sabato 20 aprile 2019

Memorie di scuola



Anno scolastico 1969-1970
Dall’autunno caldo del 1969 alla strage di Piazza Fontana (Dic. 69)

Nel viaggio di ritorno mio padre mi informò che aveva comprato un appartamento e un locale commerciale nel centro di Cagliari (a 5 minuti dalla Stazione Centrale, tenne a precisare). Nel primo ci saremmo trasferiti io, mia mamma e tutti i fratelli più piccoli. Nel secondo avrebbe aperto una gioielleria in società con i tre figli maggiori, attuali coadiuvanti nell’azienda di famiglia; il mio buon vecchio si aspettava che anche io avrei aderito alla società in qualità di contabile, una volta diplomatomi; contava inoltre che io affiancassi mia mamma nella cura dei fratelli più piccoli, per quando riguarda il buon esempio, lo studio e la frequenza a scuola, la buona educazione in casa. Mia madre non parlò, limitandosi ad assentire; e quando mia madre non parlava (ciò che accadeva raramente, in quanto i contrasti dialettici con mio padre erano frequenti ) voleva dire che condivideva tutto ciò che mio padre aveva detto.
Ma i progetti ambiziosi di mio padre erano destinati a infrangersi sugli scogli delle incomprensioni con il mio fratello maggiore e suo primogenito Pietro Marino che noi tutti chiamavamo Marino e mio padre, spesso,  semplicemente Rino.
Era questo mio fratello maggiore un ragazzo dal cuore d’oro, tanto intelligente quanto capace nel lavoro di orologiaio e di commerciante. Avrebbe voluto studiare ma mio padre lo ritirò da scuola alla fine del primo ciclo di studi (prima del 1962 si poteva fare perché, sino a quell’anno, quando entrò in vigore la legge che unificava la scuola media obbligatoria per tutti sino ai quattordici anni, la scuola dell’obbligo finiva a dieci anni e si poteva comunque sostituire con l’apprendistato in una delle professioni artigianali al tempo assai diffuse).
Il povero Marino si ritrovò così, all’età di dieci anni, alla dura scuola di mio padre. E che fosse dura la scuola nella sua bottega di orologiaio non c’è dubbio. Basti sapere che le parole e persino  i respiri andavano dosati nella giusta misura, così come i colpi con gli speciali martelletti da orologiaio con cui talvolta occorreva coadiuvare mio padre, per spunzonare o ribadire una parte meccanica o un pezzo dei complessi congegni di misurazione del tempo nella cui riparazione mio padre era riconosciuto, in tutta la provincia di Cagliari e anche oltre,  come un vero maestro.
Tra i miei fratelli orologiai Marino fu l’unico che poté dire di avere acquisito l’arte orologiaia paterna in pieno; era l’unico che sapeva infatti riparare i pendoli e costruire con le sue mani un pezzo di ricambio; anche se  questa manualità eccelsa non fu più necessaria dopo la guerra, quando i mercati si aprirono e il boom economico consentì all’Italia di importare  dalla   Svizzera (allora primo e unico produttore mondiale nel settore),  in grande quantità,  ogni tipologia di ricambio di orologi e sveglie.
Ma il suo carattere volitivo,  ricco di ingegno e d’orgoglio, assai simile a quello di mio padre , li trovò inevitabilmente su fronti opposti. Inoltre mio fratello Marino non perdonò mai mio padre per avergli impedito di studiare come egli avrebbe voluto. Io sono certo che Marino si sarebbe laureato con grande facilità, se soltanto ne avesse avuto l’opportunità. A discolpa di mio padre debbo però dire che allevare dieci figli (tanti eravamo in famiglia, essendo uno dei miei fratelli morto in tenera età) sarebbe stato duro, forse impossibile, senza l’aiuto del primogenito. E in casa non siamo stati mai abbastanza riconoscenti nei confronti di quel fratello più grande così generoso e sfortunato (sul piano degli affetti), al quale io ero particolarmente affezionato, da lui ricambiato.
E quando la fortuna gli arrise negli affari, io diventai il suo legale di fiducia, conducendo per lui e con lui delle battaglie giudiziarie sempre coronate da successo (pur se lui, con la sua consueta generosità, mi chiese sempre di non infierire sugli avversari vinti, costruendo per loro dei veri ponti d’oro, per alleviare l’amarezza che lui conosceva assai bene).
Ho il rimpianto e mi commuovo ogni volta che penso a lui perché se n’è andato troppo presto e gli sono riconoscente per il bene che mi ha voluto ( e che lui mi permise di dargli sin da ragazzo, quando mi portava con lui dappertutto e ovunque andasse; fosse allo stadio a vedere il suo Milan; al Poetto coi suoi amici; a ballare in provincia a caccia di donne che, insieme ai motori, erano la sua passione); e quando, poco più che ventunenne se ne andò di casa, aprendo una gioielleria tutta per sé io,  nei mesi estivi, andavo  a  fargli compagnia, più per dargli un aiuto psicologico che un aiuto pratico.
Nell’autunno del 1969, alla ripresa dell’anno scolastico 1969-1970, che mi vedeva approdare alla seconda classe,  forte di una promozione a giugno,  con encomio personale da parte del Preside prof. Antonio Mattu,  gli scioperi ripresero più chiassosi e virulenti che mai.
Io stavo ancora a guardare e preferivo entrare a scuola per i motivi che ho già spiegato.
C’erano gli studenti di quarta e di quinta che organizzavano gli scioperi e i cortei.
All’ingresso i picchetti avevano lasciato il posto al semplice volantinaggio. Chi voleva poteva entrare. Ma anche a quelli che entravano per fare lezione venivano consegnati dei volantini in ciclostile.
Come avrei scoperto più avanti (quando mi toccò di sostituire gli organizzatori già licenziati) il ciclostile era una macchina che,  all’apparenza, può essere assimilata alle attuali macchine fotocopiatrici (che allora non esistevano; o magari erano troppo costose per gli studenti). Il ciclostile consisteva in pratica in un motore a rullo, azionato da una manovella. Tu preparavi un dattiloscritto (foglio battuto alla macchina da scrivere, per intenderci con quelli più giovani, con l’aggiunta di qualche slogan in caratteri manoscritti) con i tuoi proclami; poi lo posizionavi sul rullo del ciclostile che, imbevuto di inchiostro, ne riproduceva i caratteri, trasmettendoli ai fogli che in sequenza circolare venivano spinti e pressati sul rullo tramite l’azione di una manovella. Potevi così stampare, in poco meno di un’ora, migliaia di volantini, che venivano distribuiti, come già detto, all’ingresso degli istituti superiori della città capoluogo.
Il contenuto di questi volantini (che dovevano portare obbligatoriamente la dicitura “ciclostilati in proprio” per evitare rogne con la censura e con la legge sulla stampa) inneggiava regolarmente  all’unione degli studenti medi e universitari con le forze operaie,  contro la borghesia italiana e il capitalismo internazionale; poi dovevano contenere gli appuntamenti del giorno, con i diversi cortei che si concludevano, attraverso degli snodi fondamentali nei diversi istituti superiori cittadini o davanti alla sede della Provincia (responsabile della inadeguatezza dell’edilizia scolastica) oppure davanti al Provveditorato agli Studi  oppure, infine,  alla Facoltà di Lettere. Infatti in quella Facoltà c’era il centro nevralgico degli intellettuali di sinistra, la famosa macchina per ciclostilare i volantini e la sede della Casa dello Studente (con annessa la Mensa).
A scuola, all’inizio di ottobre, ritrovai lo stesso ambiente che ricordavo dall’anno precedente: gli assembramenti al cancello di ingresso, che spesso non si scioglievano,  perché in molti aderivano agli scioperi estemporanei proclamati in loco, oppure già programmati a più alti livelli il giorno prima; la compravendita di libri usati, la consegna dei ciclostile all’ingresso.
In quel secondo anno la classe era in parte cambiata nella sua composizione. Anche allora infatti, in Sardegna, la forte dispersione scolastica faceva sì che di una classe prima, ne arrivassero in seconda appena la metà; e di una seconda ne arrivassero in terza altrettanti, se non addirittura meno (in terza,  poi, avveniva una falcidia per altri motivi, come racconterò più avanti).
Non mancavano certo  le ragazze carine  che mi piacevano e alle quali,  però,  io non avrei mai trovato  il coraggio di dichiararmi; un po’ per la mia innata timidezza; un po’ per quei miei complessi di cui ho già parlato; inoltre vedevo la donna ancora avvolta in un aurea mistica, che ai miei occhi la innalzava sopra le cose terrene; non mi accorgevo che invece i tempi andavano in senso contrario; le donne stesse, per prime, volevano scendere da quel piedistallo e calarsi in una dimensione terrena e materiale dove potessero comportarsi come gli uomini, sia nel mondo della scuola, sia in quello del lavoro; e sia, soprattutto nelle relazioni sociali e affettive.
I professori erano, più o meno, gli stessi dell’anno precedente. E anch’io, come l’anno scorso, avevo un grande desiderio di farmi strada nella scuola, senza sentirmi dire che venivo a scuola per scaldare il banco (come gli insegnanti dicevano ai più indolenti tra noi) e di guadagnarmi la fiducia e la stima dei miei genitori.
Il 19 novembre gli uomini tornarono sulla Luna (con l’Appollo 12). Questo secondo allunaggio fece assai poco clamore rispetto al primo, avvenuto nel luglio dello stesso anno e seguito in TV praticamente da tutto il mondo. Anche a me l’impresa aveva entusiasmato e sognavo già che l’uomo, nel giro di pochi decenni, potesse conquistare il Cosmo intero.
A Milano, il dodici dicembre, mentre quel 1969 volgeva quasi al termine, scoppiò una bomba che fece tredici  morti e molte decine di feriti.
Non era il primo fatto di sangue, né la prima bomba che scoppiava in Italia,  ma quella fece più clamore delle altre precedenti: primo perché scoppiò dentro una banca, in un giorno in cui vi si svolgevano delle contrattazioni; secondo perché la polizia, forse spinta da una campagna di stampa fuorviante, arrestò quelli che da subito erano stati indicati come i colpevoli: gli anarchici di Milano.
In particolare ricordo bene due episodi legati a questo terribile fatto di sangue che sicuramente ha cambiato in peggio le sorti e la storia della nostra Italia: il primo è che venne arrestato subito un certo Pietro Valpreda che solo dopo lunghissimi anni di persecuzioni giudiziarie e giornalistiche, venne pienamente scagionato; ma già pochi giorni dopo la polizia lo aveva messo in carcere; agli occhi dell’opinione pubblica la sua colpa era quella di essere un ballerino, separato e anarchico (mio padre ne approfittò per enunciare che tutti i ballerini maschi, o presunti tali, i separati e gli anarchici dovevano finire prima alla gogna e poi in carcere a vita); il secondo episodio collegato alla strage di Piazza Fontana che io ricordo assai bene fu la morte di Pinelli, caduto dal quarto  piano della Questura di Milano durante un interrogatorio.
Negli ambienti della controinformazione cominciarono a circolare certe voci che, attraverso i ciclostile, i volantini, la stampa alternativa  ed il passa parola, arrivarono anche sino a noi studenti delle prime classi, alquanto disinteressati alle questioni politiche.
Le voci dicevano che Pietro Valpreda era un capro espiatorio degli apparati dello Stato che, invece, avevano armato la destra estremista, cioè i fascisti (a quel tempo vi erano infatti due ali estreme allo schieramento politico presente in Parlamento: i gruppi dell’estrema sinistra e quelli dell’estrema destra che, nelle piazze e nelle strade, se le davano di santa ragione; i primi agivano sotto svariate etichette che si chiamavano “Lotta Continua”, “Potere Operaio”; “Servire il popolo”; “Maoisti-leninisti” e altre che non ricordo; dei secondi ricordo “Ordine Nero” e “Prima Linea”); dicevano anche che Pinelli non era scivolato dalla finestra, né tantomeno egli si era gettato di sotto, in preda al pentimento e alla paura per avere messo le bombe, ma che erano stati i poliziotti che lo interrogavano, minacciandolo di buttarlo di sotto se non avesse confessato, a farselo sfuggire di mano, causandone così la morte. Un nome comparve come colpevole di questo orrendo delitto nei ciclostile e nei volantini della controinformazione: il commissario Calabresi.
Tra i mandanti della strage vennero indicati i nomi di Andreotti (forse all’epoca ministro dell’Interno e addirittura Premier) e quelli dei capi dei servizi segreti civili dello Stato (i famigerati DIGOS e  SISDE).
La stagione dei veleni e delle stragi cominciò in quel disgraziato 12 dicembre 1969.
Anche se io all’epoca non avevo per niente le idee chiare su quanto era accaduto e su chi avesse ragione tra la destra, la sinistra e il centro democristiano.
In Medio oriente Golda Meir e Arafat si fronteggiavano superbamente; Dubceck veniva dimissionato in Cecoslovacchia dalle mire imperialistiche dell’Unione Sovietica; Fanfani,  con l’appoggio della gerarchia vaticana, organizzava il referendum suicida dei democristiani contro l’introduzione del divorzio in Italia.
Battisti cantava “Fiori rosa, fiori di pesco”; Lucio Dalla “Occhi di ragazza”; Domenico Modugno “La lontananza”.
Il Cagliari Calcio, grazie alle reti strepitose del grande Gigi Riva, vinceva il suo primo e unico scudetto.
Trovi il   testo integrale di Memorie di scuola di Ignazio Salvatore Basile on line(c/o Mondadori store, Feltrinelli, IBS, Libreria Universitaria, Amazon ecc.) anche in cartaceo oppure in libreria il volume edito da Youcanprint ISBN 9788827845486. Il romanzo è disponibile anche in formato e-book nel sito della casa tramite il link sottostante.


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