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Capitolo
nono
Nei giorni seguenti Dario,
spesso, era tornato al fiume. Si sedeva nella stessa posizione di sempre, da
dove poteva osservare il luogo dove il vecchio aveva tagliato le sue canne e i
giunchi di vimini da intrecciare, ma inutilmente scrutò il fiume mentre fumava;
il vecchio non comparve.
E se si fosse sentito
male? Forse era suo dovere andare alla sua capanna a vedere se avesse bisogno
d’aiuto. O forse no, concluse sempre tra sé, magari il vecchio lo avrebbe
giudicato un atto di invadenza.
Intanto era passato un
mese intero. Una volta alla settimana Marino tornava all’ovile con altre
notizie e altri giornali.
Arrivava sempre di giovedì
e ripartiva di sera, dopo avere trascorso la giornata all’ovile di Doddore. Dai
loro discorsi, Dario aveva capito che c’era una grande eccitazione nell’aria,
nonostante le trattative per la formazione della colonna sarda delle Brigate
Rosse procedessero a rilento; così come quelle per il pagamento del riscatto.
A questo riguardo pareva
che il padre del suo amico, il professor De André, non volesse pagare i due
miliardi richiesti. Ma erano in corso delle trattative. Forse si sarebbero messi d’accordo per una cifra inferiore. Anche se un quotidiano locale
riportava un’allarmante notizia secondo la quale De André e Dori Ghezzi erano
stati giustiziati, la maggior parte dei giornali riportava informazioni più
incoraggianti. “Accordo raggiunto al ribasso per la liberazione di De André” pubblicava
un quotidiano isolano. Un altro aveva un titolo meno perentorio. “Accordo
raggiunto per seicento milioni con i sequestratori?” Il sottotitolo spiegava
che si trattava del sequestro De André. Complessivamente Dario si sentì
sollevato. Forse sarebbero arrivati meno soldi per le casse delle brigate
sarde, ma il suo amico d’infanzia e la sua amata compagna non erano in pericolo
di vita.
Però occorreva stare attenti, perché c’era in
campo una figura pericolosa. Giudice sceriffo lo chiamava Marino nei suoi
resoconti, anche se i giornali usavano altre definizioni. Per le trattative era
stato incaricato un sacerdote. Dalla lettura dei diversi giornali, tuttavia, il
giovane aveva capito che i giornalisti scrivevano per riempire degli spazi
vuoti ma non sapevano un belin di niente. Gli articolisti oscillavano da
teorie giustizialiste a quelle sociologiche, secondo l’orientamento politico
della loro testata e venivano intervistati, di volta in volta, esperti,
magistrati, ex sequestrati, pentiti e politici.
Avrebbe voluto che la
prigionia del suo amico Fabrizio fosse già finita. Si sentiva più responsabile
di quanto non fosse in realtà. Lui non avrebbe mai fatto sequestrare il suo
amico. A volte pensava che non avrebbe mai voluto rapire nessuno. Quel reato
gli pareva odioso, tanto quanto gli era sembrata terribile l’esecuzione di quel
sindacalista alla quale aveva partecipato, anche se non aveva sparato.
Più ci pensava e più si
sentiva vile e inadeguato. Non voleva, ma lo permetteva e non faceva niente per
evitare che il male accadesse. Ma infine, che cos’era questo male? Non è per
caso che gli avessero inculcato, come un lavaggio del cervello, il concetto di
male, giusto per impedirgli di combattere la rivoluzione? Era quello dunque ciò
che aveva predisposto per lui e per i poveracci come lui il potere costituito?
Un bel senso di colpa e dei freni inibitori per preservarli dalle
contestazioni, dalle rivoluzioni, dalle proteste violente che potessero
spodestare i potenti dai loro scranni di potere! Lui nella rivoluzione ci
credeva. Lo aveva capito che senza la violenza non ci sarebbe stato il
cambiamento, era la storia degli eventi umani a dimostrarlo. Se davvero lo
voleva, doveva seguire la strada della rivolta e per il mutamento radicale doveva
perseguire il cammino della violenza. Ci sarebbe riuscito soltanto qualora si
fosse liberato dai condizionamenti che la società gli aveva inculcato!
A volte gli sembrava che
la testa gli scoppiasse, quando pensava troppo intensamente a queste cose.
Soprattutto nel pomeriggio, quando gli altri dormivano e lui si stendeva nella
sua branda a leggere quei giornali e quelle riviste che parlavano di Fabrizio e
di Dori, ricordando la loro prigionia come un’infamia che lo Stato avrebbe
dovuto interrompere.
Anche se settembre stava
per finire il clima si era mantenuto gradevole. Poche piogge e molto caldo,
soprattutto durante la giornata.
Quel giorno decise che si
sarebbe recato dal vecchio. L’impulso era più forte che mai. Sentiva di doverlo
fare.
Quando giunse in vista
della capanna rimase incerto sul da farsi. Non osava entrare, né se la sentiva
di interrompere quel silenzio, che gli sembrava quasi solenne, con dei
richiami.
Tutto a un tratto vide
comparire un mulo, un cane e dietro di loro il vecchio.
Dario gli rivolse un
cenno di saluto con la mano. L’uomo rispose con un gesto impercettibile, come
se scacciasse una mosca. Scaricò il mulo dai contenitori che gli pesavano sul
groppone e li ripose nella capanna. Poi lo liberò dal basto e si avviò verso il
riparo di frasche che doveva ospitare sicuramente l’animale.
Dopo un po’ di tempo fu
di ritorno. Sempre in silenzio rientrò nella capanna, ma ne uscì quasi subito.
Aveva in mano uno sgabello, un piccolo cestino e un pezzo di legno ritorto,
forse una radice, che Dario non distinse bene.
«Questo è il tuo» gli
disse dopo che si fu seduto, consegnandogli il piccolo cestino di vimini. Il
giovane sussultò, era la prima volta che sentiva la voce di quel vecchio. Quella
voce aveva qualcosa di strano ma sul momento non seppe dare una spiegazione a
quel pensiero. Era certo però che avesse parlato, anche se lui quella voce non
se l’aspettava, avendo in precedenza, pensato che fosse muto. Intanto aveva
preso quel cestino per il manico di canne intrecciate e ringraziava il
donatore, lodando la fattura del piccolo manufatto e ringraziandolo ancora e quasi si schermiva, per l’incredulità e la
felicità che provava per quel piccolo dono inaspettato. Si sentì in colpa per
avere giudicato male quello strano uomo, per
quel suo aspetto ispido e selvaggio. La sua voce, poi, era risuonata suadente,
quasi dolce, nel porgergli quel regalo inatteso.
Il vecchio si mise a
sedere sulla solita pietra a forma di sedile ed estratto un coltello dalla
tasca si mise a lavorare il pezzo di legno che aveva portato fuori insieme alle
altre cose. Dario si accostò per osservare da vicino il lavoro dell’uomo. Notò
l’abilità dell’uomo nell’intagliare il legno. Nelle sue mani, il pezzo del
legno andava assumendo una forma di croce, ma non sembrava avere le sembianze
di un manufatto di fede cristiana. Sul
davanti nella parte centrale, mostrava infatti due piccole protuberanze a forma
di seno e nel complesso aveva una forma arcaica.
«Posso chiedervi cosa
state scolpendo su quel pezzo di legno?» chiese dopo un po’ che osservava. Gli sembrava
di riconoscere la figura della Mater Mediterranea che Marino gli aveva
illustrato con orgoglio al Museo Archeologico qualche tempo prima.
«Sto raffigurando mia
madre.»
Soltanto adesso si rese
conto che il vecchio aveva parlato in spagnolo.
«Ma voi… siete spagnolo
per davvero?» esclamò il giovane con sorpresa, non sapendo bene come formulare
la sua domanda.
«Non tutti quelli che
parlano il castigliano sono per forza spagnoli» ribatté il vecchio riprendendo
il lavoro. «Preferisci che ti parli in sardo?» aggiunse subito dopo,
interrompendo nuovamente il lavoro. Per la prima volta Dario gli lesse in viso
un’emozione che giudicò spiritosa, se non proprio maliziosa.
«No. Lo spagnolo l’ho
studiato a scuola e lo capisco un poco. Invece, di sardo conosco soltanto
qualche parola in sassarese.»
«Come mai?»
«Mia madre era di
Sassari. Ho ancora qualche cugino lassù».
Il vecchio sembrò quasi
pentito di avere posto quella domanda e tacque, immergendosi nuovamente nel suo
lavoro di incisione. Presto il giovane ebbe la conferma che quella scultura in
legno rappresentava veramente una madre mediterranea. Era bellissima.
L’anziano la osservò
soddisfatto. Poi, si alzò per andare dentro la sua capanna. Quando ne uscì
aveva in mano un altro legno ritorto. Stavolta Dario riconobbe una radice. Il
vecchio cominciò a lavorarla con il suo coltello. Notò quanto fosse sublime l’abilità
di quell’uomo nell’intagliare il legno. Aveva iniziato a lavorare una delle
protuberanze, quella centrale. Con dei tagli secchi ridusse quella sporgenza e
la sagomò. Sembrava la forma di un naso. Poi continuò a lavorarci, arrotondando
e scavando.
«Costruite un’altra
madre?» gli chiese a questo punto.
«No, casomai, potrebbe
essere mio padre. Si tratta di una
maschera.»
«Una maschera di
carnevale?»
«Sì, più o meno» rispose
in modo alquanto vago, riprendendo il suo lavoro di intaglio.
Decisamente quell’uomo
non era un chiacchierone. Dario si sentiva a disagio. Non riusciva a stare in
compagnia di una persona senza parlare. Il vecchio, invece, sembrava
perfettamente a suo agio, concentrato nel suo lavoro, era come se fosse solo.
Si era fatto tardi per lui e decise di rientrare all’ovile.
«Arrivederci e grazie
ancora per il cestino» lo ringraziò accommiatandosi.
Aveva in mano anche lo sgabellino di legno su cui era stato seduto.
«Poggialo pure per terra»
gli disse il vecchio continuando a lavorare.
«Va bene. Allora vado» rispose poggiando lo sgabello quasi al suo
fianco.
«Addio» disse l’anziano
senza distogliere lo sguardo dal suo manufatto. «E torna quando vuoi» gli gridò
quando era già a una certa distanza.
Dario si voltò,
sorridente per quell’invito tardivo e inaspettato. Ma l’altro appariva già concentrato
nel suo abile intarsio.