domenica 14 settembre 2025

Il Manuale del perfetto orologiaio

 



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Capitolo Sesto

Don Pedro Domingo Mendoza Martinez era un vero e proprio hidalgo, intransigente e irreprensibile. Discendente dei Conquistadores  che nel secolo precedente avevano assicurato alla fede cattolica la parte centrale  e buona parte di quella meridionale del continente americano, nutriva la stessa cieca convinzione sulla infallibilità della dottrina e della fede cattolica, che aveva spinto  i suoi antenati alla conquista di nuove terre oltreoceano,  anche se, per uno strano gioco del destino, o forse perché la sete di oro del suo casato era stata già appagata, al contrario dei suoi illustri e avventurosi ascendenti, egli non nascondeva altri retro pensieri, dietro al suo fanatismo religioso, all’infuori della sua patria e del suo re.

Odiava tanto i mestizos  ed i conversos,  quanto i riformisti e gli eretici di ogni sorta. Per contro  amava il suo sovrano e i principii della fede cattolica. Ed era disposto a dare la sua vita pur di difendere la purezza della religione contro chiunque ne avesse messo in discussione l’assoluta preminenza. Per questo aveva accettato di entrare al servizio della Congregazione in difesa della Fede Cattolica. Ed era stato immesso direttamente dal re di Spagna nei ranghi dell’Inquisizione.

Nei primi anni, ancora giovanissimo, era stato istruito sulle tecniche investigative e su quelle dell’interrogatorio, che spesso sfociavano nella tortura, ogniqualvolta l’inquisito si rifiutava di confessare le sue eresie e di pentirsi, promettendo di seguire ciecamente gli insegnamenti di Madre Chiesa.

Poi, col tempo, era stato utilizzato come agente operativo, nei territori dell’immenso impero ispanico, coperto dall’immunità diplomatica ma ancora inquadrato nei ranghi della temibile e potente inquisizione spagnola.

Tenoch Tixtlancruz era il nome cristianizzato dell’impronunciabile appellativo patronimico di un discendente diretto di un guerriero Azteco,  sbarcato  con Colombo a Cadice,  al termine del suo secondo viaggio nelle Indie (o quelle che lui credeva tali ma che poi si rivelarono essere le Americhe).

Attraverso vari incroci con la stirpe iberica, ne era venuto fuori un gigante alto quasi due metri, con il naso schiacciato, le labbra prominenti e una testa enorme che i capelli corvini, tagliati corti, rendevano ancora più grande. Agli orecchi portava due orecchini di foggia azteca e gli occhi grossi e neri cerchiati di sangue suscitavano terrore solo al vederli. Don Pedro lo chiamava semplicemente Tenoch ed era praticamente il suo braccio armato. Era lui che provvedeva, invero assai volentieri, agli esercizi della tortura cui erano sottoposti gli eretici prima di confessare o di morire colpevoli e dannati (la non confessione non era contemplata nel dizionario del truce torturatore).  Seppure orami convertito al cattolicesimo, aveva conservato della sua stirpe originaria, e della classe dei guerrieri a cui suo bisnonno si vantò sino alla morte di essere appartenuto, l’animo truculento, lo spirito di abnegazione e di sacrificio per il suo credo, una forza erculea e una fiducia incrollabile nel potere costituito, di natura civile o religioso che esso fosse.

Nella sua mente, il racconto della Creazione del libro della Genesi con cui era iniziata la sua educazione cattolica, sostituiva in maniera impeccabile e perfetta, le avite credenze sulla potenza del sole e delle stelle. Si convinse da subito che quel Dio Onnipotente e Sempiterno era lo stesso Sole che avevano adorato i suoi avi o, quantomeno, un parente assai prossimo, se non proprio il padre, il Creatore, per l’appunto.

Portava con sé, ovunque andasse, un baule di legno dentro il quale custodiva le sue pinze strappa seni (che non disdegnava di utilizzare anche per schiacciare i testicoli dei prigionieri più riottosi), un imbuto di metallo, un otre della capacità di tre litri (con cui somministrava agli eretici l’acqua in dosi, sino al numero di sei) e una serie di funi e carrucole per lo stiramento delle ossa dei poveri malcapitati nella stanza delle torture dell’Inquisizione.

Completava il terzetto ispanico, come già detto, Padre Alonso Ramirez de Barranquilla, un gesuita che aveva in comune con i due compagni di viaggio soltanto la fede nello stesso Dio (anche se a volte lui stesso dubitava che si trattasse davvero del medesimo Dio). Anzi, forse la sua presenza nel trio si giustificava proprio per la sua diversità che, in qualche misura, fungeva da calmiere della passionale intemperanza dei suoi compagni di viaggio.

In effetti lui era con loro per consolare e per confessare i prigionieri; e per convincerli che sarebbe stato inutile resistere e che era meglio pentirsi e riconciliarsi con Dio.

Davanti ad una confessione piena e incondizionata le torture non avevano più senso di esistere e dovevano cessare immediatamente. E lui, con la sua autorevolezza, otteneva che cessassero.

Di fronte al pentimento e al ravvedimento il prigioniero non era più un reietto da punire, una carne da macellare, una potenza demoniaca da dissolvere nei tormenti dell’espiazione; al contrario, il torturato si tramutava, per grazia evangelica, in un figliol prodigo, tornato alla casa del padre a capo chino, desideroso solo di essere riaccolto e perdonato.

E se l’atto di riconciliazione, sancito dall’assoluzione che Padre Ramirez non disdegnava di elargire con ampi gesti della mano e con la formula solenne in latino e che il Servo di Gesù comunicava raggiante ai due torturatori, non esonerava il povero disgraziato dalla punizione umana, il perdono divino, pur tuttavia, lo riabilitava nella sua dignità umana, riscattandolo da quei recessi di ignominia e degrado in cui era precipitato con il peccato, restituendolo al consorzio cristiano, ridandogli lo status di figlio di Dio e come tale,  inviolabile nella sua sacralità filiale.

Ed ogni volta che questo accadeva (praticamente sempre, o quasi sempre) il buon gesuita sentiva che le sue sofferenze, il suo disagio, la ripugnanza stessa che quelle torture e quei torturatori procuravano alla sua anima sensibile e pia, trovava un’equa compensazione nel riscatto di quell’anima recuperata alla salvezza eterna.

E poco importava, a quel punto, se gli infelici malcapitati fossero stati, all’origine, innocenti o colpevoli.

 

 

 

 

 

mercoledì 20 agosto 2025

Il manuale del perfetto orologiaio







Capitolo Quinto

«Eccellenza, gli ospiti spagnoli sono giunti e chiedono di essere ricevuti», disse il primo segretario con una certa agitazione nella voce, affacciandosi alla porta dello studio che il vice legato aveva lasciata aperta in attesa dell’arrivo di quegli ospiti lungamente attesi.

«Finalmente! È tutto il santo giorno che li aspetto», disse rivolto al suo interlocutore, interrompendolo. Poi, rivolto al suo braccio destro aggiunse: «Falli accomodare e poi recati subito in sala da pranzo. Che tutto sia pronto a dovere per il desinare degli ospiti!»

Un uomo dal fisico atletico e dall’età indefinibile e apparente, tra i quaranta e i cinquant’anni, fece il suo solenne ingresso nell’ufficio. Seppure non tanto alto, aveva un passo marziale, in linea con la foggia dei suoi abiti, che avevano qualcosa di militaresco. La barba e i baffi, ben sagomati, erano neri e leggermente spruzzati di grigio, come la sua folta capigliatura. Che fosse un militare venne confermato dal colpo di tacchi che diede, scattando sugli attenti, per presentarsi al padrone di casa, andatogli incontro in segno di accoglienza e rispetto.

«Don Agostino Barozzi ho il piacere di presentarvi don Pedro Domingo Mendoza Martinez, inviato di sua maestà il re di Spagna Filippo IV! Don Pedro, lasciate che vi presenti il Presidente del Tribunale dell’Inquisizione di Ferrara, confermato in sede da Sua Santità, il nuovo papa Urbano VIII», disse subito dopo avere dato il suo caldo benvenuto all’ospite ed essersi a sua volta presentato, volgendosi all’indietro verso l’ imponente figura di un religioso vestito di bianco.

All’Hidalgo don Pedro, quell’accoglienza in pompa magna, piacque soltanto a metà. Apprezzò l’utilizzo della lingua spagnola, che i due prelati italiani, da buoni diplomatici, padroneggiavano assai bene. E gli piacque, tutto sommato, la figura rotonda e gioviale del vice legato. Forse perché lo superava in statura; inoltre la sua stretta di mano, debole e soffice, denotava un carattere poco bellicoso, anche se gli suggeriva, per esperienza, di guardarsi le spalle dalle sue azioni segrete.

Ciò che più di tutto lo mise a disagio, anche se soltanto a un livello epidermico, fu però quel domenicano, dall’aspetto troppo fiero e troppo gaudente, per quel suo ruolo di inquisitore.

«Ma, come mai, siete solo, eccellenza?», chiese Pasini Frassoni guardando oltre le spalle dell’hidalgo spagnolo.

«Il mio servitore non ama le riunioni conviviali; e padre Alonso de Barranquilla si è trattenuto in carrozza per completare i suoi vespri», disse il cavaliere spagnolo. «Vi sarei grato se ci poteste fare accompagnare ai nostri alloggi. So che il nostro comune amico vi ha raccomandato l’esigenza di una nostra autonomia».

«È tutto pronto, in tal senso. Tuttavia, il nostro comune amico, non mi perdonerebbe mai se vi facessi andar via senza avervi invitato a mangiare qualcosa con noi, dopo un così lungo viaggio! Vi farò accompagnare ai vostri alloggi subito dopo cena».

«Permettetemi allora che io vada a chiamare il mio accompagnatore e assistente spirituale Padre Alonso de Barranquilla e a dare disposizioni al mio servitore!» disse l’hidalgo ringraziando l’ospite per la sua gentilezza.

«Non incomodatevi, manderò uno dei miei servi» lo incalzò Pasini Frassoni.

Non aveva tuttavia finito di parlare che un sacerdote, alto e magro, rigorosamente vestito di nero, fece il suo ingresso nell’ufficio del vice legato. L’uomo fece sparire il suo breviario nelle capaci tasche della tonaca prima di presentarsi. Nonostante la sua giovane età, il gesuita mostrava una grande sicurezza.

Il tempo di fare le presentazioni del nuovo venuto che Don Giuseppe si affacciò sulla soglia.

«In sala è tutto pronto per la cena!», disse rivolto al suo diretto superiore.

«Benissimo. Don Giuseppe accompagna i nostri ospiti a rinfrescarsi dal viaggio e poi portali in sala da pranzo», ordinò il padrone di casa. «Volete che faccia chiamare il vostro servitore?», aggiunse poi rivolto ai due nuovi arrivati.

«Non c’è bisogno. Ha con sé delle cose personali che non lascerebbe mai incustodite; e poi, come vi ho già detto, non è un tipo che ama troppo le compagnie numerose» lo giustificò l’hidalgo.

«Piuttosto non sarebbe male fargli arrivare qualcosa di caldo da mangiare», interpose il padre gesuita.

«Non si preoccupi. A questo provvederò immediatamente io», lo rassicurò il padrone di casa.

Poco dopo i quattro si ritrovarono in una sala dove troneggiava una tavola imbandita di tutto punto. Il vice legato e il presidente del tribunale avevano atteso in piedi i loro due commensali.

«Prego accomodatevi. Spero vi piaccia la cucina italiana», disse il vice legato indicando agli ospiti i loro posti.

Dietro ogni sedia vi era un cameriere, che prontamente facilitò la loro seduta, scostando opportunamente le sedie dietro di loro.

«Amiamo abbastanza la vostra gradevole cucina, ma a tavola vorrei parlarvi di alcune cose alquanto riservate», rispose l’Hidalgo, posando il suo sguardo sospettoso sui camerieri.

Con un cenno degli occhi Pasini Frassoni licenziò i quattro camerieri. Intanto il coppiere aveva iniziato a versare il vino nei calici. Gli occhi intensi dello spagnolo si posarono su di lui, più che sul contenuto che aveva versato nei calici.

«State tranquillo don Pedro, si tratta di un fido servitore sordomuto», lo tranquillizzò il vice legato.

L’hidalgo annuì con un cenno d’intesa, cominciando a intuire la sottile intelligenza che animava il suo anfitrione italiano.

«Vi do il benvenuto con questo Savignon, tanto per iniziare», disse Pasini Frassoni levando in alto il calice. «Propongo questo primo brindisi in onore del re di Spagna», aggiunse subito dopo, mentre i calici tintinnavano.

«Al re Felipe e al papa Urbano», aggiunse Padre Alonso de Barranquilla.

Dopo il brindisi il padrone di casa invitò i commensali ad assaggiare il primo piatto, che lo stesso mescitore sordomuto, in mancanza di altro personale, provvide a versare nei piatti, attingendo da una zuppiera che troneggiava al centro della tavola.

Un gradevole profumo di zucchero e di latticini si levò dalla zuppiera e dai piatti fumanti.

«Buono davvero questo riso alla turchesca!», commentò per primo don Agostino Barozzi, che era un vero buongustaio.

«Il cuoco lo ha arricchito anche con farro e mandorle» disse il padrone di casa, apprezzando il complimento del suo connazionale.

«Davvero saporito», convenne il gesuita, sorridendo. Aveva dei denti piccoli e scuri, ma il suo sorriso denotava un animo gentile. Evitò di dire che lo avrebbe gustato meglio con un cucchiaio di legno, ma in fondo si era già rassegnato alle usanze italiane.

«Prima di tutto vorrei parlare del mio metodo di lavoro» disse don Pedro rivolgendosi al vice legato. Il padrone di casa annuì, notando che l’hidalgo, per niente in imbarazzo nell’uso della forchetta e del tovagliolo, aveva appena assaggiato il gustoso primo piatto.

«Non vi è piaciuto il riso?» chiese non di meno al suo ospite.

«È saporito, forse anche troppo, per il mio palato. E poi presumo che abbiate degli altri piatti da farci gustare. Mi voglio riservare uno spazio anche per dopo», rispose l’hidalgo gustando ancora un po’ di vino, per fare onore comunque alla buona tavola imbandita per lui.

Come evocato dalle parole dello spagnolo comparvero due camerieri che portavano due vassoi di arrosti: uno colmo di crostacei e di pesci del Po, l’altro di carni bianche. L’hidalgo, che aveva fatto cenno di continuare il suo discorso sulle sue modalità operative, si era bloccato all’apparire dei due camerieri.

Aspettò pazientemente che il dapifero trinciasse i fagiani e mondasse abilmente i pesci della portata. L’hidalgo, per tutto il tempo gli aveva tenuto gli occhi addosso. Con un cenno eloquente di congedo, Pasini Frassoni li congedò tutti e tre. Poi, sempre senza parlare, fece intendere al coppiere che era ora di cambiare calici e qualità del vino. Con gesti rituali il sordomuto provvide a colmare i nuovi calici di cristallo di un liquido rosso rubino.

«Ho pensato che con gli arrosti il vino più adatto fosse il Fortana».

«Ottima scelta», convenne don Agostino, che aveva già bevuto dell’acqua, dopo avere vuotato il calice del vino bianco e, soprattutto, il piatto di riso e farro.

L’hidalgo sollevò il calice per un ulteriore brindisi. Sembrava quasi rassegnato a quel cerimoniale ma si vedeva che i suoi interessi e la sua testa stavano da un’altra parte.

«Come vi dicevo», riprese infatti dopo avere gustato un piccolo sorso di rosso «io ho bisogno di una certa autonomia nel mio lavoro di indagine».

«In che senso?», interpose don Agostino dopo avere fatto schioccare la lingua sul palato, in segno di apprezzamento per il gusto del vino Fortana.

«Nel senso che noi seguiamo i nostri metodi e le nostre procedure in maniera autonoma. Per questo abbiamo chiesto un alloggio ampio e isolato» disse don Pedro Domingo Mendoza Martinez, sempre rivolto al vice legato. Non poté fare di osservare, comunque, con quanta lascivia il domenicano ingurgitasse i gustosi gamberoni di fiume.

«Però voi sapete che potete contare su di noi per ogni tipo aiuto. Il nostro comune amico mi ha raccomandato di non negarvi alcun appoggio possiate necessitare per il successo della vostra missione».

«Vi ringrazio e conto davvero sul vostro appoggio, soprattutto dandomi le opportune informazioni sull’Accademia capitanata da quel Pietro Marino De Regis segnalatami dal mio illustre committente e sui suoi indegni sodali».

«Potete contarci in toto, don Pedro», lo rassicurò il vice legato.

«Quanti soldati mi potete mettere a disposizione?», rilanciò subito lo spagnolo, dimostrando di voler subito giungere al sodo.

«Ho già pensato anche a quello. Alla fortezza del Barco vi è un plotone di soldati che si alternano nell’arco delle ventiquattrore. Il comandante, per mio incarico, è già stato informato del vostro arrivo».

«Sa già che lui e i suoi uomini saranno sotto il mio diretto comando per tutto il tempo in cui starò qui in missione?»

«Sì, certo. Glielo preciserò ulteriormente, se ci tenete»

«Certo che ci tengo. E vi ringrazio per ciò che farete per assicurarmi la più ampia autonomia».

«Ma non è che sorgano poi problemi di giurisdizione con il nostro comune amico? Sapete bene quanto egli sia geloso delle prerogative e delle competenze dell’umile ufficio che qui rappresentiamo…», intervenne a dire don Agostino, ch’era già passato a degustare i fagiani arrosto.

Don Pedro capì che un uomo di legge come il vice-legato poteva restare influenzato dal discorso del domenicano che, evidentemente, non era soltanto un mangione. Ma lo spagnolo conosceva bene l’animo umano e sapeva come muoversi anche sul piano dialettico.

«Anche io sono soltanto un umile servitore del re Filippo IV, ma sono qui per incarico del nostro comune amico onde assicurare alla giustizia divina l’anima di numerosi peccatori eretici. Non è forse così Padre Alonso?»

Il gesuita assentì in direzione dell’hidalgo con uno dei suoi sorrisi intelligenti e mansueti.

«Ma state pur sicuri che dopo il pentimento e la confessione degli eretici, il loro corpo vi verrà consegnato per le giuste punizioni. E con il loro corpo anche i loro beni materiali rientreranno nella loro naturale giurisdizione; e sarete voi ad occuparvene, dal momento della confessione in poi» concluse lo spagnolo con un’espressione del viso che assomigliava più a un ghigno che a un vero sorriso.



Quest’ultimo inciso piacque assai all’ambizioso vicario che in realtà non ce l’aveva con il De Regis in funzione delle sue letture (lui stesso stava consultando avidamente certi scritti di Copernico, rinvenuti negli archivi estensi che in parte erano rimasti a Ferrara dopo la Devoluzione), ma puntava alla confisca delle sue proprietà (indispensabile corollario della sentenza di condanna per eresia in forza delle norme inquisitorie in vigore). Non di meno non volle che il domenicano avvertisse da parte sua una scarsa considerazione per le sue corrette considerazioni e ci tenne a tranquillizzarlo in tal senso.

«State tranquillo don Agostino che provvederò personalmente a informare il nostro comune amico della misura e delle forme con cui abbiamo utilizzato la sua delega nei confronti del nostro ospite, qui in missione per conto di lui!»

Dopo cena il vice legato accompagnò i suoi ospiti in una saletta riservata ove, con grande stupore di tutti, dispiegò sopra un tavolo quadrato, una dettagliata mappa che comprendeva sia la vecchia città medievale, sia l’addizione erculea, comprensiva del tragitto che di lì a poco il terzetto spagnolo avrebbe percorso in direzione dell’edificio che un tempo aveva ospitato l’Osteria del Buon Samaritano.

Pasini Frassoni li informò che li avrebbe fatti accompagnare da Cristoforo Messìppo, un abile cavallerizzo e suo conduttore personale, che avrebbe mantenuto i contatti riservati tra le due sedi. Gli mise inoltre a disposizione, uno scalco- credenziere e due delle sue migliori inservienti, una cuoca e l’altra pulitrice e rassettatrice. Omise ovviamente di informare l’astuto hidalgo che in realtà si trattava di tre fidatissimi agenti della sua segreteria personale, incaricati di riferirgli nel dettaglio tutto quanto sarebbe avvenuto nella sede operativa prescelta per gli interrogatori degli inquisitori spagnoli.

Preso nota di alcune altre fondamentali informazioni sull’Accademia degli Increduli e su Pietro Marino De Regis, Don Pedro Domingo Mendoza Martinez e Padre Alonso de Barranquilla si avviarono nel cocchio personale del vice legato, condotto da Cristoforo Messìppo.

Li seguiva dappresso il carro con le vivande e le masserizie, nonché con il bagaglio della commissione inquisitoria iberica (escluso il bauletto di Tenoch, che lo legò sul dorso del suo cavallo, in sella al quale affiancava il cocchio che conduceva il suo padrone) guidato dallo scalco e credenziere.

Una luna piena e velata li accompagnava.

Messìppo pensò che l’indomani tutta Ferrara sarebbe stata avvolta nella nebbia.

Ma non disse niente. Il suo padrone gli aveva raccomandato infatti di mostrarsi indifferente a tutto e di tutto osservare senza dare nell’occhio.






 

 

 

 

 

 

 

domenica 3 agosto 2025

I miei versi sbarcano a Taranto

https://buonasera24.it/news/controverso/898669/controverso.html


Segnaliamo a tutti i poeti interessati quattro  nuove iniziative dell'importante giornale tarantino "https://buonasera24.it/":

1. la rubrica "Poeti & Versi" sul giornale Il Lucano, 

2. la rubrica "La poesia del venerdì" su International Web Post, 

3. la nuova edizione dell’agenda MemoVerso 2026 con aforismi poetici;

4.  lo spazio recensioni del quotidiano Buonasera24 dedicato a volumi di poesia e narrativa. 

Per maggiori informazioni e modalità di partecipazione, i poeti interessati possono contattare l'organizzatore Gian Carlo Lisi al numero 327 1371380 oppure alla seguente mail: controverso2019@gmail.com

mercoledì 30 luglio 2025

Edificio B, Scala 13

 


https://www.libreriauniversitaria.it/ebook/9791223948750/autore-ignazio-salvatore-basile/ebook-edificio-b-scala-13.htm


Trama Libro Ebook Edificio B, Scala 13

In una società distopica, il regime della Tecnocratura, capeggiata dagli onnipotenti ragionieri - suddivisi in capi, mezzi capi e sottocapi -, detta legge. In una delle innumerevoli città dormitorio, due gemelli di carattere opposto, Giuseppe e Rinaldo Bartoloni, si fronteggiano senza alcuna possibilità di sfuggire alla sorte che il destino ha loro riservato. Nella città dormitorio, un ispettore della polizia tributaria, preoccupato per l'interesse dei media legato alla sparizione di uno dei gemelli, scopre strane incongruenze investigative che, forse, celano i retroscena di una verità che non ha mai un colore ben definito.


Ignazio Salvatore Basile vive a Cagliari. Avvocato, ha iniziato come poeta per dedicarsi poi alla drammaturgia. È membro per meriti artistici dell'Accademia Internazionale “Il Convivio”. Ha composto e pubblicato la "Bibbia in rima" in ventidue volumi.

martedì 29 luglio 2025

Libri per l'estate

 


Mi hanno chiesto quali libri mi sarei portato appresso, partendo per le vacanze. Domanda difficile; quasi imbarazzante.

Se partissi in vacanza, quest'anno, avrei davvero l'imbarazzo della scelta, su quali libri portarmi appresso. Ho appena finito di leggere "Tra il silenzio e il tuono" di Roberto Vecchioni e dello stesso cantautore milanese sto leggendo "L'orso bianco era nero". Ma non mi sarei portato nessuno dei due. Non so bene perché. Forse il primo non è né carne, né pesce, anche se la sua lettura è stata gradevole. Il secondo è un libro sulla linguistica, pur non essendo un trattato di linguistica (come lo stesso autore precisa a più riprese). Magari mi porterei "L'ora del del destino" di Antonio Scurati. Però è troppo voluminoso, seppure di scorrevole lettura. Poi c'è sempre "Guerra e pace" che aspetta di essere finito, ma a questo giro mi è toccato un volume economico, con i caratteri troppo minuscoli per i miei occhi (è la seconda o la terza volta che cerco di finirlo, nell'arco di cinquant'anni). Oppure mi porterei "Diario Notturno" di Flaiano. Si può leggere a spezzoni, anche saltando da un capitolo all'altro, senza problemi, come si dovrebbe fare per le letture estive. Nei tempi andati leggevo Agatha Christie e Conan-Doyle, ma la giallistica ha fatto dei passi avanti e sarebbe meglio puntare su autori più moderni, che tengano e diano conto dei progressi scientifici che ha fatto il mondo dell'investigazione nell'ultimo secolo. Nemmeno Asimov, a pensarci bene, è più d'attualità. L'ho ripreso in mano, da poco. Resta sempre un grande, un classico ormai, però appare datato e mostra tutti i suoi anni.
Per concludere, non volendo rischiare di restare sguarnito e per non correre il rischio di incappare in qualche testo strano, mi porterei la Bibbia, quella della CEI. Anche se, a pensarci bene, la domanda iniziale è stata mal posta.
Oggi, più che un libro in sé, basta che ti porti appresso un ipad o un iphone è il gioco è fatto. Lì trovi davvero di tutto e di più da leggere. A sazietà. Soprattutto se si tratta di classici i cui autori siano trapassati da almeno settant'anni!

domenica 13 luglio 2025

Memorie di scuola

 

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La brillante prova di settembre confermò nei miei genitori la volontà di farmi proseguire negli studi.

Certo il liceo classico me l’ero giocato con il comportamento da scansafatiche messo in atto nel precedente anno scolastico; ma non mi andava neppure di seguire il suggerimento del consiglio di classe che, sin da giugno, aveva raccomandato, in caso di promozione, l’iscrizione alla scuola professionale.

Mia madre non aveva rinunciato alla speranza di vedermi all’università, mentre mio padre sperava di fare di me almeno un contabile per la sua azienda che, con le sue fondate e legittime ambizioni, sognava ancora di ingrandire e potenziare.

Io, dal canto mio, speravo di dimostrare che in matematica non ero poi così scarso e che ero stato ingiustamente penalizzato dal mio carattere irrequieto (e, secondo mia madre, dalla piccineria e dalla mala fede di quel docente, aspirante acquirente di oggetti preziosi rateizzati).

Fu raggiunto così un compromesso che sembrava accontentare tutti: sarei stato iscritto alla Ragioneria.

A quel tempo, nel 1968, per chi dal mio paese volesse frequentare un Istituto Tecnico Commerciale per Ragionieri e per Periti Commerciali (come recitava la pomposa definizione amministrativa delle scuole per ragionieri), doveva recarsi obbligatoriamente a Cagliari. La scuola per ragionieri di Decimomannu, dove poi, ironia della sorte, avrei insegnato discipline giuridiche ed economiche per oltre trent’anni, sarebbe sorta soltanto nel 1983, mentre Sanluri e San Gavino sarebbero state delle sedi ben più distanti e scomode rispetto al capoluogo.

Mia madre mi portò personalmente all’Istituto Pietro Martini, che a Cagliari godeva fama di essere il migliore per formare gli esperti della contabilità.

Ma al Martini non c’era posto e non accettarono la mia iscrizione, in quanto tardiva. Occorre infatti ricordare che a quel tempo l’obbligo scolastico finiva ai quattordici anni e quindi, a gennaio dell’anno scolastico di provenienza, non era obbligatorio per i genitori effettuare un’iscrizione, né per gli istituti superiori accettare le iscrizioni dei ragazzi che frequentavano la terza media. Adesso le cose sono alquanto cambiate, essendo stata elevata a sedici anni l’età dell’obbligo di frequenza scolastica.

Al Martini, con aria di sufficienza, ci dissero che forse al “Leonardo da Vinci” ci sarebbe stato un posto per me (ho scoperto da poco che il pomposo Martini, ha dovuto sloggiare dalla sua sede storica di via Sant’Eusebio per trasferirsi in viale Ciusa 4, dove un tempo c’era proprio il Leonardo da Vinci, oggi accorpato ad altri istituti tecnici per ragionieri).

Al Leonardo da Vinci per fortuna il posto per me c’era. Così venni iscritto in quella scuola.

Il Leonardo da Vinci era sorto successivamente al Martini, in un’area di forte espansione urbanistica, ancora in agro di Cagliari, ma con vocazione a servire gli utenti del popoloso hinterland cagliaritano: la popolosa frazione di Pirri (che da sola contava, sin da allora, oltre 30.000 abitanti); Monserrato, che aveva riacquistato l’autonomia amministrativa dopo i rigori del fascismo, che l’aveva declassato a frazione di Cagliari; Quartu S.Elena, che si avviava a divenire la terza città più abitata della Sardegna (dopo Cagliari e Sassari e prima di Nuoro e Oristano).

In quegli anni, sulle ali del boom economico, il nuovo tessuto commerciale che si era costituito nella nostra Isola (come, ovviamente e ancor di più, nel resto d’Italia) e la voglia di riscatto sociale delle generazioni sopravvissute al Fascismo e alla Seconda Guerra Mondiale, avevano fatto crescere la domanda di una istruzione utile e concreta, con un titolo di studio capace di fornire uno sbocco professionale immediato senza l’obbligo di proseguire negli studi universitari (come era al tempo per quegli studenti che frequentavano i licei). E la figura professionale del ragioniere, così ricca di storia e di fascino, sembrava incarnare l’ideale della nuova classe sociale di commercianti e artigiani, che sognavano per i loro figli, una carriera in banca o in ufficio, con il colletto bianco, le mani pulite e lo stipendio sicuro. Professione oggi purtroppo tramontata, come dimostrano impietose le statistiche del ministero della pubblica istruzione, favorevoli ai licei, da quelli classici, artistici e scientifici, ai più moderni linguistici, pedagogici e musicali. Qualcuno li chiama i corsi e i ricorsi della storia.

Ma all’orizzonte si addensavano delle nuvole cupe e dense: il sessantotto stava per arrivare.

Sin dall’inizio delle lezioni, infatti, trovammo l’ingresso presidiato dai picchetti degli studenti scioperanti che impedivano l’accesso a qualunque studente, lasciando passare soltanto i docenti che non fossero già entrati con l’auto attraverso il carraio.

Le parole d’ordine che giravano tra gli studenti erano diverse e alle mie orecchie di studentello di primo pelo, suonavano quasi come oracoli di una divinità lontana e misteriosa. Alcuni sembravano anche semplici, nella loro formulazione: “Diritto allo studio”; “Scuola per tutti“; altri erano rivestiti di un’aurea quasi mitica:”Fuori i baroni dalla scuola” (più tardi scoprii che lo slogan era rivolto all’università e che il barone Siviller, che al mio paese era stato degradato dai Savoia al loro arrivo in Sardegna, all’inizio del ’700, colpevole soltanto di essere da sempre fedele ai sovrani iberici, non c’entrava per niente); “Assemblea Permanente”; “Potere Operaio”; “Lotta Continua”; “Morte ai fascisti”; “Boia chi molla“.

Insomma gli slogan che si urlavano fuori dalla scuola erano tanti e per me, tutti, o quasi tutti, ancora incomprensibili.

Venivano anche distribuiti dei volantini in ciclostile.

Io li leggevo con curiosità. Mi piacevano quelle cose che c’erano scritte e che parlavano dei grandi sistemi con roboanti paroloni; conobbi così le grandi correnti di pensiero nazionale e internazionale: il capitalismo sfruttatore degli Agnelli; il colonialismo degli USA invasori; il libretto rosso di Mao; la riscossa di Ho-Chi-Min; le speranze rosse, bruciate con Ian Palach nella primavera di Praga.

I miei idoli giravano in Eskimo con il giornale di Lotta Continua sotto il braccio (qualcuno aveva Potere Operaio).

Per soggezione o non so per quale altra ragione decisi che per me era giusto aderire allo sciopero.

Più che capire intuivo, forse con un istinto primordiale, che il mondo era più complesso di come me lo avevano descritto al Catechismo; o di quello che avevo studiato nei miei recenti trascorsi scolastici.

Intuivo che vi erano degli oppressi e degli oppressori; dei ricchi privilegiati e dei poveri, condannati a subire dalla nascita modesta; dei poteri, più o meno occulti, che sfruttavano e godevano le ricchezze del mondo, approfittando dell’ignoranza delle masse indistinte, degli oppiati della religione, di quelli che non capivano i meccanismi complessi del potere; e vi era gente che non si rassegnava e voleva lottare per un mondo migliore.

E io volevo appartenere a quelli che avrebbero lottato per un mondo migliore.

Ero davvero affascinato dai grandi oratori (quelli delle classi superiori) che arringavano noi matricole delle prime classi e tutti gli altri studenti, alla ribellione e allo sciopero.

Nel mio intimo pensavo che un giorno avrei anche io desiderato essere un leader di quel genere ed avere il coraggio di parlare in pubblico, ad alta voce e di organizzare i cortei per la città contro il sistema, contro i corrotti democristiani, contro la guerra nel Vietnam, contro il perbenismo, contro i fascisti, contro le classi sociali, contro il capitalismo che sfruttava gli operai e bruciava il futuro dei giovani.

Insomma, contro tutto e contro tutti. Io facevo miei quegli slogan urlati al megafono e stampati nei volantini.

Tanto per cominciare e per vincere la mia timidezza (nonché per consentire ai miei genitori di risparmiare sull’acquisto dei libri) mi cimentai nella compravendita dei libri usati.

Avevo ancora tanto da fare e da studiare per diventare come loro. E se volevo un domani essere ascoltato dagli altri, anche io dovevo progredire negli studi.

Andò avanti così per qualche giorno fino a quando alcuni signori (più tardi capii che si trattava di agenti della Digos in borghese), spiegarono agli studenti che facevano servizio di picchetto al cancello, che avrebbero dovuto lasciare libero l’ingresso e consentire a chi non avesse voluto aderire allo sciopero, di entrare a scuola.

Anche se, a onor del vero, per non rischiare di venire scambiato per un fascista o, peggio ancora, di venire considerato un boia, attesi prima di rientrare che un buon numero di studenti, vecchi e nuovi, fosse deciso a interrompere la protesta, con la promessa che il Preside avrebbe concesso un certo numero di assemblee per poter discutere i problemi della scuola e di noi giovani studenti, se avessimo ripreso prontamente la frequenza (che per noi “primini” non era invero mai iniziata).

Così scoprii finalmente la mia classe. Si trattava di una prima super affollata. Eravamo oltre trenta, per lo più di sesso femminile. I miei compagni e le mie compagne venivano quasi tutti da Quartu S.E., da Pirri (che, precisavano i Pirresi, è come se fosse Cagliari; anzi “Pirri è’ Casteddu!), Selargius, Monserrato.

Le ragazze avevano ancora l’obbligo del grembiule nero, con il nome e la classe cuciti in alto destra, mentre noi ragazzi, al contrario di quelli del Martini (costretti a recarsi a scuola in giacca e cravatta), non avevamo alcun obbligo di forma nel vestire (l’obbligo sarebbe caduto anche per le ragazze, di lì a poco, quantomeno nel nostro istituto).

Mi ero già affezionato a questa classe allegra e rumorosa; mi ero già innamorato (senza che loro ne sapessero niente) di tre o quattro compagne e di una o forse due professoresse particolarmente giovani e carine. Mi piacevano inoltre le lezioni di italiano, di storia, di inglese; un po’ meno quelle di fisica e matematica, mentre mi affascinarono subito la dattilografia e la stenografia (che più tardi, ma io ero già passato dall’altra parte della barricata, sarebbero state soppiantate dal “trattamento testi” e, più tardi ancora, sino ai nostri giorni, dall’informatica); mi risultò invece ostica la computisteria, che negli anni successivi si trasformava in “tecnica”, e tale antipatia durò per tutti e cinque gli anni e si estese anche alla “ragioneria” (le due materie, oggi, si studiano unificate sotto il nome di “economia aziendale”).

Presto però arrivò la notizia che alcuni di noi sarebbero stati trasferiti e smistati in altre classi di nuova formazione e che un certo numero di classi avrebbe iniziato, con il sistema della rotazione, il doppio turno.

Ci fu spiegato infatti, in maniera alquanto sommaria e sbrigativa, che le aule non erano sufficienti ad ospitare tutti gli iscritti, dato l’alto numero dei nuovi studenti, e quindi, per evitare classi troppo numerose (più tardi si sarebbero definite “classi pollaio”) avremmo dovuto alternarci nella frequenza pomeridiana, dalle 14,30 alle 19,30. Tale turno avrebbe riguardato ciascuna classe, ma soltanto per uno, massimo due mesi, all’anno.

Più avanti negli anni successe invece che alcuni corsi venissero destinati a frequentare di pomeriggio tutto l’anno scolastico.

A parte il sonno, che mi assaliva nei pomeriggi di caldo (da marzo a giugno, grosso modo) non mi potevo e non mi volevo lamentare. D’altronde, potevo stare a letto un po’ di più al mattino, per evitare di addormentarmi sul banco di scuola (cosa che in verità non mi è mai accaduta).

Imparai con piacere tante cose: la stenografia, magica materia ormai scomparsa, la dattilografia, che ha dovuto lasciare il posto alla più complessa e misteriosa informatica; le scienze naturali, la geografia, la matematica, la fisica, la chimica, la computisteria e il francese. Ma le mie materie preferite erano la storia e l’italiano, dove in qualche modo, mi distinguevo. Anche merito della mia professoressa che nel biennio era la moglie di un alto magistrato cagliaritano, molto amorevole, paziente e capace.

La scuola mi piaceva. Ammiravo, in generale, tutti i professori e pendevo dalle loro labbra. Ero assetato di sapere e alle spiegazioni stavo sempre attento, perché volevo apprendere e non mi piaceva essere rimproverato.

Così mi misi a studiare.

A fine anno il preside mi regalò una garzantina in due volumi come premio per essere stato promosso a giugno.

Nonostante le mie idee rivoluzionarie ero ancora un bravo ragazzo.

Nel corso dell’anno, questi scioperi sembravano ricorrenti, a ondate. Sui muri di fronte alla scuola apparvero delle scritte che inneggiavano al Movimento Studentesco e chiedevano di liberare il Vietnam dagli USA.

I più attivi tra gli studenti giravano con un giornale sotto il braccio che si chiamava Lotta Continua.

Io li invidiavo perché portavano i capelli lunghi, vestivano alquanto trasandati e sembravano piacere a certe ragazze carine che io non osavo nemmeno guardare.

Io già da allora cominciavo a soffrire di quegli inevitabili complessi che colpiscono, in misura più o meno evidente, tutti gli adolescenti.

Il mio complesso più grande, in quel primo anno, era la mia statura. Non che fossi proprio “piccolo” (avevo probabilmente già raggiunto il metro e sessanta) ma è probabile che questo complesso ne nascondesse degli altri; ma io desideravo tanto essere uno di quegli spilungoni che giravano con il giornale di Lotta Continua sotto il braccio e che rimorchiavano sulle loro motociclette quelle ragazze appariscenti che io sognavo di notte. Così, per sentirmi più grande e più alto, presi a fumare regolarmente le sigarette che riuscivo a comprare coi pochi soldi della mia paghetta (magari rinunciando al panino della ricreazione).

Una sera di autunno, guardando alla lavagna, mi accorsi che non riuscivo più a leggere nella lavagna (un’altro dei miei escamotages per sentirmi più alto era stato quello di sedermi nell’ultimo banco; infatti gli insegnanti, sin dal primo girono di scuola, non avevano fatto altro che ripetere che i ragazzi più bassi si sarebbero dovuti sedere al primo banco).

Mia madre mi portò subito dall’oculista per una visita: la diagnosi cadde su di me impietosa come una mannaia; ero affetto da miopia ed avrei dovuto mettere gli occhiali.

Mio padre, senza perdere tempo, mi portò nel negozio di Franz, in via XX settembre (il negozio esiste ancora nella città di Cagliari). Scelsi gli occhiali più economici perché non mi andava che mio padre spendesse dei soldi per me. E naturalmente non seppi scegliere quelli più adatti al mio viso.

Gli occhiali furono per me un vero e proprio trauma che ho superato soltanto in tardissima età. Io, abituato a fare a botte con tutti; a tuffarmi nel fiume; a correre come un disperato dappertutto, come avrei fatto a sopportare quel corpo estraneo? Questo nuovo complesso si sommò a quello precedente rendendomi sempre più cupo e più scuro di carattere.

Intanto Nixon veniva eletto presidente degli Stati Uniti d’America. Io lo conobbi attraverso una scritta che comparve in un muro adiacente alla scuola. Vi era scritto “Nixon boia”.



A mio padre gli Americani non piacevano per niente (forse questo era un retaggio della seconda guerra mondiale, prima dell’Armistizio del 1943, quando l’Italia e gli USA combattevano ancora su fronti contrapposti e lui fu mandato in Sardegna a difendere certi siti minerari, che il regime considerava strategici per l’economia dell’Italia in guerra, proprio dai raid aerei che i caccia bombardieri americani cominciarono a fare sin dal 1942).

Ma i capelloni, gli anarchici, i comunisti, i preti che si vestivano alla moda, le donne in minigonna, le femministe e le donne in cerca di emancipazione, le prostitute e gli omosessuali a mio padre piacevano ancora meno.

Per cui maledì diecimila volte i giudici della Corte Costituzionale quando, sul finire del 1968, sentenziarono che era ingiusto considerare il reato di adulterio in maniera differente, a seconda che a commetterlo fosse un uomo oppure una donna.

Naturalmente mia madre fu invece d’accordo coi giudici della Consulta.

Fu allora che mio padre cominciò a maledire la democrazia (e il partito Democrazia Cristiana che più di tutti sembrava incarnare la nuova frontiera della conquista delle libertà; anche se a riguardo della parità tra uomini e donne inveiva maggiormente contro i socialisti e i comunisti) e cercò di convincere mia madre a votare il Movimento Sociale Italiano.

Ma mia madre restò sempre fedele alla Democrazia Cristiana e si rifiutò con determinazione di votare a destra, anche se mio padre, in molte occasioni, ripeteva che la Destra avrebbe portato ordine, disciplina, carceri dure, capelli corti e treni in orario.

Forse fu allora che io cominciai a prendere in considerazione delle idee nuove e diverse da quelle che sembravano dividere i miei genitori; idee che si andavano allora diffondendo e che andavo imparando anche a scuola, attraverso il confronto con i miei insegnanti e con i libri di scuola.

Molte persone, soprattutto tra i giovani, sono convinte che il ’68 sia stato un gran botto di cannone, i cui echi si sentono ancora nell’aria, come una canzone che ci ricordi i bei tempi andati.

In realtà il ’68, almeno qui a Cagliari (e più in generale in Italia) è stato soltanto l’inizio di un lungo e sofferto cammino che i giovani della mia generazione (e quelli di qualche anno più grandi di me) hanno percorso e vissuto attraverso diverse tappe; un decennio terribile, iniziato nella gioia e nei colori del ’68 (che, a sua volta, affondava le sue radici nella rivoluzione dei figli dei fiori di San Francisco e dintorni, della metà degli anni sessanta, poi diramatosi in mille rivoli, a Berkeley, a Seattle, a Woodstock) e sviluppatasi negli anni successivi nelle lotte politiche e nei movimenti della sinistra extra-parlamentare, per sfociare infine nelle sanguinarie azioni dei gruppi armati, la cui deriva politica e storica, può farsi risalire al rapimento e alla barbara uccisione dell’onorevole Aldo Moro (1978), la vittima innocente, l’agnello sacrificale, il capro espiatorio di una classe politica cinica e corrotta che ha segnato un’epoca.

A giugno, come già detto, fui promosso a pieni voti. I miei genitori, un po’ per premio, un po’ perché la mia sorella maggiore era incinta del suo primogenito ed aveva bisogno di aiuto, mi mandarono nel Canavese, ove essa risiedeva dopo essersi sposata due anni prima.

Mia sorella aveva spostato un uomo più grande di lei di una ventina d’anni. Io avevo assistito alla nascita del loro amore. Si erano conosciuti infatti nella spiaggia di Venetico Marina (che poi è anche la marina di Spadafora, il paese dove si erano trasferiti alcuni di noi, nella speranza che attecchisse una certa idea imprenditoriale di mio padre, che nonostante l’interessamento del suo amico sig. Pipo non andò invece avanti) nell’estate del 1967. Mia sorella, che non godeva di una grande salute ed aveva avuto in gioventù una delusione amorosa, ci aveva raggiunto in estate e così ne approfittava per fare un po’ di mare insieme a noi. Fu lì, nella spiaggia, come dicevo, che conobbe il mio futuro cognato. Nell’autunno di quello stesso anno, vennero celebrate in Sardegna le loro nozze. Mio padre e mia madre vollero una festa in pompa magna, come si usava allora nei paesi della Sardegna. Tre giorni di banchetto a base di ravioli di ricotta, maialetto arrosto, pesci di Cabras, contorni di verdura fresca, frutta e fiumi di vino rosso, birra e aranciate.

Dopo il matrimonio avevano avviato nel Canavese un’attività imprenditoriale (che oggi verrebbe definita di agriturismo) molto redditizia.

A pochi chilometri da San Giorgio Canavese, in aperta campagna, su un appezzamento di terreno dalla estesa superficie, avevano costruito un laghetto artificiale, nel quale avevano allevato degli avannotti di trota.

I clienti arrivavano da Torino, da Chivasso, da Ivrea e da tutto il circondario. Mio cognato gli forniva canna da pesca, esca e secchio. I villeggianti provavano così l’ebbrezza di pescare personalmente le proprie trote e, dopo le foto di rito, la pesata e il pagamento del prezzo concordato se ne ritornavano a casa, prodi e fieri. Ad assistere i novelli pescatori mio cognato veniva aiutato da un suo fratello, sig. Francesco, un commerciante di verdure che lo raggiungeva al “Laghetto del Sole” (così si chiamava l’attività turistica di mia sorella) la domenica, quando la sua postazione al mercato civico di Porta Nuova era chiuso.

Non pochi avventori e novelli pescatori però decidevano di fermarsi a mangiare sul posto. All’uopo mia sorella aveva organizzato un servizio di ristorazione in cui veniva aiutata dalla cognata sig.ra Natala (moglie del sullodato sig. Francesco). Mio cognato arrostiva le trote alla griglia, insaporendole col samoriglio (un misto di acqua, olio d’oliva, aglio, origano siciliano e sale) ch’egli spargeva sull’arrosto con solenni gesti della mano, impugnando delle bacchette di origano che immergeva nel samoriglio, picchiettando con misurata energia i pesci sulla griglia, per poi girarli di seguito, e così di seguito sino alla cottura.

Nel frattempo io e la figlia di sig. Francesco e di sig.ra Natala, una ragazza molto carina e simpatica di nome Anna Maria che, come me, era una semplice volontaria (mentre i suoi genitori venivano retribuiti a giornata) avevamo provveduto ad apparecchiare la tavola sotto un pergolato adiacente al laghetto, ove gli avventori avrebbero gustato, al fresco e comunque al coperto, i gustosi cibi che noi stessi, improvvisati camerieri, avremmo ritirato in cucina dove spadroneggiavano invece le due cognate.

Andò avanti così, tutta l’estate. Quella era la mia vacanza. I giorni feriali si lavorava poco ma i fine settimana mia sorella (era lei la cassiera; a lei mio cognato consegnava anche i soldi del pescato) arrivava ad incassare parecchie centinaia di migliaia di lire. Io non stavo lì a contare, ma dato il movimento che c’era presumo che qualche fine settimana arrivasse ad incassare più di un milione di lire. E allora erano soldi davvero.

I clienti erano assai generosi con me e con Annamaria. A fine serata ci dividevamo un bel po’ di mance. Incredibilmente (col senno di oggi) mia sorella pretendeva che io consegnassi a lei i soldi delle mie mance. Ma non doveva faticare molto. Io glieli davo di buon grado. In questo debbo averne preso da mio padre che era un uomo alquanto disinteressato e poco attaccato al denaro. Al punto che, come avrò modo di narrare, quando arrivò il momento di andare in pensione, regalò la gioielleria a uno dei miei fratelli, con la sola promessa che pensasse a due fratelli più piccoli che gli aveva affidato per avviarli alla professione di commerciante (anche a me il mio generoso papà voleva regalare l’altra sua gioielleria ma io non la volli poiché intendevo proseguire gli studi sino alla laurea, come poi in effetti feci, ma restò sempre vivo in me il grande gesto di mio padre). Anche mia madre era supergenerosa, tant’è che io non capivo (e non capisco neanche oggi) da chi ne avesse preso questa mia sorella che, anziché pagarmi per il lavoro che svolgevo (oltre che il cameriere svolgevo dei lavoretti di semplice artigianato e assistevo i pescatori al mattino, prima dell’ora di pranzo) pretendeva che io le consegnassi le mance generose che i clienti mi lasciavano.

Un giorno che le chiesi delle spiegazioni, sul perché pretendesse le mie mance, mi rispose che io consumavo le batterie della sua radiolina Panasonic (in effetti passavo i pomeriggi ad ascoltare Renzo Arbore e Gianni Boncompagni che conducevano il programma “Alto Gradimento”), mangiavo a pranzo, cena e colazione e bevevo a scrocco quelle gustose bibite al gusto di arancia e limone destinate invece ai suoi clienti.

Quando a settembre nacque il loro primogenito Alessandro mi raggiunsero i miei genitori e poi tornammo indietro tutti e tre in Sardegna, in tempo per l’inizio dell’anno scolastico 1969-1970.

Ma questo fa già parte di un’altra storia.

domenica 6 luglio 2025

Il manuale del perfetto orologiaio

 


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Capitolo Quarto

 

«Ecco, signor duca, nel raffronto tra le due mappe,  si può apprezzare lo sviluppo della capitale in direzione nord», disse l’architetto Biagio Rossetti stendendo sul ripiano del tavolo due ampie carte rilevatrici.

Il duca Ercole I d’Este si era concentrato sulle due mappe della città di Ferrara. Una, di colore giallo, riportava la data del 1471 e ritraeva  la città già ampliata da suo padre Borso; la seconda, di colore bianco e senza data, redatta dallo stesso architetto estense, pur avendo lo stesso formato della vecchia, riempiva la vasta area  che dal Castello Belfiore e dal Palazzo Schifanoia, portava sino al Po di Volano, praticamente al confine con il territorio della  Repubblica di Venezia.

«Non dimenticate di realizzare una possente cinta muraria a ridosso del fiume. Non sia mai che i Veneziani ritentino per quella via, la sortita già fallita per la via del mare», disse il duca, annuendo soddisfatto.

«Se vostra Eccellenza me lo conferma, qui, a ridosso della cinta muraria, io ho previsto la costruzione di una fortezza capace di ospitare una guarnigione fissa di cinquecento soldati e sino a quattrodici bocche da fuoco, puntate sul fiume».

«Confermo. Procedete quanto più speditamente potete», ordinò il potente duca che non vedeva l’ora di vedere la capitale dei suoi domini protetta anche nel punto più debole, quello settentrionale.

Così era iniziata, per volontà del duca Ercole I d’Este, alla fine del XV secolo, la realizzazione della direttrice nord, uno dei due assi ortogonali che abbracciavano lo spazio dell’addizione erculea che univa idealmente Palazzo Ducale alla Porta degli Angeli, a difesa delle incursioni delle temute milizie venete.

 Oltre alla cinta muraria e a un profondo fossato ricolmo dell’acqua di uno dei bracci del delta del Po su cui anche allora si ergeva la capitale del Ducato, scavalcabile soltanto da un agile ponte levatoio, il duca aveva ordinato al grande architetto ferrarese che venisse costruita attorno alla Porta degli Angeli una fortezza militare.

 Ai dodici cannoni a bocca di fuoco 120 voluti da Ercole I, più tardi, suo nipote Ercole II ne fece aggiungere un tredicesimo, il cannone denominato “La Giulia”,  che suo padre Alfonso  aveva fatto fondere con il metallo della statua di Giulio II che i ferraresi avevano abbattuto per festeggiare la  morte dell’odiato papa Della Rovere.

Attorno a quella fortezza si era andato sviluppando, piano, piano, un agglomerato che,  oltre agli alloggi e alle mense dei militari comprendeva tutta una serie di botteghe artigianali, di cascine agricole, di allevamenti di bestiame di diversa natura e numerose magioni, per lo più precariamente costruite con paglia impastata a  mattone crudo a presidio di orti e frutteti che,  numerosi più delle case,  abbellivano quella vasta superficie, nota con il nome di Bellaria,  che si estendeva dalla città medioevale originaria sino alla novella cinta muraria settentrionale e che doveva restare comunque scarsamente popolata ancora per molti secoli.

Questo agglomerato, sorto senza un piano urbanistico preciso, ma che non di meno, aveva conquistato l’altisonante appellativo di Borgo del Barco, aveva creato una fiorente rete economica di scambi e commerci che, grazie ai contributi versati in termini di conferimenti annonari, tributi civili e decime religiose, era riuscita a farsi riconoscere dalla amministrazione comunale centrale dalla quale comunque dipendeva sia, ovviamente, dal punto di vista militare, sia dal punto di vista amministrativo e religioso.

Fra quelle botteghe e baracche del Barco del Duca, come veniva indicato ufficialmente nelle carte, a ridosso di un’enorme  porcilaia con annesso  un macello, di cui si servivano  tutti gli allevatori del borgo,  spiccava una costruzione in pietra dove, per anni, aveva operato una taverna che,  dietro l’ambigua denominazione di “Osteria del  Buon Samaritano”,  ospitava una  casa di meretricio che alleviava non solo le inevitabili solitudini dei soldati di stanza nella fortezza, ma serviva ad allietare anche le noiose serate dei giovani guardiani degli orti e degli artigiani del Borgo.

La taverna era stata chiusa dalle autorità alla fine del 1500, anche se certi documenti sembravano attestare invece la data del 1577,  quando in città erano stati accertati alcuni casi di un morbo che, ai sintomi della peste sembrava sommare i caratteri di una nuova malattia nota con il nome di sifilide. La casa era stata confiscata a seguito di una condanna penale che era stata inflitta ai gestori e proprietari dell’infame osteria, ma il clamore e la paura che quella notizia avevano suscitato in tutta Ferrara erano stati così eclatanti che nessuno aveva voluto più abitare in quella casa, soprannominata dopo la chiusura, la casa colombiana.

Fu lì che il vice legato Pasini Frassoni decise di sistemare l’emissario spagnolo del cardinale Garzia Mellini e il suo seguito. Ed è certo che don Pedro Domingo Mendoza Martinez, se anche avesse mai saputo la storia degli alloggi a lui riservati da quel referente togato, non avrebbe avuto alcuna riserva ad occuparli, tanto più che quella nomea popolare, ai suoi orecchi, sarebbe suonata come un’eco delle prodigiose gesta dei suoi valorosi antenati conquistadores.

 

 

 

 

Il Manuale del perfetto orologiaio

  https://www.amazon.it/dp/B0BQ6MR661 Capitolo Sesto Don Pedro Domingo Mendoza Martinez era un vero e proprio hidalgo, intransigente e irr...