venerdì 12 ottobre 2018

Memorie di scuola - Parte prima



Capitolo Secondo
Le scuole medie inferiori
1.
Prima media
Anno scolastico 1965-1966

Ci sono  dei momenti, nella vita di ciascuno di noi, in cui ci sentiamo sospinti da una forza invisibile che, come una corrente misteriosa, ci conduce da qualche parte, non importa dove. E non importa neppure dove noi vogliano andare. E’ la forza misteriosa che ci spinge; è lei che sa dove noi dobbiamo andare.
Di questi momenti nella mia vita ne ho vissuti di diversi. Per esempio nel 1968, quando la protesta studentesca mi trascinò, piano, piano, anno dopo anno, fin sulle  sulle barricate di una rivolta epocale, tremenda, cieca che voleva distruggere tutto e finì col distruggere gli aspiranti distruttori (mi fermò soltanto la mia idiosincrasia per ogni forma di violenza e di potere, il mio pacifismo convinto e idealista, il mio desiderio di conoscenza; lo stesso che mi spinse a Londra, al tramonto della rivoluzione, quando un’altra forza mi afferrò e mi spinse nelle lande nebbiose di Albione; ma di questo parlerò più avanti).
Nel 1965, al momento di scegliere la scuola media, fu ancora una forza misteriosa a spingermi verso Arborea.
Quell’anno, i neo-licenziati maschi  della quinta elementare del mio paese, scelsero di iscirversi al collegio che i Salesiani, con tanto onore, tenevano ad Arborea (la vecchia colonia fondata dai Veneti, chiamata prima Mussolinia, ed allora, come oggi, ridente ed attiva cittadina dell’oristanese, molto attiva nella produzione latto-casearia). Lì, i valenti sacerdoti di San Giovanni Bosco, formavano i futuri sacerdoti del clero sardo, prima attraverso un’adeguata istruzione nella scuola media unificata e, successivamente, per i più dotati e pervicaci, attraverso il ginnasio e il liceo classico.
In questa corrente, che di mistico e di religioso, come poi i fatti dimostrarono, non aveva molto,  io mi immisi di buon grado, complice il desiderio di mia madre di vedere almeno uno dei figli maschi con la tonsura e la tonaca nera da prete (mia mamma non ne faceva alcun mistero; anzi, a voce alta invocava il buon Dio perché le facesse la grazia di un figlio prete; ma, poveretta, fallì con me, come aveva fallito prima con un fratello maggiore e come fallì qualche anno dopo con uno dei fratelli minori!).
Così, senza una grande vocazione,  mi ritrovai nel Seminario di Arborea. Occorre dire che ancora in quegli anni sessanta era molto vivo quel movimento, iniziato subito dopo la guerra, che spingeva i giovani in Seminario anche senza vocazione. Le famiglie sapevano che in quei luoghi di studio e di meditazione, venivano assicurate, in cambio di una modesta retta mensile (che per i più bisognosi veniva coperta dagli stessi Salesiani), una cultura ed un’istruzione adeguate, congiuntamente a un vitto e  a un alloggio decorosi (che non tutte le famiglie potevano assicurare ai numerosi figli che la Provvidenza e la mancanza della televisione mandavano alle coppie precoci e fertili di allora).
La maggior parte di questi aspiranti sacerdoti lasciavano il seminario alla vigilia dei voti e si ritrovavano sul mercato del lavoro con un diploma di laurea che, quantomeno, spianava la strada all’insegnamento nelle discipline umanistiche.
Mia madre, appoggiata da mio padre che, seppure anticlericale viscerale,  non voleva ostacolare le sue aspirazioni  celesti, mi dotò di un ricco e copioso corredo e così iniziò la mia carriera ecclesiastica (che, come il paziente lettore potrà dappresso appurare, non fu invero molto lunga).
Arrivai qualche giorno prima dell’inizio dell’anno scolastico, a fine settembre (in quegli anni l’anno scolastico iniziava ancora ad ottobre).
Del primo giorno, oltre all’odore delle saponette,  della cancelleria e dei libri di testo, freschi di stampa, mi ricordo “il passo volante”.
Il passo volante era una specie di giostra, posizionata al centro dello sterminato  cortile che fungeva da parco giochi per le ore di ricreazione (indispensabili in ogni collegio dei Salesiani che si rispetti); la giostra era composta da un palo centrale al culmine del quale  ruotava  una corona dentata da cui si dipartivano delle catene che terminavano in altrettanti seggiolini di legno;   il giocatore, seduto a cavalcioni, spingeva con le gambe correndo attorno all’asse e, presa la rincorsa, spiccava il volo per poi atterrare, una volta esauritasi la spinta.
Mi cimentai in quel gioco in modo così azzardato che, ricordo ancora oggi, al termine di una corsa particolarmente spericolata, mi si avvicinò un sacerdote il quale mi chiese se mi sentissi bene.
In effetti io stavo benissimo; almeno finché si giocava al passo volante; mi piacevano  anche il calcio, la dama e la pallamano. Come hobby culturale, tra il traforo e la legatura  dei libri, scelsi la legatoria; una passione per i libri cartacei che ancora mi porto appresso.


Continua...
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