sabato 22 febbraio 2025

In Manuale del Perfetto Orologiaio

 


https://www.amazon.it/dp/B0BQ6MR661

Capitolo Terzo

 

 

 

«E tu come ti chiami?»

«Sono Giuditta, la nipote dell’Anselmo».

«Io però non ti avevo mai visto prima d’ora».

«In effetti non è da tanto che sto qui al Magazzino ad aiutare lo zio…»

«Eh sì che ti avrei notata se ci fossi stata. Non puoi passare mica inosservata, sorbole!»

Giuditta fu lusingata da quelle parole. Lei ci era abituata ai complimenti, anche se era strano che a farglieli fosse quella donna dall’accento così buffo e dal fisico mastodontico. Fuori lo sciabordio dell’acqua, senza soluzione di continuità, segnava lo scorrere del tempo.

«Sei davvero molto bella, lo sai?», aggiunse ancora il donnone dal buffo accento forestiero.

Giuditta, per niente imbarazzata, arrossì non di meno lievemente.

«Mo’ certo che lo sai! Chissà quanti uomini ti han già messo gli occhi sopra!», disse ancora la donna.

«Io mi chiamo Maturina e sono la padrona della casa alla Sconcia, giù al Borgo San Giorgio. Tu sai cos’è la Sconcia, nevvero?»

Giuditta lo sapeva. E non soltanto perché nei registri di magazzino figurava quel nome per la fornitura del sapone e di certe pezze di lino. Aveva sentito quel nome in bocca a molti uomini. Tra i tanti complimenti ricevuti, lontano dalle orecchie attente di Anselmo, c’era stato persino qualcuno che le aveva confessato che neanche alla Sconcia aveva visto una ragazza più bella di lei.

Ma Giuditta aveva imparato ad ascoltare senza rispondere.

«Se un giorno ti stancassi di fare la magazziniera a tuo zio, vienimi a trovare alla Sconcia. Per una ragazza bella e sveglia come sei tu, avrei una proposta che è qualcosa più di una semplice offerta di lavoro!»

«Ci penserò!», rispose in un modo sicuro Giuditta, finendo di conquistare l’anziana donna. Poi, udendo la voce di Anselmo che cercava la nipote, le due donne passarono a parlare della commessa che la Maturina era venuta a fare per la sua Sconcia.

Giuditta Maier aveva da poco compiuto 18 anni e da due anni, da quando era rimasta orfana, stava nella casa dello zio, che l’aveva ospitata insieme ai suoi fratelli più piccoli.

Suo padre Jacopo, discendente di una delle più ricche famiglie di conversos fuggite alla persecuzione dell’inquisizione spagnola e rifugiatesi a Ferrara dopo il decreto di espulsione del 1492, era un affermato commerciante di tessuti e filati e si trovava nelle Fiandre con sua moglie, per una delle numerose fiere internazionali che da tempo ormai attiravano in quella ricca regione  numerosi commercianti da tutto il mondo, quando entrambi vennero aggrediti e uccisi.

Aveva conosciuto sua moglie, Olimpia Zatterini, la madre di Giuditta e degli altri cinque figli maschi, nel corso di uno dei tanti contatti commerciali che intratteneva con la famiglia di lei, che poco a poco si era costruita una piccola flotta di barche e navigli, grazie alla quale gestiva molti dei traffici di merci lungo il fiume Po e dal suo delta lungo le coste dell’Adriatico anche sino a Venezia e ai suoi mercati.

Era bastato che una sola volta i loro sguardi si incrociassero e quella ragazza dalla figura slanciata e formosa l’aveva subito conquistato.

Il padre di Olimpia, concordate le modalità dell’unione e l’entità della dote, aveva comunicato alla figlia la sua volontà di maritarla al facoltoso mercante e le nozze erano state celebrate dopo i doverosi preparativi.

Nonostante i quasi venti anni di differenza il loro matrimonio poteva dirsi riuscito ed era stato allietato subito dalla nascita di Giuditta, seguita, come già detto, a cadenza biennale, da cinque figli maschi: Rubio, Daniele, Marco Levi, Giuseppe e Beniamino.

Giuditta aveva preso il fisico della madre: le lunghe gambe e la vita stretta, che non abbisognava di cinture e corsetti per mettere in risalto il petto sodo e prosperoso, slanciavano in alto la sua figura, valorizzando la sua fronte alta e la folta chioma bruna. Ma quest’ultima, così come gli occhi scuri, le labbra carnose e il naso aquilino, la cui misura era percepita in modo attenuato grazie agli zigomi assai alti e pronunciati, doveva averli ereditati dalla complessione paterna, dato che la madre era piuttosto chiara di carnagione e con un visino dai lineamenti assai delicati, seppure innestati nel fisico slanciato già descritto all’attento lettore.

Anche il carattere di Giuditta era un sicuro retaggio della linea paterna: forte, determinato, volitivo, introspettivo, ingegnoso, empatico e con un innato fiuto per gli affari.

Uno zio materno di nome Anselmo, scapolo trentacinquenne, l’aveva presa con tutti gli altri cinque nipoti maschi, nella sua casa di Pontelagoscuro, un’ampia costruzione di due piani che aveva annessi i magazzini della flotta fluviale Zatterini.

In quei magazzini arrivavano via terra parte le merci che il ducato d’Este allora esportava (mais, riso, pesce, filati e cotone) e vi confluivano, dal fiume,  alcune delle le merci importate: sale, carta, spezie, maioliche,  grano (quando le ricorrenti carestie lo imponevano) ed altri alimenti.

Fu da quei magazzini che piano, piano Giuditta, si sentì attratta, come per vocazione o per destino, anche se lo zio Anselmo l’aveva intesa avviare al vertice dell’amministrazione della casa, come si conveniva ad una donna di quella condizione sociale, in quella precisa epoca.

E fu lì che una sera, mentre suo zio le spiegava i criteri di stoccaggio e classificazione delle diverse merci che confluivano nello sterminato magazzino, e lei lo seguiva con quel suo sguardo attento e vivace, che si sentì addosso, per la prima volta, le mani tremanti e bramose di un uomo.

Giuditta, superato con un guizzo repentino della mente il primo istante di smarrimento, lo lascio frugare a suo piacimento tra le pieghe delle sue vesti.

La sua mente fredda e razionale, guidata dal suo istinto femminile, andava percependo che quella concitazione frenetica e ansimante, che lei prese subito dopo ad assecondare con improvvisata ed istintiva accondiscendenza, poteva fornirle uno smisurato potere sugli uomini. E questo le piacque, trovandone conferma quando lo zio, smettendo di dimenarsi, cadde sfinito ed appagato sopra di lei. In quel contatto finale, più che durante l’amplesso, Giuditta, senza che pronunciasse una sola parola, avvertì il tacito ringraziamento che il corpo rilassato di suo zio tributava al suo, riacquistando il suo respiro regolare, quasi assopendosi, dimentico della realtà e per un lungo istante rapito in un’altra dimensione e in un altro tempo.

E fu ancora lì che aveva conosciuto Maturina, un giorno che era venuta a visionare certi filati e certe stoffe che le occorrevano per gli arredi della sua casa di tolleranza, lì alla Sconcia del Borgo San Giorgio di Ferrara.

Quando, due anni dopo quell’incontro, suo zio le comunicò che aveva parlato con il vicario diocesano e che sarebbe stato agevole, previo pagamento di un congruo compenso, ottenere una dispensa per poter celebrare il loro matrimonio (data la stretta parentela esistente), Giuditta si ricordò dell’offerta che aveva ricevuto, quel giorno che si erano conosciute, da quella strana donna dal buffo accento forestiero.

Fu proprio allora che capì che era giunto il momento di andare a parlare di affari alla Sconcia di Maturina.

 

 

 

 

 

 

mercoledì 19 febbraio 2025

Il Manuale del perfetto orologiaio

 


https://www.amazon.it/dp/B0BQ6MR661

Capitolo Secondo

«Le ho gabbate una volta, quelle sottane» – si vantava Pietro Marino con gli amici della Nuova Accademia, riferendosi ai religiosi della Congregazione pontificia che lo avevano processato negli anni novanta del secolo precedente – «e le gabberò novellamente anche ‘stavolta!»

«Quante ne abbiam fatte con gli Incerti, eh Pietro?», interpose Girolamo Aleardi.

«E soprattutto quante ne faremo ancora!», rispose Pietro Marino sollevando il calice stracolmo di vino.

«Giusto», interloquì Ciro di Pers, facendo tintinnare il suo calice con quello dei suoi sodali. «Brindiamo al nuovo che avanza!»

«Brindo ai dolci e femminili visi, che degli Incerti i cuori affranti, ieri allietarono conquisi, e cogli Increduli in avanti, a scapito di Ludovisi, conquisteremo ancor festanti!», improvvisò Gabriello Chiabrera, levando a sua volta il calice. 

Un coro di evviva, di prosit, ad maiora, e altri auspici che inneggiavano alle nobili frontiere delle nuove conoscenze, ma anche alle crapule più prosaiche e volgari, si levarono in risposta ai versi improvvisati dal poeta; e altri ne seguirono quella notte, come altre notti a seguire.

 

Pietro Marino De Regis, chiamato “Il Carminate”, era uno dei 144 membri, tra poeti, musicisti, pittori  e artigiani,  che avevano contribuito nel dicembre dell’anno del Signore 1623 a fondare  la Nuova Accademia degli Increduli di Ferrara.

Si trattava in realtà di una rifondazione della precedente Accademia degli Incerti, sorta sempre a Ferrara molti anni prima e sciolta nel 1597 dalla Congregazione dell’Indice Paolino, per avere osato tradurre la Bibbia in volgare.

Egli era uno dei pochi sopravvissuti che poteva fregiarsi di essere appartenuto alla precedente fondazione accademica ferrarese.

Lo stesso  Pietro Marino, all’epoca già provetto  orologiaio, nonché promettente e giovane poeta,  era scampato però alla condanna personale,  in virtù di uno stratagemma di natura legale: gli avvocati degli imputati erano riusciti infatti a dimostrare che la Bibbia in volgare era stata composta dal 5 al 14 ottobre 1582, un periodo temporale che il papa  Gregorio XIII, decidendo di riformare il calendario giuliano, aveva dovuto abolire per decreto, onde correggere le imprecisioni del precedente calcolo giuliano, recuperando il tempo in esso perduto.

In quanto “vacuum ac nullus”, avevano chiosato gli abili difensori degli imputati accademici (avvocati direttamente nominati dal duca d’Este, che con quella mossa aveva inteso difendere, ad un tempo, un componente del suo casato, affiliato all’Accademia ed il suo stesso Ducato, da sempre nelle mire espansionistiche dello Stato Pontificio), in quel periodo non poteva essere validamente ascritto alcun crimine a chicchessia, in quanto “quod nullum est, nullum producit effectum”.

E non si sa se furono i brocardi di giustinianea memoria, profusamente decantati dai quei provetti principi dello Studium Juris Estense, capitanati da Renato Cato ovvero l’influenza del loro potente patrono, ovvero ancora il timore  del cardinale Aldobrandini di guastare i già difficili  rapporti con la Francia (Alfonso II d’Este era nipote del re francese  Enrico II per parte di madre ed era di casa presso la sua corte), fatto sta che il Tribunale della Congregazione dovette assolvere tutti gli autori imputati.

Certo è che le Note Difensive redatte dallo Studium Estense furono intelligentemente fatte circolare, seppure in copia informale e per conoscenza, nelle più importanti corti europee, ciò che mise in seria difficoltà la cerchia aldobrandina, sempre attenta a non turbare troppo gli equilibri diplomatici.

La Congregazione sfogò però tutta la sua rabbia potente contro l’Accademia, ordinandone lo scioglimento e contro l’editore Manuzio di Venezia, acerrima nemica dello Stato Pontificio, che aveva pubblicato la traduzione vietata in mille esemplari andati a ruba, e che comunque aveva pensato bene di   rimanere contumace nel processo. E il duca Alfonso II, ormai al tramonto della sua vita, stanco e senza figli, sullo scioglimento dell’Accademia chiuse tutti e due gli occhi perché comunque l’assoluzione degli imputati, tra cui quella del suo nipote affiliato che tanto gli era caro, fu considerata negli ambienti politici e diplomatici dell’epoca, una sua vittoria personale.

Ne era passata di acqua sotto i ponti da quel tempo! Estintasi la linea diretta della casata degli Estensi (Alfonso, nonostante i suoi due matrimoni, era morto senza eredi legittimi diretti) lo Stato Pontificio era riuscito finalmente ad inglobare i territori ferraresi del ducato sotto la sua sovranità, ed al posto dei duchi d’Este ora regnava a Ferrara un Legato Pontificio.

E quegli accademici, rimasti orfani dei grandi mecenati estensi, seppure sfrattati da villa Marfisa, avevano continuato ad unirsi in segreto, aggregando giovani talenti, per niente impauriti dai nuovi sovrani tonacati.

 

mercoledì 12 febbraio 2025

Il manuale del perfetto orologiaio

 


https://www.amazon.it/dp/B0BQ6MR661

Capitolo Primo

Le spie della Congregazione, in un dettagliato dispaccio, avevano informato il vice legato di Ferrara, Francesco Pasini Frassoni, che Pietro Marino De Regis, noto il Carminate, con la complicità di altri membri dell’Accademia degli Increduli, stava scrivendo un libro che propagandava le idee rivoluzionarie diffuse da Copernico nel libro proibito “De Revolutionibus Orbium Celestium”, messo all’Indice sin dal 1616.


L’alto prelato, che surrogava il titolare Giovanni Garzia Mellini, nominato da papa Gregorio XV come successore di Pietro Aldobrandini, per fare le sue veci a Ferrara, pensò bene di mettersi   subito in contatto con il cardinale suo diretto superiore, quantomeno per una duplice ragione.

In primis perché il cardinale era il capo della Congregazione per la difesa della Fede e quindi non voleva rischiare che l’importante notizia gli arrivasse da altri; in secundis egli voleva sapere da Sua Eminenza come procedere, dandogli conferma così della sua fedeltà e della subordinazione, quantomeno formale. Conosceva inoltre assai bene le mire del grande porporato e già circolavano voci sulla salute precaria di papa Ludovisi. Una sua elevazione al soglio pontificio avrebbe significato per lui un sicuro avanzamento nella carriera ecclesiastica; forse la titolarità della legazione vacante e, in prospettiva, anche una investitura da porporato.

E nella peggiore delle ipotesi, se fosse riuscito a far incriminare il De Regis, poteva pur sempre contare nella confisca delle sue lucrose proprietà, accresciutesi dopo la morte della madre e del patrigno, tra cui gli stava particolarmente a cuore la cascina di Lemole, in Greve di Chianti, che avrebbe potuto così unire a una piccola proprietà limitrofa ereditata dai suoi avi, senza contare la rendita di 20.000 scudi d’oro che essa rendeva all’anno all’eretico Carminate.

Originario di una famiglia che vantava in passato ricche ascendenze, ma al presente, scarsi mezzi economici e finanziari, Pasini Frassoni aveva studiato grazie al generoso interessamento di uno zio materno, anch’egli prelato, ben addentro nelle gerarchie della curia pontificia.

Grazie agli intrallazzi e ai soldi dello zio, era giunto al grado di Consigliere della Segnatura Apostolica, ma lì si era reso conto che l’ascesa al potere vero era per lui troppo arduo.


Entrato nelle grazie del potente cardinale Garzia Mellini, era stato nominato vice legato a Ferrara, ma la sua ambizione lo faceva puntare molto più in alto.

Intanto approfittava di ogni buona occasione per incrementare il patrimonio che i suoi avi avevano dissolto per incapacità e per sfortuna. 

La primavera aveva già scacciato da un pezzo uno dei più rigidi inverni degli ultimi vent’anni (tutti i ferraresi, a memoria d’uomo, non ricordavano di aver visto  il Po ghiacciato prima di allora), quando il vice legato scelse il più sveglio e il più giovane tra i suoi collaboratori e lo inviò a Roma dal cardinale Garzia Mellini per informarlo di quanto le spie locali della Congregazione gli avevano riportato.

«Mi avete fatto chiamare eccellenza?», chiese don Giuseppe Canaselli, dopo che ebbe udito la voce del suo superiore invitarlo ad entrare.

«Certo, certo, vieni avanti», disse il vice legato sollevando gli occhi dalle carte che stava esaminando.


Il giovane prelato si avvicinò timidamente al tavolo da lavoro dell’importante delegato. Lo aveva scelto come suo secondo segretario per la sua discrezione, che sconfinava nella timidezza, ma soprattutto per la sua prodigiosa memoria, che lo aveva colpito al tempo in cui era stato suo insegnante di greco e latino.

«Siediti», gli disse indicandogli una delle sedie che stavano davanti a lui. «Vuoi bere qualcosa?», aggiunse dopo che il giovane si fu seduto sul bordo della sedia, con gli occhi bassi sulle mani che aveva posato in grembo.

«No, grazie, eccellenza. Io non bevo».

E infatti il suo incarnato era alquanto pallido, pensò Pasini Frassoni. Si lisciò prima il mento e poi la gola, sin dove il colletto rigido dell’abito talare glielo permisero. La nostra chiesa si regge sui sacrifici e sulla rettitudine di questi giovani, pensò ancora con cuore grato l’alto prelato. Poi intrecciò le mani grassocce sul prominente girovita.

«Sei mai stato a Roma?», chiese abbandonandosi nella sua comoda poltrona.

«Una volta, da ragazzo, accompagnai mio padre e mio zio che si recavano da un ricco committente per una pala d’altare».

Ricordava che il giovane discendeva da una famiglia di rinomati pittori. Ma la sua intelligenza e la sua natura riflessiva lo avevano attratto nell’orbita della madre chiesa; tanto più che la bottega dei parenti pittori era stata riempita a sufficienza con i fratelli e i cugini nati prima di lui.

«E la strada te la ricordi?»

«Non tanto per la verità. Ricordo però che si partì più o meno in questa stagione. In altri periodi dell’anno le strade dissestate rallentano di parecchio l’andatura delle carrozze».

«Ho un’importante ambasciata per te; da portare a Roma, e da riferire personalmente al cardinale Giovanni Garzia Mellini. Te la senti?»


«Comandate pure eccellenza», disse sempre con gli occhi bassi il giovane chierico.

Così, a metà maggio, Giuseppe Canaselli partì per la delicata ambasciata. E a inizio giugno era già di ritorno.

Insieme alle istruzioni del cardinale riportò la notizia che le condizioni di salute del papa Gregorio XV si erano aggravate e che i cerusici di corte pensavano che il peggio fosse ormai inevitabile. Pertanto i grandi elettori, seppure in via informale, avevano di già iniziato le grandi manovre che precedevano il Conclave ormai imminente.

 A maggior ragione occorreva che il cardinale papabile agisse con prudenza e con sagacia. Sia queste informazioni, sia le dettagliate istruzioni che riguardavano il caso gravissimo della Nuova Accademia degli Increduli, erano state impartite al giovane chierico, di rientro da Roma, totalmente in forma verbale. 


 E meno male che egli godeva di una memoria prodigiosa (affinatasi nello studio dei classici e della grammatica della lingua greca in particolare), perché le istruzioni che gli erano state dettate a voce dal cardinale medesimo, erano assai minuziose e andavano riferite al vice legato tali e quali.

Il vice legato capì, ancor prima di apprenderne il contenuto, che si trattava di questioni riservatissime (le istruzioni collegate al suo ufficio di vice legato giungevano solitamente per iscritto).

Dal contenuto delle istruzioni ebbe inoltre conferma che il suo diretto superiore contava sull’appoggio della Spagna per la scalata al soglio pontificio (anche se personalmente non escludeva che lo scaltro porporato tramasse nascostamente per assicurarsi anche qualche voto dalla Francia).

Il cardinale lo informava che doveva giungere   a Ferrara un suo emissario, un abile hidalgo spagnolo specializzato nelle indagini e negli interrogatori degli eretici e che contava su di lui per fornire al militare ispanico tutti i mezzi necessari per espletare il suo incarico, senza che mai, per alcun motivo, dovesse figurare il suo nome.

Ma ad agosto, quando giunse a Ferrara la notizia della elezione di Maffeo Virginio Romolo Barberini al soglio pontifico, con il nome di Urbano VIII, dell’hidalgo spagnolo preannunciato, Pasini Frassoni non aveva visto neppure l’ombra.

Non poteva certo sapere che don Pedro Domingo Mendoza Martinez, accompagnato dal suo fido Tenoch Tixtlancruz e da Padre Alonso Ramirez de Barranquilla, S.J., sarebbe giunto a Ferrara soltanto a settembre dell’anno 1623 già inoltrato.

 

 

domenica 9 febbraio 2025

I Salmi in Rima al Decimo Posto della Top 100

 


https://www.amazon.it/gp/bestsellers/digital-text/1345039031/ref=pd_zg_hrsr_digital-text

I SALMI

(Contiene i 150 Salmi del Libro omonimo, in rima e in versi endecasillabi, con variabili ipometrie  soprattutto nei versi finali)

 

 

SALMO PRIMO

Le due vie

D’in tra le vie del Signore son quelle

L’una dell’empio, l’altra del gїusto

Che differenti son come due stelle

Ch’ora silenti, ora in gran trambusto

Stanno, o  sotto una differente pelle

Fanno diverse foglie d’ altro fusto.

Quelle del giusto non cadranno mai

Disperse saranno quelle  dell’empio

[e ora il primo salmo sai]

 

 

SALMO SECONDO

Il Re Messia

Perché popoli congiunti cospirano

E ricercano  un potere fallace?

Perché  verso il Cielo essi  non mirano

A pregare Colui che dà la pace?

Beati tutti coloro che esultano

Nell’unico Dio vero che è capace

Di darti in possesso tutte le genti

Di costituirti padrone e sovrano

[ sopra i corpi e sopra le menti!]

 

giovedì 6 febbraio 2025

La Giornata del Ricordo




L’APPELLO DELL’INFOIBATO

Primo Premio Terzo Gruppo - Sezione G

Concorso Letterario Internazionale

 “L’Esodo Istriano-Fiumano-Dalmata”

 

Se trovate in un burrone profondo

uno scheletro legato con il fil di ferro

 a un altro scheletro,

 legato a un altro scheletro

e a un altro ancora,

quello sono io.

 

Non cercatemi in un fosso qualunque!

Io giaccio

 in quei recessi contorti

che si chiamano foibe.

 

Avvolgetemi, ve ne prego,

 in un drappo bianco

E restituitemi ai miei cari,

alla mia Patria e alle cose di Dio.

 

Non odio nessuno e perdono tutti.

 

Solo un’ultima cosa vi chiedo:

aprite gli occhi dei vostri figli

sulla verità!

 

 

                       Cagliari 10 febbraio 2004

 

https://albixandpoetry.wordpress.com/2025/02/06/letteratura-in-premio/

mercoledì 29 gennaio 2025

Dario rimugina sul sequestro di Faber

 


 L’auto, una Citroen Quattro Cavalli targata Milano, sulla quale i due probabilmente erano stati prelevati, era stata ritrovata, dopo due giorni, nei pressi del porto di Olbia. Le indagini erano state affidate a un capitano dei Carabinieri ed era atteso in città il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, amico personale del papà di Fabrizio, che avrebbe forse coordinato le indagini. Si era già costituito un gruppo di lavoro che faceva capo alla procura di Tempio, competente per territorio e dove lavorava un giudice istruttore esperto in storie simili. Si sospettava che l’auto fosse stata abbandonata in quel luogo con lo scopo di depistare gli inquirenti. Gli ostaggi dovevano trovarsi infatti da tutt’altra parte, tra gli inaccessibili dirupi o in qualche caverna della Barbagia più profonda, immersa nella vegetazione impenetrabile.

Tutto il resto era frutto di illazioni, ipotesi, indignazioni, minacce, lamentele e analisi più criminali che sociologiche.

I sentimenti di Dario oscillavano tra la soddisfazione per la competenza mostrata dai compagni sequestratori, puntuali e precisi nel colpire la ricchezza privata da cui ricavare le risorse per realizzare la rivoluzione pubblica e i sensi di colpa per essere, seppure in quella sorta di semi incoscienza con cui oramai si stava abituando a convivere, un complice di quell’azione di forza diretta contro un suo amico d’infanzia. Uno che anche se apparteneva alla ricca borghesia, alla classe degli odiati capitalisti, era sempre una persona che gli aveva mostrato amicizia e solidarietà.

 Si rammaricò di quella situazione, di quel suo stato d’animo conflittuale e cominciò a chiedersi se non fosse stato più corretto per lui spiattellare tutto quanto, così da riscattarsi, almeno salvando il suo amico e la sua donna.

Ma, subito dopo, si diceva che lui non poteva essere un giuda, un pentito, un traditore. Non voleva. D’altronde il suo amico Fabrizio lo aveva già tradito, perché caso mai avrebbe dovuto parlare prima che lo rapissero, quando aveva saputo dell’intenzione di quegli uomini sconosciuti. Se invece lo raccontava adesso, sarebbe stato traditore due volte, in quanto avrebbe tradito anche i suoi compagni, senza contare lo sgarro fatto ai Sardi.

E poi, in fondo lui cosa sapeva veramente? Sarebbe stato in grado di guidare i baschi, come li chiamava Doddore, al nascondiglio dove era tenuto prigioniero Fabrizio?  E' anche vero che lui vedeva il pastore che li ospitava allontanarsi con la bisaccia piena di viveri in direzione della montagna, ogni qualvolta Marino giungeva al rifugio. Prova che soltanto lui, fungendo da vivandiere, doveva conoscere il nascondiglio preciso dove i due erano tenuti prigionieri in attesa del riscatto. Ma chissà in quale forra, caverna, macchia boschiva si trovava il suo amico!

E finalmente, era giusto che chi era vissuto nella ricchezza fosse esposto alle rivendicazioni di chi era povero! Quello era il prezzo da pagare per essere nati nell’agiatezza. Era questa una giustizia terrena, più solida e concreta di altre giustizie inesistenti, sulle quali campavano gli addomesticati dall’oppio delle religioni!

Era in buone mani, lo avrebbero liberato sano e salvo, dopo il pagamento del riscatto e sarebbe tornato alla sua bella vita fatta di agi materiali e ricchezza e il sequestro sarebbe rimasto soltanto un vago ricordo. Anzi, conoscendolo, ne avrebbe ottenuto un godimento spirituale, da quella avventura così rischiosa e truce. Capace di ricavarne perfino dei soldi, più di quanti ne avrebbe sganciati la sua famiglia!

Quando un domani, lui e i suoi compagni avessero preso il potere, avrebbe confessato tutto a Fabrizio personalmente. E lì, si sarebbe capito finalmente la vera natura del suo amico. Magari avrebbe ammesso di essere stato, seppure in quel modo involontario e violento, partecipe del successo del proletariato, della vittoria sulle ingiustizie, della rivalsa degli ultimi verso gli eterni primi, i ricchi di sempre.

Marino sembrò leggergli nei pensieri, mentre seduti alla grande tavola sorseggiavano il caffè, mentre lui e Vittorio divoravano i giornali con le notizie del sequestro.

«Che c’hai Dario, ti vedo perplesso?»

«Mi sto semplicemente chiedendo che significato abbiano, nel contesto rivoluzionario, questi sequestri di persona» rispose, poggiando il giornale che stava consultando. In realtà era preoccupato per il suo amico e la sua compagna, ma non voleva dirlo.

«Davvero non lo capisci?» intervenne Doddore, accalorandosi.

«No» affermò seccamente.

«Lascia che glielo spieghi io Doddore» disse Marino che non voleva dare via libera agli eccessi verbali del suo amico pastore. Aveva preso in simpatia Dario dal primo giorno e in qualche modo aveva un istinto protettivo e di simpatia nei suoi confronti.

«Il sequestro di persona per noi comunisti è una semplice operazione di giustizia redistributiva. È un modo come un altro per cercare di livellare le sperequazioni sociali. Non dare retta alle menate che si leggono sui giornali, sulla odiosità del reato, sulla brutalità dei pastori cattivoni, selvaggi e spietati che considerano gli uomini sequestrati al pari delle bestie.»

«In effetti se non ci fossero le classi sociali, questo tipo di reato non esisterebbe, se ci pensi bene» intervenne Vittorio che sull’argomento si era evidentemente documentato.

Messa in quei termini Dario vide la questione sotto una luce totalmente diversa.

«In pratica chi si è impossessato arbitrariamente e con arroganza dei mezzi di produzione adesso dovrà rendere conto ai tribunali del popolo della sua condotta e subire la giusta punizione» ribadì Marino con calma.

«E comunque una cosa giusta l’hanno scritta i giornali. Nei sequestri noi abbiamo sostituito le pecore con gli uomini, ma l’abbiamo fatto per due buoni motivi. Gli uomini rendono più soldi e poi non belano» intervenne Doddore con una risata di soddisfazione.

Tutti risero della battuta. Dario sperò ardentemente che la famiglia di Fabrizio, da vera borghese, non fosse più attaccata al patrimonio che al proprio congiunto. Pensò anche che se la borghesia fosse stata veramente coerente, in generale non avrebbe mai ceduto al ricatto dei sequestratori. Ma anche questo pensiero rimase tra i suoi sentimenti in quella contorta vicenda.  E lui sentiva, nel profondo del suo animo, che per lui quella storia non si sarebbe conclusa bene, anche se sperava che almeno Fabrizio e la sua compagna potessero venirne fuori sani e salvi.

 

 

venerdì 3 gennaio 2025

A su Gorropu

 


Il giorno seguente era giovedì e di buon mattino, come d’abitudine, Dario affiancava Doddore nella cura degli animali e insisteva nella sua intenzione di imparare   a mungere le capre, ma il pastore non era disposto neppure a farlo provare.  Per il resto accettava volentieri il suo aiuto.

Quella mattina stava per l’ennesima volta chiedendogli il permesso sempre negato quando il pastore gli impose di tacere.

«Shhh! Hai sentito?»

«Che cosa?»

«Ascolta!»

Il giovane si fermò con lo sgabellino in mano. Si udì il richiamo di un uccello che a lui parve un suono conosciuto. Subito dopo si udirono i cani abbaiare.

«Questo è Marino» disse Salvatore alzandosi dallo sgabellino e mollando le prosperose mammelle della capra che stava mungendo. L’animale mosse il testone cornuto, che sembrava enorme, forse anche a causa della tosatura di giugno, che rendeva più slanciato il corpo dell’animale.

Quando l’uomo fu sul ciglio della scarpata che guardava a valle, rispose al richiamo. Marino apparve alla loro vista, lasciando l’albero che lo nascondeva ai loro occhi. Si inerpicò lentamente per il sentiero sassoso che portava su all’ovile. La sua salita era resa più difficile da un pesante zaino che gli pendeva sulle spalle e due grandi buste che portava con sé, una per mano.

«Olà, Marì! Dai che ce l’hai quasi fatta!» lo incoraggiò Doddore. Marino gli tese le due sacche che lui passò a Dario e allungò una mano per aiutarlo nell’ultimo tratto di salita.

«Salute a voi!», disse approdando al loro livello e liberandosi del pesante zaino. «Vittorio?»

Come evocato dalla domanda, l’uomo si affacciò sulla soglia e lo salutò con la mano.

«Ciao. Muoviti che c’è un bel caffè che ti aspetta!»

«Bene» disse Marino. «E io ti ho portato i giornali» gli rispose sorridendo.

Nonostante all’ovile ci fosse una piccola radio a transistor e un televisore portatile in bianco e nero, che ricevevano un segnale alquanto debole e pochi canali, quei giornali erano l’unica vera finestra sul mondo e, soprattutto, sulle novità che riguardavano il sequestro di Fabrizio De André e Dori Ghezzi.

I quotidiani che l’uomo aveva portato con sé quella mattina, furono un tuffo al cuore per Dario. Quelli di martedì 28 agosto, ma soprattutto quelli del mercoledì erano pieni di notizie del rapimento di Fabrizio De André e Dori Ghezzi, avvenuto nella notte del lunedì nella residenza dell’Agnata. La coppia era sola al momento del sequestro. Dario lesse con un misto di esaltazione e di preoccupazione i titoli dei giornali ricevuti. “Banditi-padroni in Sardegna: rapiti Fabrizio De André e Dori Ghezzi” riportava a tutta pagina uno di quelli sardi. “Il cantautore De André rapito con la sua compagna in Sardegna” titolava, invece, in maniera più contenuta il più importante quotidiano nazionale.

martedì 24 dicembre 2024

Divinità del Verbo

 


https://www.amazon.it/dp/B0BMVMPBP9


In principio era il Verbo

E il Verbo era presso Dio,

Il Qual teneva in serbo

Di riscattare il fio

 

Dell’umana corruzione

Mandandoci Suo figlio

Che,  nato da puro Giglio,

È Sua rivelazione,

 

In uno con lo Spirito,

Ma puoi elencarne tre!

Come la Legge  per Mosè

Fu data, la Grazia Cristo

 

Ci ha portato in Verità!

Pur se d’ogni cosa è Autore,

L’uomo, mal conoscitore,

Lo ha trattato con viltà.

 

Ma a color che L’hanno accolto,

Lui li ha resi fratelli

Dandogli i doni più belli,

Senza riceverne molto.

 

domenica 15 dicembre 2024

Uno strano incontro all'Agnata di Faber

 


https://deimerangoli.it/shop/sicuramente-ligure/

Capitolo Quarto

 

Con il tempo Dario, era riuscito a farsi una ragione della morte di quel sindacalista che era caduto nel corso della prima e unica azione terroristica alla quale lui aveva preso parte. Nel corso di numerose riunioni segrete, alle quali aveva successivamente partecipato, si era parlato molto del prezzo di sangue che si sarebbe dovuto pagare sulla via della rivoluzione vittoriosa. Numerose letture avevano poi contribuito a rafforzare le sue convinzioni. Concluse che ormai si trattava di una guerra e senza morti era impossibile da immaginare. D’altronde anche molti dei loro compagni erano caduti sotto il fuoco nemico dei carabinieri e dei poliziotti ed era legittimo rispondere con il fuoco. Il torto era facile da intravedere nello sfruttamento secolare, per non dire millenario, degli operai e dei braccianti, schiavizzati con la schiena piegata sulla terra da coltivare o legati alla catena di montaggio. Mentre i ricchi, i borghesi, i padroni se la spassavano tra belle donne e macchine di lusso, con gli yatch ormeggiati al porto sempre a loro disposizione. Chi lo aveva decretato che lui dovesse appartenere per sempre alla classe degli schiavi? Non aveva forse ragione il povero ad alzare la voce e a ribellarsi? E i ricchi avrebbero ceduto le loro proprietà, il loro potere con le buone maniere, ragionando da buoni fratelli? Col cavolo! Lenin, Mao e Fidel Castro avevano imbracciato le armi ed erano riusciti a riportare l’uguaglianza e la libertà ai diseredati e agli sfruttati di sempre.

 I libri di storia, dopo la vittoria della rivoluzione, gli avrebbero reso quello che adesso i giornali e le televisioni dei padroni gli stavano togliendo in termini di credibilità e ragione.

 Quando a metà giugno partì per la Sardegna, senza dire niente a nessuno, decise che prima di andare a Nuoro per quei contatti con i combattenti sardi per la libertà e l’indipendenza, si sarebbe recato a trovare i parenti di sua madre e forse perfino da Fabrizio.

I parenti di sua madre, a Sassari, lo accolsero davvero con affettuoso calore. In aggiunta al senso di ospitalità, tipico dei Sardi, vi era quel legame di sangue, che li univa, ad amplificare quell’afflato empatico. Angelo, uno dei suoi cugini, che aveva più o meno la sua età, aveva un bel giro di amicizie e anche lì fu accolto con estrema simpatia.

Tuttavia, quando si accorse che una delle sue amiche, con cui aveva più che familiarizzato, si stava troppo affezionando a lui, decise ch’era giunto il momento di staccarsi. Si guardò bene dal comunicare i suoi riferimenti nuoresi e inventò di avere un impegno importante con il suo amico d’infanzia Fabrizio, nelle campagne di Tempio, dove diede appuntamento a tutti quanti, per ritrovarsi e rafforzare i loro vincoli, di qualunque natura essi fossero. All’Agnata ci andò davvero con l’idea di salutare il suo amico Fabrizio e ripartire poi per Nuoro, dove avrebbe preso finalmente i contatti, come da incarico ricevuto.

Da Tempio non fu semplice trovare un passaggio per l’azienda agricola di Fabrizio ma alla fine, a forza di chiedere, trovò un passaggio su un camion che andava lì per prendere il latte delle mucche e portarlo in città. L’estate era già avanzata nella campagna tempiese. Mentre l’autista guidava attento su quelle tortuose stradine, lui respirava a pieni polmoni quei profumi inebrianti della macchia mediterranea. Si sentiva emozionato dall’idea di ritrovare il suo vecchio amico e di vedere come si fosse sistemato nella terra di sua madre. Certo era strano quel suo compagno d’infanzia. Lo era sempre stato, anche se lui aveva sempre attribuito le stranezze del suo carattere, come una bizzarria dovuta alla sua nascita tra i privilegiati e alle eccessive attenzioni che aveva ricevuto in famiglia, soprattutto dalla mamma, sempre pronta ad accontentare quel suo figlio ribelle e capriccioso. Non gli era mai venuto in mente che invece, quelle originalità, fossero frutto della natura artistica di un animo attento e sensibile alla natura. Un ascolto perenne alla vita e ai suoi dettati. Nell’animo di Dario non c’era posto per simili sentimenti. Lui, ormai, misurava tutto con un metro materiale.

Fabrizio fu sinceramente felice di vederlo e di ospitarlo. Quanto a trascorrere insieme del tempo, era un’altra questione. A parte qualche partita a carte, la sera, dopo avere inizialmente ricordato ancora una volta i vecchi tempi trascorsi nei caruggi della città vecchia, non ci furono troppe occasioni. Il suo amico aveva delle abitudini originali, riguardo al tempo. Dormiva di giorno e per lo più lavorava di notte in compagnia della sua chitarra. Le sue note e i suoi versi riempivano il silenzio notturno. Una volta anche Dario si sentì immerso in una nuvola di malinconia, proprio mentre il suo amico cantava ‘Giugno 73’ una canzone che, per sua stessa ammissione, era una delle poche autobiografiche. Fu durante il verso finale “è stato meglio lasciarci che non esserci mai incontrati” che si ritrovò a ripensare alla sua ragazza finalmente così felice di avere l’apparecchio acustico che aveva risolto il suo problema uditivo che l’affliggeva dalla nascita. Cosa stava facendo ora Bice? Lo amava ancora? Mentre si rigirava nel suo letto si chiedeva se avesse fatto bene a spezzare quel legame tenero e sincero che per un certo periodo era riuscito, almeno in parte, a colmare i vuoti della sua esistenza. Per fortuna il sonno prese subito sopravvento. Non c’era spazio nei suoi pensieri e nel suo animo per simili nostalgie.

Infatti il giorno seguente Bice era già fuori dalla sua testa. Ma Dario non se ne preoccupò affatto.

 La tenuta era così grande che vi si poteva camminare per ore senza trovare anima viva. Un giorno che aveva fatto un lungo giro, dopo aver vagato a lungo tra rupi, boschi e anfratti, mentre si trovava sulla via del rientro, si imbatté casualmente nell’ultima persona che si sarebbe aspettato di vedere. All’inizio non lo riconobbe, sdraiato com’era in mezzo all’erba, pancia a terra, con i binocoli puntati in direzione della residenza De André. Ne distinse il volto come quello si girò di scatto, forse spaventato dal fruscio dei suoi passi.

«Belin, Vittorio, che diavolo stai facendo qui? E cosa fai con quei binocoli?» gli chiese ridendo di gusto.

«Ma che domande del cazzo mi fai? Cosa ci fai tu, qui? Non dovevi essere a Nuoro, boja d’un fàuss! Ho pensato che ti avessero arrestato o che fossi morto da qualche parte» sbottò in tono minaccioso l’altro, per tutta risposta.

A Dario, la risata di prima passò di colpo. Quello lì era incazzato sul serio. Tanto più che dal folto della macchia era apparso all’improvviso un altro uomo. Non era giovane quanto lui e neanche quanto Vittorio. Fu colpito da due cose. Dal suo fisico imponente e dal fatto che vestiva alla sarda, con giacca di velluto e pantaloni di fustagno e con i gambali e la berrita in testa, a completare l’abbigliamento tipico dei pastori, come gli avevano ampiamente descritto i suoi cugini di Sassari.

L’uomo, lisciandosi con fare circospetto i baffi neri e spioventi, appena spruzzati di grigio, lo guardò negli occhi e non parlò neppure per dire il suo nome. Dario notò come se ne stesse tutto il tempo al coperto del macchione boscoso, guardandosi in continuazione tutt’attorno. I suoi occhi chiari gli sembrarono quelli di un gatto o forse di una volpe.

«Belìn, non ti avevo detto che avevo dei parenti e degli amici da salutare?» farfugliò, sorpreso dalla furia aggressiva del suo interlocutore.

«Ma che cazzo vai vaneggiando? Non avevi l’incarico di stringere dei contatti con i compagni sardi, giù a Nuoro? E invece ti ritrovo qui a fare un belin, come dici tu!»

«E tu, che stai con i binocoli allora?» tentò di reagire Dario che si era sentito trattato come una merda. Ma quello rincarò ancora la dose di rabbia.

«Ma allora tu non capisci davvero un cazzo! Ma sei un combattente o sei un pirlètta che continua a fare domande inutili?»

Dario questa volta abbassò la testa, sentendosi di colpo ridicolo.

«Sì, scusa, hai ragione tu. Ho sbagliato.»

«Se tu fossi andato dove ti avevo mandato, sapresti benissimo per quale motivo mi hai trovato qui, con questi binocoli. Non penserai che sia venuto a gustarmi il paesaggio?»

Poi, visto che l’altro non parlava e stava lì a capo chino, mortificato, cercò di addolcire un poco il tono della voce. «Ce li hai sempre quegli indirizzi di Nuoro?»

«Sì, certo», disse Dario, contento di potere dare una risposta soddisfacente.

«Ecco, falli a pezzetti e buttali via. Li abbiamo dovuti cambiare, per paura che ti avessero preso con quegli indirizzi in tasca. Adesso ti do un nuovo recapito e contattalo subito a nome mio» disse in tono sbrigativo Vittorio, scrivendo qualcosa su un pezzo di carta, dopo avere passato i binocoli al suo silenzioso accompagnatore.

«Mi dici adesso che cosa sei venuto a fare e perché ti trovi qui?» chiese ancora consegnandogli il pezzo di carta con il nuovo numero di telefono.

«Non ti avevo mai detto che con Fabrizio De André siamo amici d’infanzia?», disse con un filo di voce Dario.

«Ah!» fece l’altro sorpreso. «No, non me lo avevi detto e non lo sapevo. È superfluo che io ti dica che la segretezza della nostra missione in Sardegna va oltre ogni amicizia.»

«Ma certo, stai tranquillo. Ci mancherebbe» rispose offeso. Tuttavia pensò che significato avesse la sua presenza nella tenuta del suo amico, con quei binocoli e con quel pastore silenzioso.

«E speriamo che questo non complichi, a te e a noi, i nostri programmi futuri» disse in tono enigmatico.

Dario si sentì addosso gli occhi dei due uomini e si chiese ancora il senso di quelle parole. Tuttavia non disse niente.

«Ciao. Ci vediamo a Nuoro. E non perderti per strada, anche stavolta!» aggiunse mentre si accingeva a seguire l’altro uomo, che, dopo aver dato un ultimo sguardo intorno, lo aveva osservato un’ultima volta. I suoi occhi parlarono per lui, anche se Dario non seppe come interpretare quello sguardo indagatore e profondo.

Restò lì per qualche secondo chiedendosi che senso avessero quelle parole riferite ai programmi futuri. Poi si avviò pensieroso verso la tenuta, nella direzione opposta a quella che avevano preso gli altri due uomini. Presto sarebbe partito per Nuoro. Ma non lo avrebbe detto a nessuno.

 

 

In Manuale del Perfetto Orologiaio

  https://www.amazon.it/dp/B0BQ6MR661 Capitolo Terzo       « E tu come ti chiami?» «Sono Giuditta, la nipote dell’Anselmo». «Io ...