venerdì 23 novembre 2018

Memorie di scuola - Volume primo



E’ ben vero che su mille studenti scioperanti, ai cortei ci ritrovavamo in cento; e di questi cento,  soltanto dieci partecipavano alle riunioni dei collettivi nelle varie sedi che si offrivano di ospitare i dibattiti degli studenti in lotta. La maggior parte degli studenti preferivano imboscarsi con le ragazze nei ritrovi della zona del Castello, la parte medioevale di Cagliari, strapiena di club privati (come si chiamavano allora i ritrovi sociali giovanili), dove si faceva di tutto: ballare, fumare, sfranellare e anche il resto.
Ma io avevo addosso il sacro fuoco della rivoluzione, e fedele ai miei principii e alle mie scelte, proseguivo e persistevo nella lotta senza contro le istituzioni.
A pensarci bene, non mi sarebbe convenuto farmi una ragazza e imboscarmi come gli altri in un circolo di Castello?
Non solo mi sarei risparmiato tante arrabbiature, ma mi sarei sicuramente divertito di più!
Invece, sulle ali del mio impegno politico, passai, forse senza rendermene conto, quel segno che qualcuno aveva tracciato per terra come limite massimo della protesta.
In seguito ad un’assemblea negataci dal preside  io mi recai nelle classi e, interrompendo sfacciatamente le lezioni, convocai l’assemblea permanente.
Alcuni docenti non gradirono evidentemente la mia interruzione e mi segnalarono al preside.
Non so se il Capo dell’istituto segnalò la cosa al di fuori della scuola (non l’ho mai saputo; e se lo ha fatto, tutto venne archiviato) ma so per certo che riunì il Consiglio di Classe e chiese l’adozione di seri provvedimenti. Si formarono all’interno del Consiglio di Classe due fazioni: una era per la linea dura ed implicava, con la sospensione sine die della frequenza, l’ espulsione dalla scuola; un’altra propugnava invece una linea più morbida, di comprensione, che prevedeva la sospensione temporanea, per un massimo di 15 giorni, anche per il fatto che il mio profitto scolastico, nei cinque anni, era stato, tutto sommato, più che buono. Alla fine prevalse la linea morbida, anche grazie all’intervento di mia madre che si precipitò a scuola a perorare la mia causa, pregando i miei docenti di non rovinare la mia carriera scolastica e la mia stessa vita (si sa come sappiano essere melodrammatici i cuori di mamma per i loro figli, sempre innocenti, bravi ragazzi o tutt’al più birichini). Ciò non mi evitò comunque  una bella sospensione di 15 giorni, con annessi connessi.
Voglio precisare, per concludere, che la nostra era più una protesta culturale e sociale, piuttosto che politica.  Volevamo molto semplicemente  più spazi per i dibattiti all’interno della scuola e un ruolo costruttivo (magari in unione con gli operai) fuori dalla scuola. Volevamo più libertà di pensiero; odiavamo l’autorità costituita e la scuola gerarchica e schematizzata di stampo ancora fascista (o così sembrava a noi).
Io, pur condividendo gran parte delle rivendicazioni studentesche di quegli anni,  rifiutavo per indole e per istinto la contrapposizione violenta tra gruppi estremisti di sinistra e gruppi estremisti di destra.
Detestavo (e detesto tuttora) ogni forma di violenza. I miei idoli erano Kennedy, Marthin Luther King e Gandhi; e della religione mi affascinava soltanto Gesù, con la Sua mitezza, la Sua innocenza, il Suo amore per gli ultimi e i diseredati, mentre detestavo con tutta la forza dei miei diciotto  anni le gerarchie vaticane (non è che mi facciano impazzire neanche tutt’oggi; a parte papa Francesco, naturalmente).
Questo mio amore per Gesù lo pagai a caro prezzo all’esame di maturità (come si chiamava allora l’esame conclusivo di licenza superiore).
Ma questo fa già parte della prossima puntata.
Con il mio allontanamento da scuola e la mia sospensione,  gli scioperi e le proteste ebbero termine.
Le emozioni e i sentimenti che provai in quei quindici giorni passati a casa, lontano dalla scuola, furono assai intensi e contraddittori.
Passavo dal pentimento alla rabbia; dal vittimismo al desiderio di rivalsa; dalla rassegnazione ad un senso di sollievo perché, tutto sommato, poteva anche essermi andata peggio; quindi subentrava un sentimento di disagio e di inadeguatezza, dovuto  all’ incapacità di ricapitolare razionalmente quanto mi era successo e, a momenti, perfino un sentimento di frustrazione per non poter tornare indietro, per riavvolgere gli ultimi avvenimenti occorsi ed imprimergli un finale meno umiliante e amaro.
E in fondo all’animo riflettevo sulla condizione umana. Pensavo che siamo come i bagagli degli aeroporti. Qualcuno, un giorno, ci confeziona e ci imbarca; così iniziamo un viaggio lungo e contorto.  Se superiamo ostacoli e tragitti, finalmente  vediamo la luce, attraverso l’uscita del  nastro trasportatore che ci immette nella sala di recupero dei bagagli dove, se tutto va bene, qualcuno è ansioso di prendersi cura di noi. In casi estremi , ma non è raro, possiamo anche perderci per dimenticanza o menefreghismo degli stessi soggetti che ci hanno concepiti. E se vediamo la luce della sala d’attesa, uscendo da quel buffo carosello che si chiama nastro trasportatore, inizia la nostra vita. E siamo come pantaloni, cappelli, cravatte, camicie, giacche, mosse dal vento, spinti talvolta così lontano,  da non ritrovare neppure la strada per ricongiungerci a chi sembrava così affezionato da non poter vivere senza di noi.
O forse,  se siamo fortunati,  siamo come la pioggia, che scende da cielo sulla terra, la feconda, e poi evapora e ritorna in cielo.
Io mi sentivo come una pietra di fiume, rovente ed immobile nel greto secco, rotolando a valle sotto lo scorrere dell’acqua nei periodi di piena, capace di aggregarmi, lungo il percorso, con chiunque mi fosse capitato vicino: alghe, pesci, altri ciottoli rutilanti, oggetti organici ed inorganici coinvolti con me in quel viaggio senza altra meta che una indefinita valle dove attendere un’altra stagione di pioggia o di sole per poter ricominciare tutto da capo.
Passavo le giornate ascoltando le canzoni che allora andavano per la maggiore: Alice di  Francesco De Gregori; E mi manchi tanto degli  Alunni Del Sole; Erba di casa mia di  Massimo Ranieri; Vento nel vento , Il mio canto libero e  Io vorrei non vorrei ma se vuoi di Lucio Battisti;  Viva l’Inghilterra di  Claudio Baglioni; Vado via di Drupi;  Canzone intelligente di  Cochi E Renato
Crocodile rock e Daniel di  Elton John;   Walk on the wild side di  Lou Reed; You're so vain di  Carly Simon e tante altre di cui cercavo gli accordi sulla chitarra, testardamente, per ore ed ore.
Quando rientrai a scuola feci appena in tempo a prendere visione del programma svolto e delle cose da studiare che fu subito Pasqua. Riuscii a recuperare e ad ottenere la sufficienza in  tutte le materie. Così venni ammesso a sostenere l’esame di maturità.
Sfortuna volle però che venisse designato come Commissario Interno il docente  di Inglese, un certo prof. Zucca (che io avevo soprannominato Joe Vernaccia) e che apparteneva all’ala dei duri del Consiglio di Classe (cioè di coloro che mi avrebbero ben volentieri fatto fuori per sempre). Oltretutto, ma questo lo scoprii dopo, qualche carogna di compagno di classe gli aveva riferito del soprannome che gli avevo rifilato.
A quel tempo i commissari esterni si affidavano completamente al commissario interno per conoscere la personalità del maturando, anche se i voti e un giudizio sommario stabiliti dal consiglio collegialmente potevano comunque fornire una indicazione, seppure soltanto provvisoria  e non certo decisiva. L’esame consisteva in due scritti (italiano e materia di indirizzo) e in un colloquio comprendente quattro materie designate in precedenza in parte dal Ministero e in parte dal Consiglio di Classe. Di queste quattro una veniva scelta dal candidato e l’altra, a sorpresa, dalla commissione d’esame (in realtà era invalso l’uso di consentire la scelta, tramite il commissario interno, anche della seconda materia).
Insomma l’esame non era un granché difficile.
Io scelsi il tema che invitava il candidato ad esporre con parole sue il significato che egli attribuiva all’art. 11 della Costituzione. Era un tema sulla pace. Io ero per la pace, lo sono sempre stato e sempre lo sarò.
Nel tema parlavo dei miei idoli di allora: Marthin Luther King, il Mahatma Gandhi, Gesù Cristo (che allora riconoscevo e ammiravo come Uomo, vittima dell’incomprensione e della protervia degli uomini di potere; mentre oggi lo riconosco anche per quel che Egli effettivamente è: il Figlio di Dio sceso in terra per la nostra salvezza).
Ma il commissario interno mi aveva presentato come un sovversivo, rivoluzionario e di sinistra (e forse, chissà,  anche un potenziale terrorista).
Sostenne  che io avevo cercato di ingraziarmi la commissione presentandomi come un agnello innocente mentre in realtà ero un lupo.
Per farla breve il mio esame fu un disastro. Ma per fortuna riuscii a superarlo. Un altro anno in quella scuola non lo avrei davvero voluto fare.
E neanche loro, probabilmente, mi ci avrebbero voluto.
Ironia della sorte, la mia tesi all’Università, molti anni dopo,  avrebbe avuto ad oggetto la risoluzione pacifica delle controversie internazionali in ambito ONU.
Mio relatore sarebbe stato  il vecchio  Preside, l’esimio prof. Giovanni  Pau, grande internazionalista, che sarebbe riuscito a farmi dare il massimo punteggio che poteva essere  assegnato per la tesi, in proporzione alla media dei voti riportati (il che mi portò ad una votazione che veniva definita, al tempo, come corrispondente ai “pieni voti legali”).
Ma questo fa già parte di un’altra storia.


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