati.

«Non c’è bisogno. Ha con sé delle cose personali che non lascerebbe mai incustodite; e poi, come vi ho già detto, non è un tipo che ama troppo le compagnie numerose» lo giustificò l’hidalgo.

«Piuttosto non sarebbe male fargli arrivare qualcosa di caldo da mangiare», interpose il padre gesuita.

«Non si preoccupi. A questo provvederò immediatamente io», lo rassicurò il padrone di casa.

Poco dopo i quattro si ritrovarono in una sala dove troneggiava una tavola imbandita di tutto punto. Il vice legato e il presidente del tribunale avevano atteso in piedi i loro due commensali.

«Prego accomodatevi. Spero vi piaccia la cucina italiana», disse il vice legato indicando agli ospiti i loro posti.

Dietro ogni sedia vi era un cameriere, che prontamente facilitò la loro seduta, scostando opportunamente le sedie dietro di loro.

«Amiamo abbastanza la vostra gradevole cucina, ma a tavola vorrei parlarvi di alcune cose alquanto riservate», rispose l’Hidalgo, posando il suo sguardo sospettoso sui camerieri.

Con un cenno degli occhi Pasini Frassoni licenziò i quattro camerieri. Intanto il coppiere aveva iniziato a versare il vino nei calici. Gli occhi intensi dello spagnolo si posarono su di lui, più che sul contenuto che aveva versato nei calici.

«State tranquillo don Pedro, si tratta di un fido servitore sordomuto», lo tranquillizzò il vice legato.

L’hidalgo annuì con un cenno d’intesa, cominciando a intuire la sottile intelligenza che animava il suo anfitrione italiano.

«Vi do il benvenuto con questo Savignon, tanto per iniziare», disse Pasini Frassoni levando in alto il calice. «Propongo questo primo brindisi in onore del re di Spagna», aggiunse subito dopo, mentre i calici tintinnavano.

«Al re Felipe e al papa Urbano», aggiunse Padre Alonso de Barranquilla.

Dopo il brindisi il padrone di casa invitò i commensali ad assaggiare il primo piatto, che lo stesso mescitore sordomuto, in mancanza di altro personale, provvide a versare nei piatti, attingendo da una zuppiera che troneggiava al centro della tavola.

Un gradevole profumo di zucchero e di latticini si levò dalla zuppiera e dai piatti fumanti.

«Buono davvero questo riso alla turchesca!», commentò per primo don Agostino Barozzi, che era un vero buongustaio.

«Il cuoco lo ha arricchito anche con farro e mandorle» disse il padrone di casa, apprezzando il complimento del suo connazionale.

«Davvero saporito», convenne il gesuita, sorridendo. Aveva dei denti piccoli e scuri, ma il suo sorriso denotava un animo gentile. Evitò di dire che lo avrebbe gustato meglio con un cucchiaio di legno, ma in fondo si era già rassegnato alle usanze italiane.

«Prima di tutto vorrei parlare del mio metodo di lavoro» disse don Pedro rivolgendosi al vice legato. Il padrone di casa annuì, notando che l’hidalgo, per niente in imbarazzo nell’uso della forchetta e del tovagliolo, aveva appena assaggiato il gustoso primo piatto.

«Non vi è piaciuto il riso?» chiese non di meno al suo ospite.

«È saporito, forse anche troppo, per il mio palato. E poi presumo che abbiate degli altri piatti da farci gustare. Mi voglio riservare uno spazio anche per dopo», rispose l’hidalgo gustando ancora un po’ di vino, per fare onore comunque alla buona tavola imbandita per lui.

Come evocato dalle parole dello spagnolo comparvero due camerieri che portavano due vassoi di arrosti: uno colmo di crostacei e di pesci del Po, l’altro di carni bianche. L’hidalgo, che aveva fatto cenno di continuare il suo discorso sulle sue modalità operative, si era bloccato all’apparire dei due camerieri. Aspettò pazientemente che il dapifero trinciasse i fagiani e mondasse abilmente i pesci della portata. L’hidalgo, per tutto il tempo gli aveva tenuto gli occhi addosso.

 Con un cenno eloquente di congedo, Pasini Frassoni li congedò tutti e tre. Poi, sempre senza parlare, fece intendere al coppiere che era ora di cambiare calici e qualità del vino.  Con gesti rituali il sordomuto provvide a colmare i nuovi calici di cristallo di un liquido rosso rubino.

«Ho pensato che con gli arrosti il vino più adatto fosse il Fortana».

«Ottima scelta», convenne don Agostino, che aveva già bevuto dell’acqua, dopo avere vuotato il calice del vino bianco e, soprattutto, il piatto di riso e farro.

L’hidalgo sollevò il calice per un ulteriore brindisi. Sembrava quasi rassegnato a quel cerimoniale ma si vedeva che i suoi interessi e la sua testa stavano da un’altra parte.

«Come vi dicevo», riprese infatti dopo avere gustato un piccolo sorso di rosso «io ho bisogno di una certa autonomia nel mio lavoro di indagine».

«In che senso?», interpose don Agostino dopo avere fatto schioccare la lingua sul palato, in segno di apprezzamento per il gusto del vino Fortana.

«Nel senso che noi seguiamo i nostri metodi e le nostre procedure in maniera autonoma. Per questo abbiamo chiesto un alloggio ampio e isolato» disse   don Pedro Domingo Mendoza Martinez, sempre rivolto al vice legato. Non poté fare di osservare, comunque, con quanta lascivia il domenicano ingurgitasse i gustosi gamberoni di fiume.

«Però voi sapete che potete contare su di noi per ogni tipo aiuto. Il nostro comune amico mi ha raccomandato di non negarvi alcun appoggio possiate necessitare per il successo della vostra missione».

«Vi ringrazio e conto davvero sul vostro appoggio, soprattutto dandomi le opportune informazioni sull’Accademia capitanata da quel Pietro Marino De Regis segnalatami dal mio illustre committente e sui suoi indegni sodali».

«Potete contarci in toto, don Pedro», lo rassicurò il vice legato.

«Quanti soldati mi potete mettere a disposizione?», rilanciò subito lo spagnolo, dimostrando di voler subito giungere al sodo.

«Ho già pensato anche a quello. Alla fortezza del Barco vi è un plotone di soldati che si alternano nell’arco delle ventiquattrore. Il comandante, per mio incarico, è già stato informato del vostro arrivo».

«Sa già che lui e i suoi uomini saranno sotto il mio diretto comando per tutto il tempo in cui starò qui in missione?»

«Sì, certo. Glielo preciserò ulteriormente, se ci tenete»

«Certo che ci tengo. E vi ringrazio per ciò che farete per assicurarmi la più ampia autonomia».

«Ma non è che sorgano poi problemi di giurisdizione con il nostro comune amico? Sapete bene quanto egli sia geloso delle prerogative e delle competenze dell’umile ufficio che qui rappresentiamo…», intervenne a dire don Agostino, ch’era già passato a degustare i fagiani arrosto.

Don Pedro capì che un uomo di legge come il vice-legato poteva restare influenzato dal discorso del domenicano che, evidentemente, non era soltanto un mangione. Ma lo spagnolo conosceva bene l’animo umano e sapeva come muoversi anche sul piano dialettico.

 «Anche io sono soltanto un umile servitore del re Filippo IV, ma sono qui per incarico del nostro comune amico onde assicurare alla giustizia divina l’anima di numerosi  peccatori eretici. Non è forse così Padre Alonso?»

Il gesuita assentì in direzione dell’hidalgo con uno dei suoi sorrisi intelligenti e mansueti.

«Ma state pur sicuri che dopo il pentimento e la confessione degli eretici, il loro corpo vi verrà consegnato per le giuste punizioni. E con il loro corpo anche i loro beni materiali rientreranno nella loro naturale giurisdizione; e sarete voi ad occuparvene, dal momento della confessione in poi» concluse lo spagnolo con un’espressione del viso che assomigliava più a un ghigno che a un vero sorriso.

Quest’ultimo inciso piacque assai all’ambizioso vicario che in realtà non ce l’aveva con il De Regis in funzione delle sue letture (lui stesso stava consultando avidamente certi scritti di Copernico, rinvenuti negli archivi estensi che in parte erano rimasti a Ferrara dopo la Devoluzione), ma puntava alla confisca delle sue proprietà (indispensabile corollario della sentenza di condanna per eresia in forza delle norme inquisitorie in vigore). Non di meno non volle che il domenicano avvertisse da parte sua una scarsa considerazione per le sue corrette considerazioni e ci tenne a tranquillizzarlo in tal senso.

«State tranquillo don Agostino che provvederò personalmente a informare il nostro comune amico della misura e delle forme con cui abbiamo utilizzato la sua delega nei confronti del nostro ospite, qui in missione per conto di lui!»

Dopo cena il vice legato accompagnò i suoi ospiti in una saletta riservata ove, con grande stupore di tutti, dispiegò sopra un tavolo quadrato, una dettagliata mappa che comprendeva sia la vecchia città medievale, sia l’addizione erculea, comprensiva del tragitto che di lì a poco il terzetto spagnolo avrebbe percorso in direzione dell’edificio che un tempo aveva ospitato l’Osteria del Buon Samaritano.

Pasini Frassoni li informò che li avrebbe fatti accompagnare da Cristoforo Messìppo, un abile cavallerizzo e suo conduttore personale, che avrebbe mantenuto i contatti riservati tra le due sedi. Gli mise inoltre a disposizione, uno scalco- credenziere e  due delle sue migliori inservienti, una cuoca e l’altra pulitrice e rassettatrice. Omise ovviamente di informare l’astuto hidalgo che in realtà si trattava di tre fidatissimi agenti della sua segreteria personale, incaricati di riferirgli nel dettaglio tutto quanto sarebbe avvenuto nella sede operativa prescelta per gli interrogatori degli inquisitori spagnoli.

Preso nota di alcune altre fondamentali informazioni sull’Accademia degli Increduli e su Pietro Marino De Regis, Don Pedro Domingo Mendoza Martinez e Padre Alonso de Barranquilla si avviarono nel cocchio personale del vice legato, condotto da Cristoforo Messìppo.

Li seguiva dappresso il carro con le vivande e le masserizie, nonché con il bagaglio della commissione inquisitoria iberica (escluso il bauletto di Tenoch, che lo legò sul dorso del suo  cavallo, in sella al quale affiancava il cocchio che conduceva il  suo padrone)  guidato dallo scalco e credenziere.

Una luna piena e velata li accompagnava.

Messìppo pensò che l’indomani tutta Ferrara sarebbe stata avvolta nella nebbia.

Ma non disse niente. Il suo padrone gli aveva raccomandato infatti di mostrarsi indifferente a tutto e di tutto osservare senza dare nell’occhio.

Un neo brigatista in Sardegna

 

https://deimerangoli.it/shop/sicuramente-ligure/

Capitolo Quarto

 

Con il tempo Dario, era riuscito a farsi una ragione della morte di quel sindacalista che era caduto nel corso della prima e unica azione terroristica alla quale lui aveva preso parte. Nel corso di numerose riunioni segrete, alle quali aveva successivamente partecipato, si era parlato molto del prezzo di sangue che si sarebbe dovuto pagare sulla via della rivoluzione vittoriosa. Numerose letture avevano poi contribuito a rafforzare le sue convinzioni. Concluse che ormai si trattava di una guerra e senza morti era impossibile da immaginare. D’altronde anche molti dei loro compagni erano caduti sotto il fuoco nemico dei carabinieri e dei poliziotti ed era legittimo rispondere con il fuoco. Il torto era facile da intravedere nello sfruttamento secolare, per non dire millenario, degli operai e dei braccianti, schiavizzati con la schiena piegata sulla terra da coltivare o legati alla catena di montaggio. Mentre i ricchi, i borghesi, i padroni se la spassavano tra belle donne e macchine di lusso, con gli yatch ormeggiati al porto sempre a loro disposizione. Chi lo aveva decretato che lui dovesse appartenere per sempre alla classe degli schiavi? Non aveva forse ragione il povero ad alzare la voce e a ribellarsi? E i ricchi avrebbero ceduto le loro proprietà, il loro potere con le buone maniere, ragionando da buoni fratelli? Col cavolo! Lenin, Mao e Fidel Castro avevano imbracciato le armi ed erano riusciti a riportare l’uguaglianza e la libertà ai diseredati e agli sfruttati di sempre.

 I libri di storia, dopo la vittoria della rivoluzione, gli avrebbero reso quello che adesso i giornali e le televisioni dei padroni gli stavano togliendo in termini di credibilità e ragione.

 Quando a metà giugno partì per la Sardegna, senza dire niente a nessuno, decise che prima di andare a Nuoro per quei contatti con i combattenti sardi per la libertà e l’indipendenza, si sarebbe recato a trovare i parenti di sua madre e forse perfino da Fabrizio.

I parenti di sua madre, a Sassari, lo accolsero davvero con affettuoso calore. In aggiunta al senso di ospitalità, tipico dei Sardi, vi era quel legame di sangue, che li univa, ad amplificare quell’afflato empatico. Angelo, uno dei suoi cugini, che aveva più o meno la sua età, aveva un bel giro di amicizie e anche lì fu accolto con estrema simpatia.

Tuttavia, quando si accorse che una delle sue amiche, con cui aveva più che familiarizzato, si stava troppo affezionando a lui, decise ch’era giunto il momento di staccarsi. Si guardò bene dal comunicare i suoi riferimenti nuoresi e inventò di avere un impegno importante con il suo amico d’infanzia Fabrizio, nelle campagne di Tempio, dove diede appuntamento a tutti quanti, per ritrovarsi e rafforzare i loro vincoli, di qualunque natura essi fossero. All’Agnata ci andò davvero con l’idea di salutare il suo amico Fabrizio e ripartire poi per Nuoro, dove avrebbe preso finalmente i contatti, come da incarico ricevuto.

Da Tempio non fu semplice trovare un passaggio per l’azienda agricola di Fabrizio ma alla fine, a forza di chiedere, trovò un passaggio su un camion che andava lì per prendere il latte delle mucche e portarlo in città. L’estate era già avanzata nella campagna tempiese. Mentre l’autista guidava attento su quelle tortuose stradine, lui respirava a pieni polmoni quei profumi inebrianti della macchia mediterranea. Si sentiva emozionato dall’idea di ritrovare il suo vecchio amico e di vedere come si fosse sistemato nella terra di sua madre. Certo era strano quel suo compagno d’infanzia. Lo era sempre stato, anche se lui aveva sempre attribuito le stranezze del suo carattere, come una bizzarria dovuta alla sua nascita tra i privilegiati e alle eccessive attenzioni che aveva ricevuto in famiglia, soprattutto dalla mamma, sempre pronta ad accontentare quel suo figlio ribelle e capriccioso. Non gli era mai venuto in mente che invece, quelle originalità, fossero frutto della natura artistica di un animo attento e sensibile alla natura. Un ascolto perenne alla vita e ai suoi dettati. Nell’animo di Dario non c’era posto per simili sentimenti. Lui, ormai, misurava tutto con un metro materiale.

Fabrizio fu sinceramente felice di vederlo e di ospitarlo. Quanto a trascorrere insieme del tempo, era un’altra questione. A parte qualche partita a carte, la sera, dopo avere inizialmente ricordato ancora una volta i vecchi tempi trascorsi nei caruggi della città vecchia, non ci furono troppe occasioni. Il suo amico aveva delle abitudini originali, riguardo al tempo. Dormiva di giorno e per lo più lavorava di notte in compagnia della sua chitarra. Le sue note e i suoi versi riempivano il silenzio notturno. Una volta anche Dario si sentì immerso in una nuvola di malinconia, proprio mentre il suo amico cantava ‘Giugno 73’ una canzone che, per sua stessa ammissione, era una delle poche autobiografiche. Fu durante il verso finale “è stato meglio lasciarci che non esserci mai incontrati” che si ritrovò a ripensare alla sua ragazza finalmente così felice di avere l’apparecchio acustico che aveva risolto il suo problema uditivo che l’affliggeva dalla nascita. Cosa stava facendo ora Bice? Lo amava ancora? Mentre si rigirava nel suo letto si chiedeva se avesse fatto bene a spezzare quel legame tenero e sincero che per un certo periodo era riuscito, almeno in parte, a colmare i vuoti della sua esistenza. Per fortuna il sonno prese subito sopravvento. Non c’era spazio nei suoi pensieri e nel suo animo per simili nostalgie.

Infatti il giorno seguente Bice era già fuori dalla sua testa. Ma Dario non se ne preoccupò affatto.

 La tenuta era così grande che vi si poteva camminare per ore senza trovare anima viva. Un giorno che aveva fatto un lungo giro, dopo aver vagato a lungo tra rupi, boschi e anfratti, mentre si trovava sulla via del rientro, si imbatté casualmente nell’ultima persona che si sarebbe aspettato di vedere. All’inizio non lo riconobbe, sdraiato com’era in mezzo all’erba, pancia a terra, con i binocoli puntati in direzione della residenza De André. Ne distinse il volto come quello si girò di scatto, forse spaventato dal fruscio dei suoi passi.

«Belin, Vittorio, che diavolo stai facendo qui? E cosa fai con quei binocoli?» gli chiese ridendo di gusto.

«Ma che domande del cazzo mi fai? Cosa ci fai tu, qui? Non dovevi essere a Nuoro, boja d’un fàuss! Ho pensato che ti avessero arrestato o che fossi morto da qualche parte» sbottò in tono minaccioso l’altro, per tutta risposta.

A Dario, la risata di prima passò di colpo. Quello lì era incazzato sul serio. Tanto più che dal folto della macchia era apparso all’improvviso un altro uomo. Non era giovane quanto lui e neanche quanto Vittorio. Fu colpito da due cose. Dal suo fisico imponente e dal fatto che vestiva alla sarda, con giacca di velluto e pantaloni di fustagno e con i gambali e la berrita in testa, a completare l’abbigliamento tipico dei pastori, come gli avevano ampiamente descritto i suoi cugini di Sassari.

L’uomo, lisciandosi con fare circospetto i baffi neri e spioventi, appena spruzzati di grigio, lo guardò negli occhi e non parlò neppure per dire il suo nome. Dario notò come se ne stesse tutto il tempo al coperto del macchione boscoso, guardandosi in continuazione tutt’attorno. I suoi occhi chiari gli sembrarono quelli di un gatto o forse di una volpe.

«Belìn, non ti avevo detto che avevo dei parenti e degli amici da salutare?» farfugliò, sorpreso dalla furia aggressiva del suo interlocutore.

«Ma che cazzo vai vaneggiando? Non avevi l’incarico di stringere dei contatti con i compagni sardi, giù a Nuoro? E invece ti ritrovo qui a fare un belin, come dici tu!»

«E tu, che stai con i binocoli allora?» tentò di reagire Dario che si era sentito trattato come una merda. Ma quello rincarò ancora la dose di rabbia.

«Ma allora tu non capisci davvero un cazzo! Ma sei un combattente o sei un pirlètta che continua a fare domande inutili?»

Dario questa volta abbassò la testa, sentendosi di colpo ridicolo.

«Sì, scusa, hai ragione tu. Ho sbagliato.»

«Se tu fossi andato dove ti avevo mandato, sapresti benissimo per quale motivo mi hai trovato qui, con questi binocoli. Non penserai che sia venuto a gustarmi il paesaggio?»

Poi, visto che l’altro non parlava e stava lì a capo chino, mortificato, cercò di addolcire un poco il tono della voce. «Ce li hai sempre quegli indirizzi di Nuoro?»

«Sì, certo», disse Dario, contento di potere dare una risposta soddisfacente.

«Ecco, falli a pezzetti e buttali via. Li abbiamo dovuti cambiare, per paura che ti avessero preso con quegli indirizzi in tasca. Adesso ti do un nuovo recapito e contattalo subito a nome mio» disse in tono sbrigativo Vittorio, scrivendo qualcosa su un pezzo di carta, dopo avere passato i binocoli al suo silenzioso accompagnatore.

«Mi dici adesso che cosa sei venuto a fare e perché ti trovi qui?» chiese ancora consegnandogli il pezzo di carta con il nuovo numero di telefono.

«Non ti avevo mai detto che con Fabrizio De André siamo amici d’infanzia?», disse con un filo di voce Dario.

«Ah!» fece l’altro sorpreso. «No, non me lo avevi detto e non lo sapevo. È superfluo che io ti dica che la segretezza della nostra missione in Sardegna va oltre ogni amicizia.»

«Ma certo, stai tranquillo. Ci mancherebbe» rispose offeso. Tuttavia pensò che significato avesse la sua presenza nella tenuta del suo amico, con quei binocoli e con quel pastore silenzioso.

«E speriamo che questo non complichi, a te e a noi, i nostri programmi futuri» disse in tono enigmatico.

Dario si sentì addosso gli occhi dei due uomini e si chiese ancora il senso di quelle parole. Tuttavia non disse niente.

«Ciao. Ci vediamo a Nuoro. E non perderti per strada, anche stavolta!» aggiunse mentre si accingeva a seguire l’altro uomo, che, dopo aver dato un ultimo sguardo intorno, lo aveva osservato un’ultima volta. I suoi occhi parlarono per lui, anche se Dario non seppe come interpretare quello sguardo indagatore e profondo.

Restò lì per qualche secondo chiedendosi che senso avessero quelle parole riferite ai programmi futuri. Poi si avviò pensieroso verso la tenuta, nella direzione opposta a quella che avevano preso gli altri due uomini. Presto sarebbe partito per Nuoro. Ma non lo avrebbe detto a nessuno.

martedì 15 ottobre 2024

Dopo l'uccisione di Aldo Moro

 


https://deimerangoli.it/shop/sicuramente-ligure/

Capitolo Terzo


A Londra, Dario si era lasciato con Bice, la sua ragazza. Era stato combattuto ma alla fine, sull’affetto che sentiva per quella ragazza così diversa da lui, aveva prevalso il suo carattere disfattista. Lei sognava soltanto una storia d’amore qualunque, fatta di alti e bassi, anche di litigi e incomprensioni e di paci subitanee. Niente di eccezionale e, sullo sfondo, anche un figlio se fosse arrivato, perché no? Lui invece aveva la testa piena di fanfaluche, di deliri, di fughe in avanti, verso una rivoluzione impossibile che, secondo le sue illusioni, avrebbe cambiato veramente il mondo. Bice lo amava al punto che lo avrebbe seguito perfino in quel suo delirio di onnipotenza. Lei, che detestava la violenza e non avrebbe fatto male a una mosca. E lui non avrebbe mai voluto coinvolgerla in quella strada che aveva deciso di intraprendere. La via della lotta armata, l’unica capace di acquietare il suo animo inquieto.  

Grazie a un conoscente di suo padre era stato assunto, con un contratto a termine, come operaio metalmeccanico in un’importante industria di Genova.

L’aria che si respirava lì, dopo l’uccisione di Aldo Moro avvenuta a Roma molti mesi prima, lo aveva esaltato. Da Torino erano giunti in città nuovi compagni, tutti validi organizzatori, terroristi di lungo corso, gente in gamba, che aveva tessuto una rete di simpatizzanti e aderenti, nelle cui trame lui era rimasto invischiato alla grande. Quei terroristi erano davvero dei grandi e sarebbero riusciti a spodestare i maialoni al potere. E lui voleva essere con loro quando questo fosse avvenuto. Non avrebbe trascorso la sua vita a faticare sul tornio o nella catena di montaggio per un salario di sopravvivenza.

Così quando Vittorio, il collega che lo aveva praticamente affiliato, gli propose di fare parte del nucleo armato che doveva eseguire un’azione punitiva nei confronti di una spia dei padroni, un sindacalista che aveva avuto l’unico torto di continuare a credere che la condizione degli operai andasse migliorata con una lotta politica di opposizione democratica, decise di aderire. Quello sarebbe stato il suo battesimo di fuoco. Si sentiva invincibile, quella mattina, con quella cocaina in corpo, che tutto il commando aveva sniffato per calmare i nervi. Soltanto il giorno dopo si rese conto che il sindacalista non era stato gambizzato. La spedizione punitiva aveva avuto come esito la morte. Non era stato un incidente, gli spiegarono, ma un atto di giustizia. Una sentenza del popolo subito eseguita. Soltanto lui non lo aveva compreso.

« Io avevo capito che si trattava di una spedizione punitiva».

«E infatti lo abbiamo punito a dovere. Non credi?»

«Belìn, ma i giornali dicono che è morto».

«Era la fine che si meritava, quella spia. Ma come pensi che si possa arrivare a prendere il potere?»

«Ma era uno di noi, un rappresentante dei lavoratori».

«Era uno che aveva fatto arrestare i nostri compagni, lo capisci?  Li aveva denunciati alla polizia. Come volevi compensarlo se non con del piombo caldo?»

Vittorio si era reso conto che quel nuovo adepto era sotto shock e che sarebbe stato pericoloso lasciarlo in circolazione. Era un bravo ragazzo e non voleva perderlo ma non poteva rischiare. D’altronde le nuove linee direttrici nella politica di reclutamento andavano nel senso di arruolare quanti più giovani si poteva, perché la rivoluzione sarebbe riuscita soltanto coinvolgendo la maggior parte della popolazione.

«Senti, Dario, quando ti scade il contratto?»

«A fine aprile, perché?»

«Ho una missione importante da chiederti. Questa volta sarai solo e non si tratta di punire nessuno».

«E di cosa si tratta?», chiese Dario senza troppo entusiasmo.

«Stiamo allacciando dei contatti importanti in Sardegna. Dovresti recarti lì, come nostro rappresentante. Te la senti?»

Dario pensò che quella sarebbe stata l’occasione per defilarsi. Se ne sarebbe andato da Fabrizio o dai parenti di sua madre e lì avrebbe fatto perdere le proprie tracce. Magari si sarebbe costruito un’altra vita. Adesso, era importante allontanarsi per pensare e mandare giù questo rospo terribile che gli si agitava in gola.

«Va bene, accetto».

«Benissimo. Sono contento. Animo, dunque. Stiamo crescendo e cresceremo ancora, anche in Sardegna. A tempo debito ti fornirò i nomi dei nostri referenti a Nuoro».

«D’accordo, quando devo partire?»

«Magari in estate, con comodo. Poi ne riparliamo».

La pausa pranzo era finita per entrambi e tornarono così alle loro incombenze. Dario con i suoi crucci interiori, Vittorio con le sue trame di potere, dentro le loro anonime tute blu.

 

 

 

 

 

 

lunedì 14 ottobre 2024

Don Andrea Gallo

 


https://deimerangoli.it/shop/sicuramente-ligure/

Capitolo Secondo

 

 

Dario aveva ripensato spesso a quell’incontro con il suo amico Fabrizio. Il successo non sembrava averlo cambiato tanto. Gli era sembrato naturale, spontaneo, come quando erano ragazzi e giocavano per strada, facendo perfino a botte se capitava, sempre alla ricerca di nuove emozioni, anche nei caruggi popolati di persone strane e originali. Per lui magari erano pane quotidiano, ma Fabrizio ne sembrava affascinato. Si chiedeva che cosa avesse voluto dire con la sua voglia di liberarsi di Dio.

Al porto, dove aveva iniziato a lavorare, dando una mano a scaricare le navi mercantili, aveva sentito parlare di don Andrea Gallo, un prete diverso, vero, con le mani sporche e la puzza di sigaro. Uno che frequentava le prostitute, i trans, i barboni, gli ubriaconi, i carcerati, senza giudicare nessuno. Organizzava dei corsi di meditazione trascendentale e decise di andare a trovarlo, nella sua chiesa di san Benedetto. La meditazione lo incuriosiva anche se gli seccava entrare in chiesa. Lui non era cresciuto nella bambagia come Fabrizio. Dov’era nato lui, i preti erano tutti dei bolicci, e Dio lo si nominava soltanto per bestemmiare. Altro che Buona Novella.

«Sono aperti a tutti i corsi di Meditazione trascendentale?»

Don Andrea Gallo sollevò lo sguardo dalle sue carte per guardare in faccia il suo interlocutore. Non lo aveva sentito arrivare. La sua voce gli era sembrata conosciuta ma la faccia gli era invece del tutto nuova.

«Scusi, ma ho trovato aperto e sono entrato senza chiedere permesso. Mi chiamo Dario» gli disse il giovane con addosso quello sguardo intenso e indagatore del prete.

«Non ti preoccupare, Dario, qui nessuno è abituato a chiedere permesso. Siediti.» Il prete adesso aveva sorriso, mostrando dei denti ingialliti dal fumo.

«Sono venuto a chiedere per quei corsi di Meditazione.»

«Li teniamo qui in chiesa, il mercoledì, alle venti»

«Quanto costa l’iscrizione?»

«Non si paga niente»

«Ah, ma io volevo dirle che non frequento la chiesa. Insomma, non sono un praticante.»

«I corsi sono per tutti e non c’è nessun obbligo. Per adesso li teniamo in chiesa ma appena troviamo un locale adatto ci trasferiamo.»

«C’è dell’altro?» aggiunse dopo una breve pausa di silenzio, visto che il giovane non si era mosso dalla sedia.

«Vorrei porle una domanda, ma non so se posso…»

«Certo che puoi. Sputa il rospo» disse il prete in tono ruvido.

«Mi chiedo se sia possibile per un uomo liberarsi di Dio.»

Don Andrea   risollevò lo sguardo, chiudendo le carte che aveva davanti.

«In che senso?» chiese puntando i suoi occhi indagatori sul ragazzo.

«No, scusi, non è una frase mia in realtà. È una cosa che ho sentito da un mio amico e mi è rimasta a ronzare in testa, senza poterla capire…»

«Beh, ognuno fa quello che vuole con Dio. Se il tuo amico se ne vuole liberare, magari avrà i suoi buoni motivi.»

«Lui è una persona speciale, in effetti; da quel poco che ho capito cerca di liberarsi di Dio rielaborando il concetto, attraverso la sua arte.»

«Io invece proprio nell’arte scorgo e ritrovo Dio, è una questione di punti di vista, suppongo» disse il prete accendendosi un mezzo sigaro.

«Suppongo di sì» convenne il giovane.

«Vieni, andiamo fuori» disse il prete alzandosi.

Lo seguì. Notò il suo inchino prima di uscire ma non pensò di imitarlo, forse per paura di sembrare goffo; o forse provava una ripulsa naturale per ogni forma di piaggeria.

«Vedi Dario, molti di quelli che si autodefiniscono atei, in realtà non sono dei senza dio. Semplicemente vedono Dio in un modo diverso dal mio, ma è sempre una forma di spiritualità anche la loro.»

«Io sono ateo e comunista.»

«Certamente. Hai le tue idee. La verità è che tutti cerchiamo di riempire, a modo nostro, il vuoto che sentiamo dentro» disse il prete sbuffando il fumo del suo sigaro. Ogni tanto qualche passante lo salutava e lui rispondeva con un cenno.

«Io soffro perché nel mondo ci sono tante ingiustizie.»

«Hai ragione. È evidente che sei una persona sensibile. C’è un sacco di gente a questo mondo, che queste ingiustizie non le vede nemmeno.»

«Magari non le vuol vedere perché così gli fa comodo.»

«Magari è così.»

«Bene. Grazie della chiacchierata, don Andrea» disse tendendo la mano.

«Grazie a te, Dario. Ti aspetto mercoledì, alle venti» gli rispose ricambiando il suo saluto e avviandosi verso l’ingresso della piccola chiesa.

sabato 12 ottobre 2024

Il sequestro De André

 


https://deimerangoli.it/shop/sicuramente-ligure/

Capitolo Primo

 

 

Non c’è niente peggio del vivere in un mondo complicato, senza avere gli strumenti necessari alla comprensione dei meccanismi che ne regolano il funzionamento.

In altri termini ciascuno di noi, esseri pensanti, almeno una volta nella vita, ha cercato di capire perché il mondo sia fatto in un certo modo e per quale motivo le cose vadano in una maniera, anziché in un’altra. E soprattutto se sia possibile imprimere alla propria vita la direzione voluta.

Penso che questa sia un’esigenza comprensibile e perfino legittima. A meno che non si voglia credere che il mondo sia davvero così come appare e che dietro le apparenze non si celino invece altre realtà.

Dario Reboc era giunto a quell’età in cui, non essendo più ragazzi, tuttavia non ci si sente ancora uomini.

Suo padre, un precario ante-litteram, quando non era imbarcato in qualche peschereccio, passava il suo tempo in osteria, a bere vino, giocare a carte e maledire il governo dei democristiani, dato che lui era comunista e anticlericale per vocazione. Sua madre, di origini sarde, era morta troppo presto per potersi occupare di lui nella sua età più critica, quella dell’adolescenza.

Quella solitudine improvvisa e non voluta lo aveva spinto ancora di più a passare la maggior parte del suo tempo in strada, tanto più che suo padre, dopo la morte di sua madre, si rimorchiava in casa, di quando in quando, qualcuna delle tante puttane conosciute al porto, che inutilmente avevano tentato di occupare stabilmente quell’incolmabile vuoto nel cuore dell’uomo.

L’unica eredità che gli aveva lasciato sua madre era culturale. La promessa di frequentare il liceo classico, attraverso il quale la povera donna sperava che il figlio potesse elevarsi socialmente verso quelle cime che lei non era riuscita mai a toccare. Il povero padre la promessa l’aveva mantenuta, ma lui quell’eredità l’aveva sciupata, buttandola nel mare tempestoso della protesta giovanile, per colpa della quale, l’anno in cui si sarebbe dovuto maturare, era stato espulso dal liceo “Cristoforo Colombo” per avere osato interrompere numerose lezioni al fine di convogliare le classi in assemblee straordinarie, non concesse dal preside, in cui discutere dei massimi sistemi e dell’imminente  rivoluzione che avrebbe spodestato i capitalisti dagli scranni del potere, con l’avvento della dittatura del proletariato.

E gli studi interrotti, ufficialmente, non erano mai stati ripresi.

Quando gli aveva comunicato di avere accettato la proposta della sua ragazza di andare a convivere, suo padre si accontentò di sapere dove sarebbe andato a vivere e chiese soltanto di conoscerla.  Nel salutarli, gli fece promettere che non si sarebbe dimenticato di lui, ricordando a entrambi che, oltre al ricordo della moglie, ormai gli rimaneva soltanto quell’ unico figlio.

In realtà Dario voleva spezzare le catene che lo legavano al posto dov’era nato e al percorso di vita al quale sembrava destinato e che sentiva di non avere scelto. Trovarsi un lavoro, sposarsi, fare dei figli e magari anche carriera. Anche se queste catene, alla fine dei conti, non era sicuro che esistessero davvero e che non fossero invece il frutto avvelenato della cultura della ribellione che si respirava ancora nella metà di quegli anni settanta del secolo ventesimo.

In treno, mentre ritornava a Genova, si sorprese a ripensare a Fabrizio. Chissà come e perché si era ritrovato a pensare a quel suo amico d’infanzia che non vedeva da anni. Forse, mentre dal finestrino osservava le ripide scogliere a picco sul mare, aveva sentito qualcuno canticchiare o fischiettare qualcuna delle sue canzoni, già popolari e conosciute. Oppure era stato quel paesaggio marino a richiamargli alla mente le strofe della sua canzone più nota, anche se a un certo punto gli venne il dubbio che, in realtà, il personaggio femminile della canzone fosse volata da un fiume sopra una stella e non da quel mare ispido e roccioso.

Sorrise mentre tornava con la mente agli anni spensierati trascorsi in sua compagnia. Dalla terrazza del palazzo dove lui abitava, si divertivano a innaffiare con lo sterco dei volatili le massaie che rientravano a casa, con le ceste della spesa sulla testa. Oppure si sfidavano a colpire con la loro fionda, rigorosamente auto confezionata con una forcella strappata ai rami di un robusto fico e con altri materiali di risulta, uomini e animali che si fossero trovati a tiro. Lui forse si sarebbe preso qualche rimbrotto se lo avessero beccato, mentre la madre di Fabrizio, con la sua innata eleganza, riusciva a conquistare uomini e donne che si fossero recati a casa sua a lamentarsi di quegli scherzi impertinenti. Fortunato anche in quello il suo amico. Per non parlare delle donne. Anche con un occhio strabico, tutte sembravano cadere ai suoi piedi, perché Fabrizio si faceva amare.

Erano cresciuti così, liberi, vagabondando per le strade che collegavano il quartiere elegante dove abitava Fabrizio, a quello del porto, dove lui era nato e cresciuto. A casa sua lo portava spesso e Dario aveva respirato in quell’appartamento signorile la ricchezza borghese che lo aveva portato a invidiare il suo amico. A dire il vero in maniera naturale e senza ostentazione, aveva mostrato subito la sua agiatezza. In tasca non gli mancavano mai i soldi. Le monete da bambino e le banconote da cinquecento e mille lire da ragazzino. Però ciò che aveva, bisognava riconoscerlo, l’aveva sempre diviso con gli amici. I soldi se li giocavano, prima a croce o griffo e poi alle carte. Quando perdeva s’incazzava da matti, ma i suoi soldi transitavano nelle tasche dei vincitori. Ma quando vinceva, non negava mai di spenderli per comprare a tutti un lingotto di cioccolato, un reganisso o un ghiacciolo, se si era in estate. E quando furono in età, perfino a comprare le prestazioni di qualche battona del porto, sempre disponibile a intrattenersi con quei ragazzi, vogliosi di andare alla scoperta dei piaceri dell’amore carnale. Sempre tra grasse risate e ricche soddisfazioni.

 Più tardi aveva cercato di introdurlo nel suo ambiente, ma aveva legato soltanto con lui. Con i suoi amici, no. Erano così distanti e scostanti. Solo Fabrizio, con la sua spontanea generosità era riuscito a colmare quella barriera che li aveva divisi dalla nascita, dato che appartenevano a due classi sociali che qualcuno, più che diverse, considerava perfino opposte. Ma i suoi amici, quelli no. Era come se avessero la puzza sotto il naso, dietro la loro apparenza amichevole e solidale. Tutti, tranne Luigi, ma presto lui se n’era andato. Forse ha ragione chi dice che sono sempre i migliori, i primi ad andarsene. Anche se la società li aveva divisi, la strada li aveva uniti. Poi si erano rincontrati, in un pomeriggio grigio di giugno, casualmente, all’imbocco della salita di Santa Brigida, una stradina che conduceva diritti alla città vecchia, il teatro delle loro memorabili e indimenticabili scorribande da bambini e delle prime avventure da ragazzi in cerca della vita, tra la gente vera del porto.

«Belin, Dario! Non credo ai miei occhi!»

«Bicio, sei proprio tu!»

«Belin, è una vita che non ci si vede!»

«Dieci anni di sicuro! Forse dai tempi del liceo; l’ultima volta ci siamo visti là, ricordi? Tu eri avanti a me di qualche anno, ma facevamo tutti un grande casino.»

«Dai! È verissimo. Che bei tempi! Tu quando ti sei maturato?»

«Mai maturato, in realtà; sono stato cacciato dalla scuola proprio l’ultimo anno, a causa degli scioperi» disse Dario in tono mesto. Quel ricordo gli bruciava. Lui aveva in pratica pagato per tutti. Ma soprattutto era la memoria di sua madre, che lo faceva stare male, per non essere riuscito a elevarsi, come lei avrebbe voluto.

«Ma io non ti ho mai perso di vista sai?» aggiunse Dario per cambiare discorso.

«Smettila dai!»

«Dico sul serio! Ho tutti i tuoi Ellepì! Sei arrivato a otto, giusto?»

«Il conto sembra giusto; belin, ne sai più di me! Dimmi di te piuttosto. Cosa stai facendo di bello?»

«Ultimamente sono stato a Manarola, con la mia ragazza, in una casa che ha ereditato dai genitori.»

«Eh bravo Dario! Avevi davvero un bel motivo per sparire dalla circolazione! Adesso che fai? Ti sei mollato con la tua bella?»

«No, sono venuto a vedere il mio vecio. Poi, con la mia ragazza abbiamo deciso di partire per Londra, ci imbarchiamo con la moto.»

«Bellissimo! Ma guarda che combinazione, belìn! Anche io sono qui per vedere i miei! Altrimenti non ci saremmo incontrati.»

«Ah, già, ho sentito che stai a Milano.»

«Macché! Con quel cesso di città ho chiuso da un pezzo. Ho comprato casa in Sardegna.»

«Ma va là! Io dovrei avere ancora dei parenti laggiù.»

«Belìn ma è vero che sei mezzo sardo per parte di madre! Un motivo in più per venire a trovarmi. Ho idea di trasferirmi lì in pianta stabile e ho tanto di quel posto che neanche ti immagini.»

«Beh, grazie. Quien sabe? Magari un domani.»

«Quando vuoi tu belìn! Ma parlami di te adesso.»

«Te l’ho detto. Adesso ho in programma un viaggio a Londra. Voglio tirare su un po’ di soldi con qualche lavoretto, prima di partire.»

«Belin, se ti accontenti, nella scuola di mio padre stanno cercando un bidello. Vuoi che gli parli di te?»

«Ma no, lascia stare; davvero, ti ringrazio ma non voglio! Andrò a picchettare, giù al porto; o a fare qualsiasi altra cosa».

«Come vuoi belìn, ma se non trovi niente e se non ti offendi, il posto di bidello nella scuola di mio padre è tuo.»

«Grazie Bicio, ma non voglio coinvolgerti nei miei casini e nei miei pasticci. Una cosa è picchettare il ferro di una nave, un’altra è inserirmi in un consorzio civile, come una scuola, senza fare casini. Lo sai che io sono un comunista rompicoglioni.»

«Ma guarda che il mio vecchio è un regolare. Saresti assicurato e assunto con contratto sindacale!»

«Non ne dubito, ma preferisco lavorare al porto.»

«Come vuoi; parlami ancora di te, dai; come mai hai scelto proprio Londra?»

«Per me è un posto che non ho visto ancora e poi lei ci tiene a visitarla!»

« Belin, ci saranno delle belle cose anche lì.»

«La mia mussa ne è convinta! E poi amiamo entrambi la musica rock. E tu, a proposito di poesia e musica, cosa stai facendo?»

«Sto leggendo molto, ancora prima di scrivere…»

«E cosa stai leggendo?»

«Un po’ di tutto, in realtà. Roba italiana, autori americani, mi immergo nei libri e poi cerco di fare una sintesi.»

«Vuoi dire che riprendi Spoon River per caso?», chiese Dario incuriosito.

«No. Acqua passata non macina più.»

«Forse quello è uno dei tuoi ellepì più riusciti sai» disse ancora Dario.

«Dici?»

«Perché tu no?»

«Beh, per me i dischi sono come i figli. Magari ti affezioni di più a quelli incompresi.»

«Parli di storia di un impiegato?»

«Anche…»

«E che altro?» chiese ancora Dario.

«La Buona Novella, per esempio. Molti non hanno capito che con quel disco volevo rivalutare il più grande rivoluzionario della storia.»

«In effetti non l’ho capito neppure io. Sai, un comunistone come sono io, quando sente parlare di chiese, comincia a sentire un grande prurito addosso» disse Dario ridendo, grattandosi davvero il dorso della mano sinistra.

«Anche se ho sempre pensato che le Chiese siano organizzazioni di potere, ho voluto sondare il mistero della fede…della mia spiritualità» rispose Fabrizio.

«Vuoi dire che stavi cercando Dio, o qualcosa del genere?» ribatté Dario in tono provocatorio. Da buon comunista ortodosso, non riusciva a credere che esistessero altre chiese diverse dalla sua.

«Ero partito dai Vangeli Apocrifi, per passare poi a quelli canonici.»

«Perché?»

«Perché ho voluto liberarmi di Dio, belìn!» esclamò Fabrizio con una risata sonora. Dario capì che si era stancato di parlare di quell’argomento.

 «Beh, io proseguo per la città vecchia» disse indicando la salita di Santa Brigida.

«E io vado a recuperare la mia auto».

«Dove hai parcheggiato?»

«Da qualche parte, in via Balbi o in Piazza XXII ottobre…»

«Bene. Allora ti saluto», disse Dario tendendogli la mano. Fabrizio invece lo abbracciò fraternamente.

«Belin, non sparirmi per altri dieci anni, intesi?»

Dario lesse la commozione e la sincerità negli occhi del suo vecchio amico. Almeno lui, da quel punto di vista, non era cambiato.

«Adesso ho proprio bisogno di levarmi dalle balle per un po’. Te l’ho detto: appena tiro su un po’ di grana, vado a Londra. Tira una brutta aria, qui, te ne sarai accorto anche tu…»

«Belìn, e me lo chiedi? Per che cosa credi che non veda l’ora di trasferirmi definitivamente in Sardegna?»

Fabrizio si accorse che Dario stava per dirgli qualcosa di importante. Per un attimo fu tentato di offrirgli dei soldi, ma ebbe paura di offenderlo; e poi li aveva messi tutti nell’investimento che aveva fatto all’Agnata, in Sardegna. Ma anche se era pieno di debiti, gli avrebbe voluto allungare qualche centone.

«Fabrizio, ma tu cosa pensi della lotta armata? Sento dire in giro che ormai non c’è altra strada per affermare le nostre ragioni di rivoluzionari, antagonisti di questo regime di merda. In realtà me ne voglio andare anche per questo, anche se mi sento un vigliacco a non schierarmi né con lo Stato, né con i terroristi.»

«Vuoi sapere davvero cosa ne penso io?» chiese Fabrizio accendendosi ancora una sigaretta. Dario notò che era la terza che fumava da quando si erano incontrati.

«Io penso che il giorno che i terroristici prendessero il potere, sarebbero esattamente uguali a quelli contro i quali stanno combattendo. Con il potere finirebbero tutti gli ideali di libertà! Credimi, Dario, è sempre stato così, in ogni rivoluzione» ribadì sbuffando in aria una grande nuvola di fumo.

«Belìn, ma lo sai che non ci avevo mai pensato? Sei davvero un grande, Bicio.»

«Ma figurati…»

A Dario parve che il suo amico fosse in imbarazzo e che addirittura arrossisse un poco.

«Vedi, io la mia rivoluzione cerco di farla, quantomeno, con le mie canzoni. Però guarda che le ragioni dei terroristi le condivido tutte. È che la violenza proprio non mi va, capisci? Non riuscirei mai a sparare a qualcuno.»

Dario pensò che fosse troppo comodo, per lui, figlio di ricchi borghesi, pensarla così. Ma non lo disse.

I due amici si abbracciarono ancora e poi si salutarono.

 

 

Il Manuale del perfetto orologiaio

  https://www.amazon.it/dp/B0BQ6MR661 Capitolo Quinto «Eccellenza, gli ospiti spagnoli sono giunti e chiedono di essere ricevuti», disse i...