https://www.edizioniefesto.it/collane/origo-gentis/437-la-terza-via-un-uomo-un-viaggio-tre-strad
PROLOGO
Quando
appresi la notizia della morte di Donato
Catinari pensai subito a una vendetta. Come poteva essere morto in un banale
incidente stradale un uomo come Donato? Eppure la notizia diceva proprio che si
era trattata di una tragica fatalità. È pur vero, pensai, che ognuno di noi
nasce per caso e, prima o poi, a un dato momento, deve morire. Non di meno, se è vero, com’è
vero, che ogni accadimento umano è frutto di una dinamica “causa-effetto”,
allora era probabile, se non addirittura certo, che Donato Catinari fosse stato
ucciso per vendetta. Erano trascorsi molti anni da quando lo avevo conosciuto.
Tutto era iniziato lì, a Londra.
CAPITOLO
1
Se
mi avessero chiesto perché mi trovassi a Londra, in quell’estate del 1977, io
non avrei saputo cosa rispondere.
A
quel tempo già non credevo più nella rivoluzione del cambiamento, quella che
avrebbe dovuto migliorare l’Italia, prigioniera
del potere democristiano, dell’imperialismo americano e dei servizi segreti
deviati, trasformandola in un Paese normale.
Invece
ci toccava soltanto subire, rassegnati
e impotenti.
Pagavamo
ancora il pegno per la sconfitta della seconda guerra mondiale e io avevo
lasciato l’Italia, frastornato dalle bombe di Stato, dalle chiacchiere sui
compagni che sbagliavano, dagli attentati sanguinari di gruppi terroristici dalle
sigle equivoche e fantasiose; e sospinto dalla mia inguaribile solitudine.
Non
che io avessi mai creduto nella rivoluzione; cioè, ci avevo creduto, poco più
che sedicenne, ma così come credevo nella pace, nella fratellanza dei popoli e
in quelle menate in cui si crede ancora prima dei vent’anni.
Invece,
in quegli anni, in Italia, c’era in giro
gente che metteva bombe per davvero; e che sparava; nella migliore delle
ipotesi alle gambe, ma sparava sul serio.
E
io, coi miei miti, l’indiano Gandhi, il
nero Martin Luther King e Gesù Cristo, il figlio del falegname Giuseppe e di
Maria, dove potevo andare a parare?
È
pur vero che mi piacevano anche il Che, Fidel Castro e Mao Tse Tung, ma
soltanto a un livello, per così dire,
iconico; e m’infiammavo a leggere il Manifesto del partito comunista, quello
scritto a quattro mani nel 1848 da Engels e da Marx; ma la mia fede
rivoluzionaria finiva lì e mi sentivo come un pugile che voglia salire sul ring
con la faccia d’un altro, per incassare meglio i colpi dell’avversario; o come
un pollo spennato che voglia sentirsi un pavone con le penne altrui, o, se
preferite, come uno che voglia fare il culattone con il deretano degli altri.
Mio
padre odiava gli americani; e quella era l’unica cosa che ci univa
politicamente; per il resto lui sognava l’uomo forte che mettesse le cose a
posto, una volta per tutte.
Il
mio vecchio avrebbe voluto che io diventassi un bravo contabile, ma alla scuola
per ragionieri avevo amato tutte le discipline, fuorché le due materie di
indirizzo: la ragioneria e la computisteria.
Qualcosa
di meglio l’avevo combinata all’università, se è vero come è vero che dopo tre
anni avevo sostenuto tutti gli esami, assolvendo perfino all’obbligo della
leva: tredici mesi di servizio militare, con sei mesi di scuola di fanteria
inclusi.
Ma
infine qualcosa mi aveva spinto sino a Londra. Ed ero là, come un cane
bastonato, un sasso di fiume o una piuma nel vento.
Nessun commento:
Posta un commento