Anno scolastico 1969-1970
Dall’autunno caldo del 1969
alla strage di Piazza Fontana (Dic. 69)
Nel viaggio di ritorno mio padre mi informò che aveva comprato un
appartamento e un locale commerciale nel centro di Cagliari (a 5 minuti dalla
Stazione Centrale, tenne a precisare). Nel primo ci saremmo trasferiti io, mia
mamma e tutti i fratelli più piccoli. Nel secondo avrebbe aperto una
gioielleria in società con i tre figli maggiori, attuali coadiuvanti
nell’azienda di famiglia; il mio buon vecchio si aspettava che anche io avrei
aderito alla società in qualità di contabile, una volta diplomatomi; contava
inoltre che io affiancassi mia mamma nella cura dei fratelli più piccoli, per
quando riguarda il buon esempio, lo studio e la frequenza a scuola, la buona
educazione in casa. Mia madre non parlò, limitandosi ad assentire; e quando mia
madre non parlava (ciò che accadeva raramente, in quanto i contrasti dialettici
con mio padre erano frequenti ) voleva dire che condivideva tutto ciò che mio
padre aveva detto.
Ma i progetti ambiziosi di mio padre erano destinati a infrangersi
sugli scogli delle incomprensioni con il mio fratello maggiore e suo
primogenito Pietro Marino che noi tutti chiamavamo Marino e mio padre, spesso, semplicemente Rino.
Era questo mio fratello maggiore un ragazzo dal cuore d’oro, tanto
intelligente quanto capace nel lavoro di orologiaio e di commerciante. Avrebbe
voluto studiare ma mio padre lo ritirò da scuola alla fine del primo ciclo di
studi (prima del 1962 si poteva fare perché, sino a quell’anno, quando entrò in
vigore la legge che unificava la scuola media obbligatoria per tutti sino ai
quattordici anni, la scuola dell’obbligo finiva a dieci anni e si poteva
comunque sostituire con l’apprendistato in una delle professioni artigianali al
tempo assai diffuse).
Il povero Marino si ritrovò così, all’età di dieci anni, alla dura
scuola di mio padre. E che fosse dura la scuola nella sua bottega di orologiaio
non c’è dubbio. Basti sapere che le parole e persino i respiri andavano dosati nella giusta
misura, così come i colpi con gli speciali martelletti da orologiaio con cui
talvolta occorreva coadiuvare mio padre, per spunzonare o ribadire una parte
meccanica o un pezzo dei complessi congegni di misurazione del tempo nella cui
riparazione mio padre era riconosciuto, in tutta la provincia di Cagliari e
anche oltre, come un vero maestro.
Tra i miei fratelli orologiai Marino fu l’unico che poté dire di
avere acquisito l’arte orologiaia paterna in pieno; era l’unico che sapeva
infatti riparare i pendoli e costruire con le sue mani un pezzo di ricambio;
anche se questa manualità eccelsa non fu
più necessaria dopo la guerra, quando i mercati si aprirono e il boom economico
consentì all’Italia di importare
dalla Svizzera (allora primo e
unico produttore mondiale nel settore),
in grande quantità, ogni
tipologia di ricambio di orologi e sveglie.
Ma il suo carattere volitivo,
ricco di ingegno e d’orgoglio, assai simile a quello di mio padre , li
trovò inevitabilmente su fronti opposti. Inoltre mio fratello Marino non
perdonò mai mio padre per avergli impedito di studiare come egli avrebbe
voluto. Io sono certo che Marino si sarebbe laureato con grande facilità, se
soltanto ne avesse avuto l’opportunità. A discolpa di mio padre debbo però dire
che allevare dieci figli (tanti eravamo in famiglia, essendo uno dei miei
fratelli morto in tenera età) sarebbe stato duro, forse impossibile, senza
l’aiuto del primogenito. E in casa non siamo stati mai abbastanza riconoscenti
nei confronti di quel fratello più grande così generoso e sfortunato (sul piano
degli affetti), al quale io ero particolarmente affezionato, da lui ricambiato.
E quando la fortuna gli arrise negli affari, io diventai il suo
legale di fiducia, conducendo per lui e con lui delle battaglie giudiziarie
sempre coronate da successo (pur se lui, con la sua consueta generosità, mi
chiese sempre di non infierire sugli avversari vinti, costruendo per loro dei
veri ponti d’oro, per alleviare l’amarezza che lui conosceva assai bene).
Ho il rimpianto e mi commuovo ogni volta che penso a lui perché se
n’è andato troppo presto e gli sono riconoscente per il bene che mi ha voluto (
e che lui mi permise di dargli sin da ragazzo, quando mi portava con lui
dappertutto e ovunque andasse; fosse allo stadio a vedere il suo Milan; al
Poetto coi suoi amici; a ballare in provincia a caccia di donne che, insieme ai
motori, erano la sua passione); e quando, poco più che ventunenne se ne andò di
casa, aprendo una gioielleria tutta per sé io,
nei mesi estivi, andavo a fargli compagnia, più per dargli un aiuto
psicologico che un aiuto pratico.
Nell’autunno del 1969, alla ripresa dell’anno scolastico
1969-1970, che mi vedeva approdare alla seconda classe, forte di una promozione a giugno, con encomio personale da parte del Preside
prof. Antonio Mattu, gli scioperi
ripresero più chiassosi e virulenti che mai.
Io stavo ancora a guardare e preferivo entrare a scuola per i
motivi che ho già spiegato.
C’erano gli studenti di quarta e di quinta che organizzavano gli
scioperi e i cortei.
All’ingresso i picchetti avevano lasciato il posto al semplice
volantinaggio. Chi voleva poteva entrare. Ma anche a quelli che entravano per
fare lezione venivano consegnati dei volantini in ciclostile.
Come avrei scoperto più avanti (quando mi toccò di sostituire gli
organizzatori già licenziati) il ciclostile era una macchina che, all’apparenza, può essere assimilata alle
attuali macchine fotocopiatrici (che allora non esistevano; o magari erano
troppo costose per gli studenti). Il ciclostile consisteva in pratica in un
motore a rullo, azionato da una manovella. Tu preparavi un dattiloscritto
(foglio battuto alla macchina da scrivere, per intenderci con quelli più
giovani, con l’aggiunta di qualche slogan in caratteri manoscritti) con i tuoi
proclami; poi lo posizionavi sul rullo del ciclostile che, imbevuto di
inchiostro, ne riproduceva i caratteri, trasmettendoli ai fogli che in sequenza
circolare venivano spinti e pressati sul rullo tramite l’azione di una
manovella. Potevi così stampare, in poco meno di un’ora, migliaia di volantini,
che venivano distribuiti, come già detto, all’ingresso degli istituti superiori
della città capoluogo.
Il contenuto di questi volantini (che dovevano portare
obbligatoriamente la dicitura “ciclostilati in proprio” per evitare
rogne con la censura e con la legge sulla stampa) inneggiava regolarmente all’unione degli studenti medi e universitari
con le forze operaie, contro la
borghesia italiana e il capitalismo internazionale; poi dovevano contenere gli
appuntamenti del giorno, con i diversi cortei che si concludevano, attraverso
degli snodi fondamentali nei diversi istituti superiori cittadini o davanti
alla sede della Provincia (responsabile della inadeguatezza dell’edilizia
scolastica) oppure davanti al Provveditorato agli Studi oppure, infine, alla Facoltà di Lettere. Infatti in quella
Facoltà c’era il centro nevralgico degli intellettuali di sinistra, la famosa
macchina per ciclostilare i volantini e la sede della Casa dello Studente (con
annessa la Mensa).
A scuola, all’inizio di ottobre, ritrovai lo stesso ambiente che
ricordavo dall’anno precedente: gli assembramenti al cancello di ingresso, che
spesso non si scioglievano, perché in
molti aderivano agli scioperi estemporanei proclamati in loco, oppure già
programmati a più alti livelli il giorno prima; la compravendita di libri
usati, la consegna dei ciclostile all’ingresso.
In quel secondo anno la classe era in parte cambiata nella sua
composizione. Anche allora infatti, in Sardegna, la forte dispersione
scolastica faceva sì che di una classe prima, ne arrivassero in seconda appena
la metà; e di una seconda ne arrivassero in terza altrettanti, se non
addirittura meno (in terza, poi,
avveniva una falcidia per altri motivi, come racconterò più avanti).
Non mancavano certo le
ragazze carine che mi piacevano e alle
quali, però, io non avrei mai trovato il coraggio di dichiararmi; un po’ per la mia
innata timidezza; un po’ per quei miei complessi di cui ho già parlato; inoltre
vedevo la donna ancora avvolta in un aurea mistica, che ai miei occhi la
innalzava sopra le cose terrene; non mi accorgevo che invece i tempi andavano
in senso contrario; le donne stesse, per prime, volevano scendere da quel
piedistallo e calarsi in una dimensione terrena e materiale dove potessero
comportarsi come gli uomini, sia nel mondo della scuola, sia in quello del
lavoro; e sia, soprattutto nelle relazioni sociali e affettive.
I professori erano, più o meno, gli stessi dell’anno precedente. E
anch’io, come l’anno scorso, avevo un grande desiderio di farmi strada nella
scuola, senza sentirmi dire che venivo a scuola per scaldare il banco (come gli
insegnanti dicevano ai più indolenti tra noi) e di guadagnarmi la fiducia e la
stima dei miei genitori.
Il 19 novembre gli uomini tornarono sulla Luna (con l’Appollo 12).
Questo secondo allunaggio fece assai poco clamore rispetto al primo, avvenuto
nel luglio dello stesso anno e seguito in TV praticamente da tutto il mondo.
Anche a me l’impresa aveva entusiasmato e sognavo già che l’uomo, nel giro di
pochi decenni, potesse conquistare il Cosmo intero.
A Milano, il dodici dicembre, mentre quel 1969 volgeva quasi al
termine, scoppiò una bomba che fece tredici
morti e molte decine di feriti.
Non era il primo fatto di sangue, né la prima bomba che scoppiava
in Italia, ma quella fece più clamore
delle altre precedenti: primo perché scoppiò dentro una banca, in un giorno in
cui vi si svolgevano delle contrattazioni; secondo perché la polizia, forse
spinta da una campagna di stampa fuorviante, arrestò quelli che da subito erano
stati indicati come i colpevoli: gli anarchici di Milano.
In particolare ricordo bene due episodi legati a questo terribile
fatto di sangue che sicuramente ha cambiato in peggio le sorti e la storia
della nostra Italia: il primo è che venne arrestato subito un certo Pietro
Valpreda che solo dopo lunghissimi anni di persecuzioni giudiziarie e giornalistiche,
venne pienamente scagionato; ma già pochi giorni dopo la polizia lo aveva messo
in carcere; agli occhi dell’opinione pubblica la sua colpa era quella di essere
un ballerino, separato e anarchico (mio padre ne approfittò per enunciare che
tutti i ballerini maschi, o presunti tali, i separati e gli anarchici dovevano
finire prima alla gogna e poi in carcere a vita); il secondo episodio collegato
alla strage di Piazza Fontana che io ricordo assai bene fu la morte di Pinelli,
caduto dal quarto piano della Questura
di Milano durante un interrogatorio.
Negli ambienti della controinformazione cominciarono a circolare
certe voci che, attraverso i ciclostile, i volantini, la stampa alternativa ed il passa parola, arrivarono anche sino a
noi studenti delle prime classi, alquanto disinteressati alle questioni
politiche.
Le voci dicevano che Pietro Valpreda era un capro espiatorio degli
apparati dello Stato che, invece, avevano armato la destra estremista, cioè i
fascisti (a quel tempo vi erano infatti due ali estreme allo schieramento
politico presente in Parlamento: i gruppi dell’estrema sinistra e quelli
dell’estrema destra che, nelle piazze e nelle strade, se le davano di santa
ragione; i primi agivano sotto svariate etichette che si chiamavano “Lotta
Continua”, “Potere Operaio”; “Servire il popolo”; “Maoisti-leninisti” e altre
che non ricordo; dei secondi ricordo “Ordine Nero” e “Prima Linea”); dicevano
anche che Pinelli non era scivolato dalla finestra, né tantomeno egli si era
gettato di sotto, in preda al pentimento e alla paura per avere messo le bombe,
ma che erano stati i poliziotti che lo interrogavano, minacciandolo di buttarlo
di sotto se non avesse confessato, a farselo sfuggire di mano, causandone così
la morte. Un nome comparve come colpevole di questo orrendo delitto nei
ciclostile e nei volantini della controinformazione: il commissario Calabresi.
Tra i mandanti della strage vennero indicati i nomi di Andreotti
(forse all’epoca ministro dell’Interno e addirittura Premier) e quelli dei capi
dei servizi segreti civili dello Stato (i famigerati DIGOS e SISDE).
La stagione dei veleni e delle stragi cominciò in quel disgraziato
12 dicembre 1969.
Anche se io all’epoca non avevo per niente le idee chiare su
quanto era accaduto e su chi avesse ragione tra la destra, la sinistra e il
centro democristiano.
In Medio oriente Golda Meir e Arafat si fronteggiavano superbamente;
Dubceck veniva dimissionato in Cecoslovacchia dalle mire imperialistiche dell’Unione
Sovietica; Fanfani, con l’appoggio della
gerarchia vaticana, organizzava il referendum suicida dei democristiani contro l’introduzione
del divorzio in Italia.
Battisti cantava “Fiori rosa, fiori di pesco”; Lucio Dalla “Occhi
di ragazza”; Domenico Modugno “La lontananza”.
Il Cagliari Calcio, grazie alle reti strepitose del grande Gigi
Riva, vinceva il suo primo e unico scudetto.
Trovi il testo integrale di Memorie di scuola di Ignazio Salvatore Basile on line(c/o Mondadori store, Feltrinelli, IBS, Libreria Universitaria, Amazon ecc.) anche in cartaceo oppure in libreria il volume edito da Youcanprint ISBN 9788827845486. Il romanzo è disponibile anche in formato e-book nel sito della casa tramite il link sottostante.
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