domenica 6 aprile 2025

Il Manuale del perfetto orologiaio

 


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Capitolo Settimo

 

 

 

«Qual buon vento ti porta alla Sconcia, bella ragassuola!», esclamò allegramente Maturina, abbracciando Giuditta.

«Sono venuta per parlare di quella proposta che è qualcosa più di una semplice offerta di lavoro, come avete detto voi quel giorno che ci siamo conosciute».

«Certo, ricordo bene. Come mai ti sei decisa proprio adesso?»

«Mi sono stancata di fare la magazziniera!» Giuditta evitò di riferirle che il vero motivo era la proposta di matrimonio che lo zio Anselmo le aveva fatto. Non era il caso che quella furbona bolognese lo sapesse.

«E tuo zio Anselmo come l’ha presa?», chiese l’acuta matrona, cercando di infondere un tono neutro alla sua domanda.

«Lo zio non può dire niente. Ho dei segreti, qui dentro, che potrebbero nuocere non poco ai suoi affari», disse la giovane poggiando la mano destra all’altezza del prosperoso seno.

Maturina intuì, più che capire; e comunque la ragazza le parve molto sicura di sé; ed era molto bella; forse più di quanto non lo fosse stata lei in gioventù; proprio la persona che ci voleva per rilanciare gli affari della sua maison.

«Vieni, prendi il tuo bagaglio che ti faccio vedere la tua sistemazione; strada facendo parleremo di affari. Hai già fatto colazione?»

«Sì, certo».

«Bene. Qui siamo al terzo piano e ci viviamo soltanto io con il mio compagno; e adesso tu, che occuperai queste tre stanze che sono libere. Del primo piano tu non dovrai interessarti, ma te ne voglio informare lo stesso: è chiamato il piano dei Baiocchi, e ci sono  dodici camere, suddivise in tre classi: la terza classe, da 20 quattrini (ovvero quattro baiocchi), si affitta per un quarto d’ora; la seconda, da trenta quattrini (o sei baiocchi) vale mezz’ora; la prima classe, da mezzo scudo (ovvero 50 baiocchi) vale un’ora intera».

Giuditta ascoltava la matrona con la stessa attenzione con cui aveva ascoltato suo zio Anselmo quando aveva preso a spiegarle il funzionamento dello stoccaggio delle merci nel magazzino di Pontelagoscuro. Visto che la giovane donna la seguiva Maturina continuò.

«Quello che interessa a te è il secondo piano. Attraverso queste scale vi si accede direttamente. Non si può accedere a questo piano né dal piano terra e né dal primo piano. L’altro che ti mostro adesso è accessibile  dallo stallaggio: la nostra clientela selezionata, scende dalla carrozza, imbocca le scale segrete e arriva qui, da questa porticina qui, vedi? Adesso è chiusa a chiave.  Per accedere a questo piano occorre possedere due chiavi: una per la porta che sta nelle stalle di rimessa, ove gli ospiti privilegiati possono alloggiare i loro cocchi e i loro cavalli. E l’altra è per questa porta qui.  Questo si chiama il piando degli scudi: d’oro o anche d’argento, non ha importanza; vanno bene tutti, veh?  anche i ducati, veneziani, milanesi o toscani, purché d’oro e di argento».

Nel dirlo, alla matrona brillavano gli occhi. Lei aveva un debole per l’oro e l’argento.

«E io?», chiese Giuditta interessata.

«Tu dovrai gestire le ragazze del piano. Per i clienti e le tariffe non ti preoccupare; a tutto penserò io; tu devi verificare pulizia e portamento delle stanze e delle ragazze e che tutto si svolga con regolarità. Noi lavoreremo fianco a fianco e io ti darò il dieci per cento netto dei compensi del piano e in più potrai ricevere chi vuoi, ai prezzi che decidi tu, nella stanza a te riservata; e quegli incassi saranno tutti tuoi: te li incassi tu e te li tieni tu. Che ne pensi, ragazza bella?»

«Penso che va bene»

«Bene. Adesso torniamo di sopra. Dopo pranzo ti presenterò le ragazze del piano e potrai cominciare da subito. Per un po’ di giorni ti seguirò da vicino ma quando avrai preso in mano la situazione potrai fare da sola. Così io potrò interessarmi del tanto altro che c’è da fare per mantenere la maison in piena efficienza. Siamo d’accordo?»

«D’accordo», rispose Giuditta. Una stretta di mano e un intenso sguardo d’intesa suggellò il loro patto.

 

 

La casa di tolleranza della Sconcia era ospitata nel Borgo di San Giorgio, in un Palazzotto di 3 piani fuori terra.

Al piano terra, di fronte all’ingresso, c’era una postazione che fungeva da biglietteria, ove si concordava la prestazione, il cui prezzo variava secondo il tempo che si intendeva trascorrere con la ragazza prescelta (anche se in effetti il tempo era in funzione delle prestazioni richieste e non viceversa).

L’attività si svolgeva ai due piani superiori, separati tra loro nella gestione e nei servizi. Il prezzo dei servizi, che partiva da un minimo di quattro baiocchi, includeva, obbligatoriamente, un tocco di sapone veneziano (che in realtà era prodotto a Rovigo, ma i blocchi da 50 libbre portavano la scritta “Sapone di Venezia”; oggi si direbbe un marchio registrato, o qualcosa del genere) e una pezza di lino grezzo. Il primo veniva ceduto in proprietà, o a perdere, come si diceva, mentre la seconda andava lasciata per terra dopo il suo utilizzo. Anche se in realtà tutto questo valeva soltanto per il primo piano. Al secondo piano era tutto diverso e si agiva per una clientela selezionata che non aveva certo bisogno di portarsi via un pezzo di sapone grezzo.

La casa, che portava l’insegna “Ai Bagni della Sconcia”, prendeva il nome da questo servizio, e persino dopo la Devoluzione, il membro del consiglio dei Savi addetto all’Igiene Pubblica e alle Acque, aveva preteso che l’insegna riportasse la scritta e come tale veniva tollerata dal nuovo potere pontificio che comunque ne enfatizzava la visione negativa delle operatrici (chiamate evangelicamente “maddalene”) in chiave di esaltazione della funzione redentrice della Chiesa.

A onor del vero occorre però riconoscere che i prelati che vi si recavano (e presto ne conosceremo uno assai importante) non si limitavano a predicare sermoni di evangelico riscatto.

Ma era al secondo piano che si svolgeva l’attività più importante e lucrosa.

Al secondo piano, detto degli Scudi, sia gli avventori, sia le operatrici erano alquanto selezionati.

Non vi era un vero e proprio tariffario e non si accedeva neppure dall’interno (la scala interna che conduceva al secondo piano infatti, non  era accessibile dal primo piano ed era anzi celata da una porta chiusa che ne impediva la vista e l’accesso).

La Matrona (la stessa che abbiamo incontrato ai magazzini di Pontelagoscuro il giorno in cui conobbe Giuditta, restandone così impressionata da proporle di lavorare, più con lei che per lei, come vedremo più avanti) era la vera anima organizzatrice della casa.

Il suo nome vero era Maturina (come si erano chiamate la mamma e la nonna) ed era venuta da Bologna a Ferrara,  dopo aver esercitato la professione più antica del mondo nella città della prima università europea  (e ancor prima a Firenze),  con un bel gruzzoletto di sonanti scudi d’oro che aveva saputo investire nell’attività della Sconcia che abbiamo appena descritto.

I ferraresi, col tempo, vedendola ingrassare, un po’ per alterazione della pronuncia del loro idioma (che tendeva a mangiarsi le sillabe atoniche), un po’ per evidenziare l’aumento volumetrico della sua figura, presero a chiamarla la Matrona (e non mancava chi aveva poi simpaticamente francesizzato il nome, ribattezzandola in Madame la Maitresse).

Fu in quel secondo piano della Sconcia che Giuditta portò a compimento, affinandole con l’assiduità della pratica, quelle sensazioni che appena sedicenne, sin dalla prima volta in cui suo zio le aveva frugato tra le vesti con le mani bramose e tremanti, aveva avvertito come una forma istintiva di dominio della femmina sul maschio.

Quelle sensazioni, inizialmente emotive e confuse, si erano andate cogli anni chiarendosi e rafforzandosi, sino a diventare una ferrea sicurezza sulle sue capacità di ammansire e incanalare quelle tensioni, quei tumulti, quelle tempeste dell’anima che certe donne sanno suscitare sugli uomini e che comunemente si chiamano passioni.

E fu lì che Giuditta conobbe Pietro Marino De Regis e lì  imparò ad amarlo, riconoscendo la sua sensibile fragilità, ammirando la sua intelligenza e sviluppando per lui un’ammirazione protettiva di cui avvertì tutta la prorompente carica affettiva quando un altro dei suoi clienti, don Agostino  Barozzi, presidente del locale tribunale dell’Inquisizione,  frequentatore abituale  della casa del vice legato pontificio Pasini Frassoni, le confidò in quell’alcova segreta posta al secondo piano, che l’inviato segreto del re di Spagna (come lui chiamava l’hidalgo don Pedro Domingo Mendoza Martinez) aveva in mente di arrestare l’eretico De Regis, quel terzo lunedì del mese, in casa sua, in vicolo Vrespino, dove si sarebbe riunita tutta la compagnia farneticante di artisti e scrittori, a leggere i libri di poeti e scienziati indemoniati, gozzovigliando e fornicando, a sentir lui,  come in un bordello.

venerdì 28 marzo 2025

Il Manuale del perfetto orologiaio

 


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Capitolo Sesto

Don Pedro Domingo Mendoza Martinez era un vero e proprio hidalgo, intransigente e irreprensibile. Discendente dei Conquistadores  che nel secolo precedente avevano assicurato alla fede cattolica la parte centrale  e buona parte di quella meridionale del continente americano, nutriva la stessa cieca convinzione sulla infallibilità della dottrina e della fede cattolica, che aveva spinto  i suoi antenati alla conquista di nuove terre oltreoceano,  anche se, per uno strano gioco del destino, o forse perché la sete di oro del suo casato era stata già appagata, al contrario dei suoi illustri e avventurosi ascendenti, egli non nascondeva altri retro pensieri, dietro al suo fanatismo religioso, all’infuori della sua patria e del suo re.

Odiava tanto i mestizos  ed i conversos,  quanto i riformisti e gli eretici di ogni sorta. Per contro  amava il suo sovrano e i principii della fede cattolica. Ed era disposto a dare la sua vita pur di difendere la purezza della religione contro chiunque ne avesse messo in discussione l’assoluta preminenza. Per questo aveva accettato di entrare al servizio della Congregazione in difesa della Fede Cattolica. Ed era stato immesso direttamente dal re di Spagna nei ranghi dell’Inquisizione.

Nei primi anni, ancora giovanissimo, era stato istruito sulle tecniche investigative e su quelle dell’interrogatorio, che spesso sfociavano nella tortura, ogniqualvolta l’inquisito si rifiutava di confessare le sue eresie e di pentirsi, promettendo di seguire ciecamente gli insegnamenti di Madre Chiesa.

Poi, col tempo, era stato utilizzato come agente operativo, nei territori dell’immenso impero ispanico, coperto dall’immunità diplomatica ma ancora inquadrato nei ranghi della temibile e potente inquisizione spagnola.

Tenoch Tixtlancruz era il nome cristianizzato dell’impronunciabile appellativo patronimico di un discendente diretto di un guerriero Azteco,  sbarcato  con Colombo a Cadice,  al termine del suo secondo viaggio nelle Indie (o quelle che lui credeva tali ma che poi si rivelarono essere le Americhe).

Attraverso vari incroci con la stirpe iberica, ne era venuto fuori un gigante alto quasi due metri, con il naso schiacciato, le labbra prominenti e una testa enorme che i capelli corvini, tagliati corti, rendevano ancora più grande. Agli orecchi portava due orecchini di foggia azteca e gli occhi grossi e neri cerchiati di sangue suscitavano terrore solo al vederli. Don Pedro lo chiamava semplicemente Tenoch ed era praticamente il suo braccio armato. Era lui che provvedeva, invero assai volentieri, agli esercizi della tortura cui erano sottoposti gli eretici prima di confessare o di morire colpevoli e dannati (la non confessione non era contemplata nel dizionario del truce torturatore).  Seppure orami convertito al cattolicesimo, aveva conservato della sua stirpe originaria, e della classe dei guerrieri a cui suo bisnonno si vantò sino alla morte di essere appartenuto, l’animo truculento, lo spirito di abnegazione e di sacrificio per il suo credo, una forza erculea e una fiducia incrollabile nel potere costituito, di natura civile o religioso che esso fosse.

Nella sua mente, il racconto della Creazione del libro della Genesi con cui era iniziata la sua educazione cattolica, sostituiva in maniera impeccabile e perfetta, le avite credenze sulla potenza del sole e delle stelle. Si convinse da subito che quel Dio Onnipotente e Sempiterno era lo stesso Sole che avevano adorato i suoi avi o, quantomeno, un parente assai prossimo, se non proprio il padre, il Creatore, per l’appunto.

Portava con sé, ovunque andasse, un baule di legno dentro il quale custodiva le sue pinze strappa seni (che non disdegnava di utilizzare anche per schiacciare i testicoli dei prigionieri più riottosi), un imbuto di metallo, un otre della capacità di tre litri (con cui somministrava agli eretici l’acqua in dosi, sino al numero di sei) e una serie di funi e carrucole per lo stiramento delle ossa dei poveri malcapitati nella stanza delle torture dell’Inquisizione.

Completava il terzetto ispanico, come già detto, Padre Alonso Ramirez de Barranquilla, un gesuita che aveva in comune con i due compagni di viaggio soltanto la fede nello stesso Dio (anche se a volte lui stesso dubitava che si trattasse davvero del medesimo Dio). Anzi, forse la sua presenza nel trio si giustificava proprio per la sua diversità che, in qualche misura, fungeva da calmiere della passionale intemperanza dei suoi compagni di viaggio.

In effetti lui era con loro per consolare e per confessare i prigionieri; e per convincerli che sarebbe stato inutile resistere e che era meglio pentirsi e riconciliarsi con Dio.

Davanti ad una confessione piena e incondizionata le torture non avevano più senso di esistere e dovevano cessare immediatamente. E lui, con la sua autorevolezza, otteneva che cessassero.

Di fronte al pentimento e al ravvedimento il prigioniero non era più un reietto da punire, una carne da macellare, una potenza demoniaca da dissolvere nei tormenti dell’espiazione; al contrario, il torturato si tramutava, per grazia evangelica, in un figliol prodigo, tornato alla casa del padre a capo chino, desideroso solo di essere riaccolto e perdonato.

E se l’atto di riconciliazione, sancito dall’assoluzione che Padre Ramirez non disdegnava di elargire con ampi gesti della mano e con la formula solenne in latino e che il Servo di Gesù comunicava raggiante ai due torturatori, non esonerava il povero disgraziato dalla punizione umana, il perdono divino, pur tuttavia, lo riabilitava nella sua dignità umana, riscattandolo da quei recessi di ignominia e degrado in cui era precipitato con il peccato, restituendolo al consorzio cristiano, ridandogli lo status di figlio di Dio e come tale,  inviolabile nella sua sacralità filiale.

Ed ogni volta che questo accadeva (praticamente sempre, o quasi sempre) il buon gesuita sentiva che le sue sofferenze, il suo disagio, la ripugnanza stessa che quelle torture e quei torturatori procuravano alla sua anima sensibile e pia, trovava un’equa compensazione nel riscatto di quell’anima recuperata alla salvezza eterna.

E poco importava, a quel punto, se gli infelici malcapitati fossero stati, all’origine, innocenti o colpevoli.

giovedì 20 marzo 2025

Il Manuale del perfetto orologiaio

 


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Capitolo Quinto

 

 

 

«Eccellenza, gli ospiti spagnoli sono giunti e chiedono di essere ricevuti», disse il primo segretario con una certa agitazione nella voce, affacciandosi alla porta dello studio che il vice legato aveva lasciata aperta in attesa dell’arrivo di quegli ospiti lungamente attesi.

«Finalmente! È tutto il santo giorno che li aspetto», disse rivolto al suo interlocutore, interrompendolo. Poi, rivolto al suo braccio destro aggiunse: «Falli accomodare e poi recati subito in sala da pranzo. Che tutto sia pronto a dovere per il desinare degli ospiti!»

Un uomo dal fisico atletico e dall’età indefinibile e apparente, tra i quaranta e i cinquant’anni, fece il suo solenne ingresso nell’ufficio. Seppure non tanto alto, aveva un passo marziale, in linea con la foggia dei suoi abiti, che avevano qualcosa di militaresco. La barba e i baffi, ben sagomati, erano neri e leggermente spruzzati di grigio, come la sua folta capigliatura. Che fosse un militare venne confermato dal colpo di tacchi che diede, scattando sugli attenti, per presentarsi al padrone di casa, andatogli incontro in segno di accoglienza e rispetto.

«Don Agostino Barozzi ho il piacere di presentarvi don Pedro Domingo Mendoza Martinez, inviato di sua maestà il re di Spagna Filippo IV! Don Pedro, lasciate che vi presenti il Presidente del Tribunale dell’Inquisizione di Ferrara, confermato in sede da Sua Santità, il nuovo papa Urbano VIII», disse subito dopo avere dato il suo caldo benvenuto all’ospite ed essersi a sua volta presentato, volgendosi all’indietro verso l’ imponente figura di un  religioso vestito di bianco.

All’Hidalgo don Pedro, quell’accoglienza in pompa magna, piacque soltanto a metà. Apprezzò l’utilizzo della lingua spagnola, che i due prelati italiani, da buoni diplomatici, padroneggiavano assai bene. E gli piacque, tutto sommato, la figura rotonda e gioviale del vice legato. Forse perché lo superava in statura; inoltre la sua stretta di mano, debole e soffice, denotava un carattere poco bellicoso, anche se gli suggeriva, per esperienza, di guardarsi le spalle dalle sue azioni segrete.

Ciò che più di tutto lo mise a disagio, anche se soltanto a un livello epidermico, fu però quel domenicano, dall’aspetto troppo fiero e troppo gaudente, per quel suo ruolo di inquisitore.

«Ma, come mai, siete solo, eccellenza?», chiese Pasini Frassoni guardando oltre le spalle dell’hidalgo spagnolo.

«Il mio servitore non ama le riunioni conviviali; e padre Alonso de Barranquilla si è trattenuto in carrozza per completare i suoi vespri», disse il cavaliere spagnolo. «Vi sarei grato se ci poteste fare accompagnare ai nostri alloggi. So che il nostro comune amico vi ha raccomandato l’esigenza di una nostra autonomia».

«È tutto pronto, in tal senso. Tuttavia, il nostro comune amico, non mi perdonerebbe mai se vi facessi andar via senza avervi invitato a mangiare qualcosa con noi, dopo un così lungo viaggio! Vi farò accompagnare ai vostri alloggi subito dopo cena».

«Permettetemi allora che io vada a chiamare il mio accompagnatore e assistente spirituale Padre Alonso de Barranquilla e a dare disposizioni al mio servitore!» disse l’hidalgo ringraziando l’ospite per la sua gentilezza.

«Non incomodatevi, manderò uno dei miei servi» lo incalzò Pasini Frassoni.

Non aveva tuttavia finito di parlare che un sacerdote, alto e magro, rigorosamente vestito di nero, fece il suo ingresso nell’ufficio del vice legato. L’uomo fece sparire il suo breviario nelle capaci tasche della tonaca prima di presentarsi. Nonostante la sua giovane età, il gesuita mostrava una grande sicurezza.

Il tempo di fare le presentazioni del nuovo venuto che Don Giuseppe si affacciò sulla soglia.

«In sala è tutto pronto per la cena!», disse rivolto al suo diretto superiore.

«Benissimo. Don Giuseppe accompagna i nostri ospiti a rinfrescarsi dal viaggio e poi portali in sala da pranzo», ordinò il padrone di casa. «Volete che faccia chiamare il vostro servitore?», aggiunse poi rivolto ai due nuovi arrivati.

«Non c’è bisogno. Ha con sé delle cose personali che non lascerebbe mai incustodite; e poi, come vi ho già detto, non è un tipo che ama troppo le compagnie numerose» lo giustificò l’hidalgo.

«Piuttosto non sarebbe male fargli arrivare qualcosa di caldo da mangiare», interpose il padre gesuita.

«Non si preoccupi. A questo provvederò immediatamente io», lo rassicurò il padrone di casa.

Poco dopo i quattro si ritrovarono in una sala dove troneggiava una tavola imbandita di tutto punto. Il vice legato e il presidente del tribunale avevano atteso in piedi i loro due commensali.

«Prego accomodatevi. Spero vi piaccia la cucina italiana», disse il vice legato indicando agli ospiti i loro posti.

Dietro ogni sedia vi era un cameriere, che prontamente facilitò la loro seduta, scostando opportunamente le sedie dietro di loro.

«Amiamo abbastanza la vostra gradevole cucina, ma a tavola vorrei parlarvi di alcune cose alquanto riservate», rispose l’Hidalgo, posando il suo sguardo sospettoso sui camerieri.

Con un cenno degli occhi Pasini Frassoni licenziò i quattro camerieri. Intanto il coppiere aveva iniziato a versare il vino nei calici. Gli occhi intensi dello spagnolo si posarono su di lui, più che sul contenuto che aveva versato nei calici.

«State tranquillo don Pedro, si tratta di un fido servitore sordomuto», lo tranquillizzò il vice legato.

L’hidalgo annuì con un cenno d’intesa, cominciando a intuire la sottile intelligenza che animava il suo anfitrione italiano.

«Vi do il benvenuto con questo Savignon, tanto per iniziare», disse Pasini Frassoni levando in alto il calice. «Propongo questo primo brindisi in onore del re di Spagna», aggiunse subito dopo, mentre i calici tintinnavano.

«Al re Felipe e al papa Urbano», aggiunse Padre Alonso de Barranquilla.

Dopo il brindisi il padrone di casa invitò i commensali ad assaggiare il primo piatto, che lo stesso mescitore sordomuto, in mancanza di altro personale, provvide a versare nei piatti, attingendo da una zuppiera che troneggiava al centro della tavola.

Un gradevole profumo di zucchero e di latticini si levò dalla zuppiera e dai piatti fumanti.

«Buono davvero questo riso alla turchesca!», commentò per primo don Agostino Barozzi, che era un vero buongustaio.

«Il cuoco lo ha arricchito anche con farro e mandorle» disse il padrone di casa, apprezzando il complimento del suo connazionale.

«Davvero saporito», convenne il gesuita, sorridendo. Aveva dei denti piccoli e scuri, ma il suo sorriso denotava un animo gentile. Evitò di dire che lo avrebbe gustato meglio con un cucchiaio di legno, ma in fondo si era già rassegnato alle usanze italiane.

«Prima di tutto vorrei parlare del mio metodo di lavoro» disse don Pedro rivolgendosi al vice legato. Il padrone di casa annuì, notando che l’hidalgo, per niente in imbarazzo nell’uso della forchetta e del tovagliolo, aveva appena assaggiato il gustoso primo piatto.

«Non vi è piaciuto il riso?» chiese non di meno al suo ospite.

«È saporito, forse anche troppo, per il mio palato. E poi presumo che abbiate degli altri piatti da farci gustare. Mi voglio riservare uno spazio anche per dopo», rispose l’hidalgo gustando ancora un po’ di vino, per fare onore comunque alla buona tavola imbandita per lui.

Come evocato dalle parole dello spagnolo comparvero due camerieri che portavano due vassoi di arrosti: uno colmo di crostacei e di pesci del Po, l’altro di carni bianche. L’hidalgo, che aveva fatto cenno di continuare il suo discorso sulle sue modalità operative, si era bloccato all’apparire dei due camerieri.

Aspettò pazientemente che il dapifero trinciasse i fagiani e mondasse abilmente i pesci della portata. L’hidalgo, per tutto il tempo gli aveva tenuto gli occhi addosso.  Con un cenno eloquente di congedo, Pasini Frassoni li congedò tutti e tre. Poi, sempre senza parlare, fece intendere al coppiere che era ora di cambiare calici e qualità del vino.  Con gesti rituali il sordomuto provvide a colmare i nuovi calici di cristallo di un liquido rosso rubino.

«Ho pensato che con gli arrosti il vino più adatto fosse il Fortana».

«Ottima scelta», convenne don Agostino, che aveva già bevuto dell’acqua, dopo avere vuotato il calice del vino bianco e, soprattutto, il piatto di riso e farro.

L’hidalgo sollevò il calice per un ulteriore brindisi. Sembrava quasi rassegnato a quel cerimoniale ma si vedeva che i suoi interessi e la sua testa stavano da un’altra parte.

«Come vi dicevo», riprese infatti dopo avere gustato un piccolo sorso di rosso «io ho bisogno di una certa autonomia nel mio lavoro di indagine».

«In che senso?», interpose don Agostino dopo avere fatto schioccare la lingua sul palato, in segno di apprezzamento per il gusto del vino Fortana.

«Nel senso che noi seguiamo i nostri metodi e le nostre procedure in maniera autonoma. Per questo abbiamo chiesto un alloggio ampio e isolato» disse   don Pedro Domingo Mendoza Martinez, sempre rivolto al vice legato. Non poté fare di osservare, comunque, con quanta lascivia il domenicano ingurgitasse i gustosi gamberoni di fiume.

«Però voi sapete che potete contare su di noi per ogni tipo aiuto. Il nostro comune amico mi ha raccomandato di non negarvi alcun appoggio possiate necessitare per il successo della vostra missione».

«Vi ringrazio e conto davvero sul vostro appoggio, soprattutto dandomi le opportune informazioni sull’Accademia capitanata da quel Pietro Marino De Regis segnalatami dal mio illustre committente e sui suoi indegni sodali».

«Potete contarci in toto, don Pedro», lo rassicurò il vice legato.

«Quanti soldati mi potete mettere a disposizione?», rilanciò subito lo spagnolo, dimostrando di voler subito giungere al sodo.

«Ho già pensato anche a quello. Alla fortezza del Barco vi è un plotone di soldati che si alternano nell’arco delle ventiquattrore. Il comandante, per mio incarico, è già stato informato del vostro arrivo».

«Sa già che lui e i suoi uomini saranno sotto il mio diretto comando per tutto il tempo in cui starò qui in missione?»

«Sì, certo. Glielo preciserò ulteriormente, se ci tenete»

«Certo che ci tengo. E vi ringrazio per ciò che farete per assicurarmi la più ampia autonomia».

«Ma non è che sorgano poi problemi di giurisdizione con il nostro comune amico? Sapete bene quanto egli sia geloso delle prerogative e delle competenze dell’umile ufficio che qui rappresentiamo…», intervenne a dire don Agostino, ch’era già passato a degustare i fagiani arrosto.

Don Pedro capì che un uomo di legge come il vice-legato poteva restare influenzato dal discorso del domenicano che, evidentemente, non era soltanto un mangione. Ma lo spagnolo conosceva bene l’animo umano e sapeva come muoversi anche sul piano dialettico.

 «Anche io sono soltanto un umile servitore del re Filippo IV, ma sono qui per incarico del nostro comune amico onde assicurare alla giustizia divina l’anima di numerosi  peccatori eretici. Non è forse così Padre Alonso?»

Il gesuita assentì in direzione dell’hidalgo con uno dei suoi sorrisi intelligenti e mansueti.

«Ma state pur sicuri che dopo il pentimento e la confessione degli eretici, il loro corpo vi verrà consegnato per le giuste punizioni. E con il loro corpo anche i loro beni materiali rientreranno nella loro naturale giurisdizione; e sarete voi ad occuparvene, dal momento della confessione in poi» concluse lo spagnolo con un’espressione del viso  che assomigliava più a un ghigno che a un vero sorriso.

 

Quest’ultimo inciso piacque assai all’ambizioso vicario che in realtà non ce l’aveva con il De Regis in funzione delle sue letture (lui stesso stava consultando  avidamente certi scritti di Copernico, rinvenuti negli archivi estensi che in parte erano rimasti a Ferrara dopo la Devoluzione), ma puntava alla confisca delle sue proprietà (indispensabile corollario della sentenza di condanna per eresia in forza delle norme inquisitorie in vigore). Non di meno non volle che il domenicano avvertisse da parte sua una scarsa considerazione per le sue corrette considerazioni e ci tenne a tranquillizzarlo in tal senso.

«State tranquillo don Agostino che provvederò personalmente a informare il nostro comune amico della misura e delle forme con cui abbiamo utilizzato la sua delega nei confronti del nostro ospite, qui in missione per conto di lui!»

Dopo cena il vice legato accompagnò i suoi ospiti in una saletta riservata ove, con grande stupore di tutti, dispiegò sopra un tavolo quadrato, una dettagliata mappa che comprendeva sia la vecchia città medievale, sia l’addizione erculea, comprensiva del tragitto che di lì a poco il terzetto spagnolo avrebbe percorso in direzione dell’edificio che un tempo aveva ospitato l’Osteria del Buon Samaritano.

Pasini Frassoni li informò che li avrebbe fatti accompagnare da Cristoforo Messìppo, un abile cavallerizzo e suo conduttore personale, che avrebbe mantenuto i contatti riservati tra le due sedi. Gli mise inoltre a disposizione, uno scalco- credenziere e  due delle sue migliori inservienti, una cuoca e l’altra pulitrice e rassettatrice. Omise ovviamente di informare l’astuto hidalgo che in realtà si trattava di tre fidatissimi agenti della sua segreteria personale, incaricati di riferirgli nel dettaglio tutto quanto sarebbe avvenuto nella sede operativa prescelta per gli interrogatori degli inquisitori spagnoli.

Preso nota di alcune altre fondamentali informazioni sull’Accademia degli Increduli e su Pietro Marino De Regis, Don Pedro Domingo Mendoza Martinez e Padre Alonso de Barranquilla si avviarono nel cocchio personale del vice legato, condotto da Cristoforo Messìppo.

Li seguiva dappresso il carro con le vivande e le masserizie, nonché con il bagaglio della commissione inquisitoria iberica (escluso il bauletto di Tenoch, che lo legò sul dorso del suo  cavallo, in sella al quale affiancava il cocchio che conduceva il  suo padrone)  guidato dallo scalco e credenziere.

Una luna piena e velata li accompagnava.

Messìppo pensò che l’indomani tutta Ferrara sarebbe stata avvolta nella nebbia.

Ma non disse niente. Il suo padrone gli aveva raccomandato infatti di mostrarsi indifferente a tutto e di tutto osservare senza dare nell’occhio.

 

 

 

 

 

 

 

giovedì 13 marzo 2025

Il Manuale del Perfetto orologiaio

 

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Capitolo Quarto

 

 

 

«Ecco, signor duca, nel raffronto tra le due mappe, si può apprezzare lo sviluppo della capitale in direzione nord», disse l’architetto Biagio Rossetti stendendo sul ripiano del tavolo due ampie carte rilevatrici.

Il duca Ercole I d’Este si era concentrato sulle due mappe della città di Ferrara. Una, di colore giallo, riportava la data del 1471 e ritraeva  la città già ampliata da suo padre Borso; la seconda, di colore bianco e senza data, redatta dallo stesso architetto estense, pur avendo lo stesso formato della vecchia, riempiva la vasta area  che dal Castello Belfiore e dal Palazzo Schifanoia, portava sino al Po di Volano, praticamente al confine con il territorio della  Repubblica di Venezia.

«Non dimenticate di realizzare una possente cinta muraria a ridosso del fiume. Non sia mai che i Veneziani ritentino per quella via, la sortita già fallita per la via del mare», disse il duca, annuendo soddisfatto.

«Se vostra Eccellenza me lo conferma, qui, a ridosso della cinta muraria, io ho previsto la costruzione di una fortezza capace di ospitare una guarnigione fissa di cinquecento soldati e sino a quattrodici bocche da fuoco, puntate sul fiume».

«Confermo. Procedete quanto più speditamente potete», ordinò il potente duca che non vedeva l’ora di vedere la capitale dei suoi domini protetta anche nel punto più debole, quello settentrionale.

Così era iniziata, per volontà del duca Ercole I d’Este, alla fine del XV secolo, la realizzazione della direttrice nord, uno dei due assi ortogonali che abbracciavano lo spazio dell’addizione erculea che univa idealmente Palazzo Ducale alla Porta degli Angeli, a difesa delle incursioni delle temute milizie venete.

 Oltre alla cinta muraria e a un profondo fossato ricolmo dell’acqua di uno dei bracci del delta del Po su cui anche allora si ergeva la capitale del Ducato, scavalcabile soltanto da un agile ponte levatoio, il duca aveva ordinato al grande architetto ferrarese che venisse costruita attorno alla Porta degli Angeli una fortezza militare.

 Ai dodici cannoni a bocca di fuoco 120 voluti da Ercole I, più tardi, suo nipote Ercole II ne fece aggiungere un tredicesimo, il cannone denominato “La Giulia”,  che suo padre Alfonso  aveva fatto fondere con il metallo della statua di Giulio II che i ferraresi avevano abbattuto per festeggiare la  morte dell’odiato papa Della Rovere.

Attorno a quella fortezza si era andato sviluppando, piano, piano, un agglomerato che,  oltre agli alloggi e alle mense dei militari comprendeva tutta una serie di botteghe artigianali, di cascine agricole, di allevamenti di bestiame di diversa natura e numerose magioni, per lo più precariamente costruite con paglia impastata a  mattone crudo a presidio di orti e frutteti che,  numerosi più delle case,  abbellivano quella vasta superficie, nota con il nome di Bellaria,  che si estendeva dalla città medioevale originaria sino alla novella cinta muraria settentrionale e che doveva restare comunque scarsamente popolata ancora per molti secoli.

Questo agglomerato, sorto senza un piano urbanistico preciso, ma che non di meno, aveva conquistato l’altisonante appellativo di Borgo del Barco, aveva creato una fiorente rete economica di scambi e commerci che, grazie ai contributi versati in termini di conferimenti annonari, tributi civili e decime religiose, era riuscita a farsi riconoscere dalla amministrazione comunale centrale dalla quale comunque dipendeva sia, ovviamente, dal punto di vista militare, sia dal punto di vista amministrativo e religioso.

Fra quelle botteghe e baracche del Barco del Duca, come veniva indicato ufficialmente nelle carte, a ridosso di un’enorme  porcilaia con annesso  un macello, di cui si servivano  tutti gli allevatori del borgo,  spiccava una costruzione in pietra dove, per anni, aveva operato una taverna che,  dietro l’ambigua denominazione di “Osteria del  Buon Samaritano”,  ospitava una  casa di meretricio che alleviava non solo le inevitabili solitudini dei soldati di stanza nella fortezza, ma serviva ad allietare anche le noiose serate dei giovani guardiani degli orti e degli artigiani del Borgo.

La taverna era stata chiusa dalle autorità alla fine del 1500, anche se certi documenti sembravano attestare invece la data del 1577,  quando in città erano stati accertati alcuni casi di un morbo che, ai sintomi della peste sembrava sommare i caratteri di una nuova malattia nota con il nome di sifilide. La casa era stata confiscata a seguito di una condanna penale che era stata inflitta ai gestori e proprietari dell’infame osteria, ma il clamore e la paura che quella notizia avevano suscitato in tutta Ferrara erano stati così eclatanti che nessuno aveva voluto più abitare in quella casa, soprannominata dopo la chiusura, la casa colombiana.

Fu lì che il vice legato Pasini Frassoni decise di sistemare l’emissario spagnolo del cardinale Garzia Mellini e il suo seguito. Ed è certo che don Pedro Domingo Mendoza Martinez, se anche avesse mai saputo la storia degli alloggi a lui riservati da quel referente togato, non avrebbe avuto alcuna riserva ad occuparli, tanto più che quella nomea popolare, ai suoi orecchi, sarebbe suonata come un’eco delle prodigiose gesta dei suoi valorosi antenati conquistadores.

 

 

 

sabato 22 febbraio 2025

Il Manuale del Perfetto Orologiaio

 


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Capitolo Terzo

 

 

 

«E tu come ti chiami?»

«Sono Giuditta, la nipote dell’Anselmo».

«Io però non ti avevo mai visto prima d’ora».

«In effetti non è da tanto che sto qui al Magazzino ad aiutare lo zio…»

«Eh sì che ti avrei notata se ci fossi stata. Non puoi passare mica inosservata, sorbole!»

Giuditta fu lusingata da quelle parole. Lei ci era abituata ai complimenti, anche se era strano che a farglieli fosse quella donna dall’accento così buffo e dal fisico mastodontico. Fuori lo sciabordio dell’acqua, senza soluzione di continuità, segnava lo scorrere del tempo.

«Sei davvero molto bella, lo sai?», aggiunse ancora il donnone dal buffo accento forestiero.

Giuditta, per niente imbarazzata, arrossì non di meno lievemente.

«Mo’ certo che lo sai! Chissà quanti uomini ti han già messo gli occhi sopra!», disse ancora la donna.

«Io mi chiamo Maturina e sono la padrona della casa alla Sconcia, giù al Borgo San Giorgio. Tu sai cos’è la Sconcia, nevvero?»

Giuditta lo sapeva. E non soltanto perché nei registri di magazzino figurava quel nome per la fornitura del sapone e di certe pezze di lino. Aveva sentito quel nome in bocca a molti uomini. Tra i tanti complimenti ricevuti, lontano dalle orecchie attente di Anselmo, c’era stato persino qualcuno che le aveva confessato che neanche alla Sconcia aveva visto una ragazza più bella di lei.

Ma Giuditta aveva imparato ad ascoltare senza rispondere.

«Se un giorno ti stancassi di fare la magazziniera a tuo zio, vienimi a trovare alla Sconcia. Per una ragazza bella e sveglia come sei tu, avrei una proposta che è qualcosa più di una semplice offerta di lavoro!»

«Ci penserò!», rispose in un modo sicuro Giuditta, finendo di conquistare l’anziana donna. Poi, udendo la voce di Anselmo che cercava la nipote, le due donne passarono a parlare della commessa che la Maturina era venuta a fare per la sua Sconcia.

Giuditta Maier aveva da poco compiuto 18 anni e da due anni, da quando era rimasta orfana, stava nella casa dello zio, che l’aveva ospitata insieme ai suoi fratelli più piccoli.

Suo padre Jacopo, discendente di una delle più ricche famiglie di conversos fuggite alla persecuzione dell’inquisizione spagnola e rifugiatesi a Ferrara dopo il decreto di espulsione del 1492, era un affermato commerciante di tessuti e filati e si trovava nelle Fiandre con sua moglie, per una delle numerose fiere internazionali che da tempo ormai attiravano in quella ricca regione  numerosi commercianti da tutto il mondo, quando entrambi vennero aggrediti e uccisi.

Aveva conosciuto sua moglie, Olimpia Zatterini, la madre di Giuditta e degli altri cinque figli maschi, nel corso di uno dei tanti contatti commerciali che intratteneva con la famiglia di lei, che poco a poco si era costruita una piccola flotta di barche e navigli, grazie alla quale gestiva molti dei traffici di merci lungo il fiume Po e dal suo delta lungo le coste dell’Adriatico anche sino a Venezia e ai suoi mercati.

Era bastato che una sola volta i loro sguardi si incrociassero e quella ragazza dalla figura slanciata e formosa l’aveva subito conquistato.

Il padre di Olimpia, concordate le modalità dell’unione e l’entità della dote, aveva comunicato alla figlia la sua volontà di maritarla al facoltoso mercante e le nozze erano state celebrate dopo i doverosi preparativi.

Nonostante i quasi venti anni di differenza il loro matrimonio poteva dirsi riuscito ed era stato allietato subito dalla nascita di Giuditta, seguita, come già detto, a cadenza biennale, da cinque figli maschi: Rubio, Daniele, Marco Levi, Giuseppe e Beniamino.

Giuditta aveva preso il fisico della madre: le lunghe gambe e la vita stretta, che non abbisognava di cinture e corsetti per mettere in risalto il petto sodo e prosperoso, slanciavano in alto la sua figura, valorizzando la sua fronte alta e la folta chioma bruna. Ma quest’ultima, così come gli occhi scuri, le labbra carnose e il naso aquilino, la cui misura era percepita in modo attenuato grazie agli zigomi assai alti e pronunciati, doveva averli ereditati dalla complessione paterna, dato che la madre era piuttosto chiara di carnagione e con un visino dai lineamenti assai delicati, seppure innestati nel fisico slanciato già descritto all’attento lettore.

Anche il carattere di Giuditta era un sicuro retaggio della linea paterna: forte, determinato, volitivo, introspettivo, ingegnoso, empatico e con un innato fiuto per gli affari.

Uno zio materno di nome Anselmo, scapolo trentacinquenne, l’aveva presa con tutti gli altri cinque nipoti maschi, nella sua casa di Pontelagoscuro, un’ampia costruzione di due piani che aveva annessi i magazzini della flotta fluviale Zatterini.

In quei magazzini arrivavano via terra parte le merci che il ducato d’Este allora esportava (mais, riso, pesce, filati e cotone) e vi confluivano, dal fiume,  alcune delle le merci importate: sale, carta, spezie, maioliche,  grano (quando le ricorrenti carestie lo imponevano) ed altri alimenti.

Fu da quei magazzini che piano, piano Giuditta, si sentì attratta, come per vocazione o per destino, anche se lo zio Anselmo l’aveva intesa avviare al vertice dell’amministrazione della casa, come si conveniva ad una donna di quella condizione sociale, in quella precisa epoca.

E fu lì che una sera, mentre suo zio le spiegava i criteri di stoccaggio e classificazione delle diverse merci che confluivano nello sterminato magazzino, e lei lo seguiva con quel suo sguardo attento e vivace, che si sentì addosso, per la prima volta, le mani tremanti e bramose di un uomo.

Giuditta, superato con un guizzo repentino della mente il primo istante di smarrimento, lo lascio frugare a suo piacimento tra le pieghe delle sue vesti.

La sua mente fredda e razionale, guidata dal suo istinto femminile, andava percependo che quella concitazione frenetica e ansimante, che lei prese subito dopo ad assecondare con improvvisata ed istintiva accondiscendenza, poteva fornirle uno smisurato potere sugli uomini. E questo le piacque, trovandone conferma quando lo zio, smettendo di dimenarsi, cadde sfinito ed appagato sopra di lei. In quel contatto finale, più che durante l’amplesso, Giuditta, senza che pronunciasse una sola parola, avvertì il tacito ringraziamento che il corpo rilassato di suo zio tributava al suo, riacquistando il suo respiro regolare, quasi assopendosi, dimentico della realtà e per un lungo istante rapito in un’altra dimensione e in un altro tempo.

E fu ancora lì che aveva conosciuto Maturina, un giorno che era venuta a visionare certi filati e certe stoffe che le occorrevano per gli arredi della sua casa di tolleranza, lì alla Sconcia del Borgo San Giorgio di Ferrara.

Quando, due anni dopo quell’incontro, suo zio le comunicò che aveva parlato con il vicario diocesano e che sarebbe stato agevole, previo pagamento di un congruo compenso, ottenere una dispensa per poter celebrare il loro matrimonio (data la stretta parentela esistente), Giuditta si ricordò dell’offerta che aveva ricevuto, quel giorno che si erano conosciute, da quella strana donna dal buffo accento forestiero.

Fu proprio allora che capì che era giunto il momento di andare a parlare di affari alla Sconcia di Maturina.

 

 

 

 

 

 

Il Manuale del perfetto orologiaio

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