E’ ben vero che su mille studenti scioperanti, ai
cortei ci ritrovavamo in cento; e di questi cento, soltanto dieci partecipavano alle riunioni
dei collettivi nelle varie sedi che si offrivano di ospitare i dibattiti degli
studenti in lotta. La maggior parte degli studenti preferivano imboscarsi con
le ragazze nei ritrovi della zona del Castello, la parte medioevale di
Cagliari, strapiena di club privati (come si chiamavano allora i ritrovi
sociali giovanili), dove si faceva di tutto: ballare, fumare, sfranellare e anche il resto.
Ma io avevo addosso il sacro fuoco della
rivoluzione, e fedele ai miei principii e alle mie scelte, proseguivo e
persistevo nella lotta senza contro le istituzioni.
A pensarci bene, non mi sarebbe convenuto farmi
una ragazza e imboscarmi come gli altri in un circolo di Castello?
Non solo mi sarei risparmiato tante arrabbiature,
ma mi sarei sicuramente divertito di più!
Invece, sulle ali del mio impegno politico, passai,
forse senza rendermene conto, quel segno che qualcuno aveva tracciato per terra
come limite massimo della protesta.
In seguito ad un’assemblea negataci dal
preside io mi recai nelle classi e,
interrompendo sfacciatamente le lezioni, convocai l’assemblea permanente.
Alcuni docenti non gradirono evidentemente la mia
interruzione e mi segnalarono al preside.
Non so se il Capo dell’istituto segnalò la cosa
al di fuori della scuola (non l’ho mai saputo; e se lo ha fatto, tutto venne
archiviato) ma so per certo che riunì il Consiglio di Classe e chiese
l’adozione di seri provvedimenti. Si formarono all’interno del Consiglio di
Classe due fazioni: una era per la linea dura ed implicava, con la sospensione sine
die della frequenza, l’ espulsione dalla scuola; un’altra propugnava
invece una linea più morbida, di comprensione, che prevedeva la sospensione
temporanea, per un massimo di 15 giorni, anche per il fatto che il mio profitto
scolastico, nei cinque anni, era stato, tutto sommato, più che buono. Alla fine
prevalse la linea morbida, anche grazie all’intervento di mia madre che si
precipitò a scuola a perorare la mia causa, pregando i miei docenti di non
rovinare la mia carriera scolastica e la mia stessa vita (si sa come sappiano
essere melodrammatici i cuori di mamma per i loro figli, sempre innocenti,
bravi ragazzi o tutt’al più birichini). Ciò non mi evitò comunque una bella sospensione di 15 giorni, con
annessi connessi.
Voglio
precisare, per concludere, che la nostra era più una protesta culturale e
sociale, piuttosto che politica.
Volevamo molto semplicemente più
spazi per i dibattiti all’interno della scuola e un ruolo costruttivo (magari
in unione con gli operai) fuori dalla scuola. Volevamo più libertà di pensiero;
odiavamo l’autorità costituita e la scuola gerarchica e schematizzata di stampo
ancora fascista (o così sembrava a noi).
Io,
pur condividendo gran parte delle rivendicazioni studentesche di quegli
anni, rifiutavo per indole e per istinto
la contrapposizione violenta tra gruppi estremisti di sinistra e gruppi
estremisti di destra.
Detestavo
(e detesto tuttora) ogni forma di violenza. I miei idoli erano Kennedy, Marthin
Luther King e Gandhi; e della religione mi affascinava soltanto Gesù, con la
Sua mitezza, la Sua innocenza, il Suo amore per gli ultimi e i diseredati,
mentre detestavo con tutta la forza dei miei diciotto anni le gerarchie vaticane (non è che mi
facciano impazzire neanche tutt’oggi; a parte papa Francesco, naturalmente).
Questo
mio amore per Gesù lo pagai a caro prezzo all’esame di maturità (come si
chiamava allora l’esame conclusivo di licenza superiore).
Ma
questo fa già parte della prossima puntata.
Con il
mio allontanamento da scuola e la mia sospensione, gli scioperi e le proteste ebbero termine.
Le
emozioni e i sentimenti che provai in quei quindici giorni passati a casa,
lontano dalla scuola, furono assai intensi e contraddittori.
Passavo
dal pentimento alla rabbia; dal vittimismo al desiderio di rivalsa; dalla
rassegnazione ad un senso di sollievo perché, tutto sommato, poteva anche essermi
andata peggio; quindi subentrava un sentimento di disagio e di inadeguatezza,
dovuto all’ incapacità di ricapitolare
razionalmente quanto mi era successo e, a momenti, perfino un sentimento di
frustrazione per non poter tornare indietro, per riavvolgere gli ultimi
avvenimenti occorsi ed imprimergli un finale meno umiliante e amaro.
E in
fondo all’animo riflettevo sulla condizione umana. Pensavo che siamo come i bagagli
degli aeroporti. Qualcuno, un giorno, ci confeziona e ci imbarca; così iniziamo
un viaggio lungo e contorto. Se
superiamo ostacoli e tragitti, finalmente vediamo la luce, attraverso l’uscita del nastro trasportatore che ci immette nella sala
di recupero dei bagagli dove, se tutto va bene, qualcuno è ansioso di prendersi
cura di noi. In casi estremi , ma non è raro, possiamo anche perderci per
dimenticanza o menefreghismo degli stessi soggetti che ci hanno concepiti. E se
vediamo la luce della sala d’attesa, uscendo da quel buffo carosello che si
chiama nastro trasportatore, inizia la nostra vita. E siamo come pantaloni,
cappelli, cravatte, camicie, giacche, mosse dal vento, spinti talvolta così
lontano, da non ritrovare neppure la
strada per ricongiungerci a chi sembrava così affezionato da non poter vivere
senza di noi.
O
forse, se siamo fortunati, siamo come la pioggia, che scende da cielo
sulla terra, la feconda, e poi evapora e ritorna in cielo.
Io mi
sentivo come una pietra di fiume, rovente ed immobile nel greto secco,
rotolando a valle sotto lo scorrere dell’acqua nei periodi di piena, capace di
aggregarmi, lungo il percorso, con chiunque mi fosse capitato vicino: alghe,
pesci, altri ciottoli rutilanti, oggetti organici ed inorganici coinvolti con
me in quel viaggio senza altra meta che una indefinita valle dove attendere
un’altra stagione di pioggia o di sole per poter ricominciare tutto da capo.
Passavo le giornate ascoltando le canzoni che allora andavano
per la maggiore: Alice di Francesco De
Gregori; E mi manchi tanto degli Alunni Del Sole; Erba di casa mia di Massimo Ranieri; Vento nel vento , Il mio
canto libero e Io vorrei non vorrei ma
se vuoi di Lucio Battisti; Viva l’Inghilterra di Claudio Baglioni; Vado via di Drupi; Canzone
intelligente di Cochi E Renato
Crocodile rock e Daniel di Elton John; Walk on the wild side di Lou Reed; You're so vain di Carly Simon e tante altre di cui cercavo gli accordi sulla chitarra, testardamente, per ore ed ore.
Crocodile rock e Daniel di Elton John; Walk on the wild side di Lou Reed; You're so vain di Carly Simon e tante altre di cui cercavo gli accordi sulla chitarra, testardamente, per ore ed ore.
Quando
rientrai a scuola feci appena in tempo a prendere visione del programma svolto
e delle cose da studiare che fu subito Pasqua. Riuscii a recuperare e ad
ottenere la sufficienza in tutte le
materie. Così venni ammesso a sostenere l’esame di maturità.
Sfortuna
volle però che venisse designato come Commissario Interno il docente di Inglese, un certo prof. Zucca (che io
avevo soprannominato Joe Vernaccia) e che apparteneva all’ala dei duri del Consiglio
di Classe (cioè di coloro che mi avrebbero ben volentieri fatto fuori per
sempre). Oltretutto, ma questo lo scoprii dopo, qualche carogna di compagno di
classe gli aveva riferito del soprannome che gli avevo rifilato.
A quel
tempo i commissari esterni si affidavano completamente al commissario interno
per conoscere la personalità del maturando, anche se i voti e un giudizio
sommario stabiliti dal consiglio collegialmente potevano comunque fornire una
indicazione, seppure soltanto provvisoria e non certo decisiva. L’esame consisteva in due
scritti (italiano e materia di indirizzo) e in un colloquio comprendente
quattro materie designate in precedenza in parte dal Ministero e in parte dal
Consiglio di Classe. Di queste quattro una veniva scelta dal candidato e
l’altra, a sorpresa, dalla commissione d’esame (in realtà era invalso l’uso di
consentire la scelta, tramite il commissario interno, anche della seconda
materia).
Insomma
l’esame non era un granché difficile.
Io
scelsi il tema che invitava il candidato ad esporre con parole sue il
significato che egli attribuiva all’art. 11 della Costituzione. Era un tema
sulla pace. Io ero per la pace, lo sono sempre stato e sempre lo sarò.
Nel
tema parlavo dei miei idoli di allora: Marthin Luther King, il Mahatma Gandhi,
Gesù Cristo (che allora riconoscevo e ammiravo come Uomo, vittima
dell’incomprensione e della protervia degli uomini di potere; mentre oggi lo
riconosco anche per quel che Egli effettivamente è: il Figlio di Dio sceso in
terra per la nostra salvezza).
Ma il
commissario interno mi aveva presentato come un sovversivo, rivoluzionario e di
sinistra (e forse, chissà, anche un
potenziale terrorista).
Sostenne che io avevo cercato di ingraziarmi la
commissione presentandomi come un agnello innocente mentre in realtà ero un
lupo.
Per
farla breve il mio esame fu un disastro. Ma per fortuna riuscii a superarlo. Un
altro anno in quella scuola non lo avrei davvero voluto fare.
E
neanche loro, probabilmente, mi ci avrebbero voluto.
Ironia
della sorte, la mia tesi all’Università, molti anni dopo, avrebbe avuto ad oggetto la risoluzione
pacifica delle controversie internazionali in ambito ONU.
Mio
relatore sarebbe stato il vecchio Preside, l’esimio prof. Giovanni Pau, grande internazionalista, che sarebbe
riuscito a farmi dare il massimo punteggio che poteva essere assegnato per la tesi, in proporzione alla
media dei voti riportati (il che mi portò ad una votazione che veniva definita,
al tempo, come corrispondente ai “pieni voti legali”).
Ma
questo fa già parte di un’altra storia.
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