martedì 30 agosto 2022

La Terza via - 1

 

https://www.edizioniefesto.it/collane/origo-gentis/437-la-terza-via-un-uomo-un-viaggio-tre-strad

PROLOGO

 

Quando appresi la notizia della morte di  Donato Catinari pensai subito a una vendetta. Come poteva essere morto in un banale incidente stradale un uomo come Donato? Eppure la notizia diceva proprio che si era trattata di una tragica fatalità. È pur vero, pensai, che ognuno di noi nasce per caso e, prima o poi, a un dato momento,  deve morire. Non di meno, se è vero, com’è vero, che ogni accadimento umano è frutto di una dinamica “causa-effetto”, allora era probabile, se non addirittura certo, che Donato Catinari fosse stato ucciso per vendetta. Erano trascorsi molti anni da quando lo avevo conosciuto. Tutto era iniziato lì, a Londra.

 

CAPITOLO 1

 

Se mi avessero chiesto perché mi trovassi a Londra, in quell’estate del 1977, io non avrei saputo cosa rispondere.

A quel tempo già non credevo più nella rivoluzione del cambiamento, quella che avrebbe dovuto migliorare  l’Italia, prigioniera del potere democristiano, dell’imperialismo americano e dei servizi segreti deviati, trasformandola in un Paese normale.

Invece ci toccava soltanto  subire, rassegnati e  impotenti.

Pagavamo ancora il pegno per la sconfitta della seconda guerra mondiale e io avevo lasciato l’Italia, frastornato dalle bombe di Stato, dalle chiacchiere sui compagni che sbagliavano, dagli attentati sanguinari di gruppi terroristici dalle sigle equivoche e fantasiose; e sospinto dalla mia inguaribile solitudine.

Non che io avessi mai creduto nella rivoluzione; cioè, ci avevo creduto, poco più che sedicenne, ma così come credevo nella pace, nella fratellanza dei popoli e in quelle menate in cui si crede ancora prima dei vent’anni.

Invece, in quegli anni, in Italia,  c’era in giro gente che metteva bombe per davvero; e che sparava; nella migliore delle ipotesi alle gambe, ma sparava sul serio.

E io, coi miei miti, l’indiano  Gandhi, il nero Martin Luther King e Gesù Cristo, il figlio del falegname Giuseppe e di Maria,  dove potevo andare a parare?

È pur vero che mi piacevano anche il Che, Fidel Castro e Mao Tse Tung, ma soltanto a un  livello, per così dire, iconico; e m’infiammavo a leggere il Manifesto del partito comunista, quello scritto a quattro mani nel 1848 da Engels e da Marx; ma la mia fede rivoluzionaria finiva lì e mi sentivo come un pugile che voglia salire sul ring con la faccia d’un altro, per incassare meglio i colpi dell’avversario; o come un pollo spennato che voglia sentirsi un pavone con le penne altrui, o, se preferite, come uno che voglia fare il culattone con il deretano  degli altri.

Mio padre odiava gli americani; e quella era l’unica cosa che ci univa politicamente; per il resto lui sognava l’uomo forte che mettesse le cose a posto, una volta per tutte.

Il mio vecchio avrebbe voluto che io diventassi un bravo contabile, ma alla scuola per ragionieri avevo amato tutte le discipline, fuorché le due materie di indirizzo: la ragioneria e la computisteria.

Qualcosa di meglio l’avevo combinata all’università, se è vero come è vero che dopo tre anni avevo sostenuto tutti gli esami, assolvendo perfino all’obbligo della leva: tredici mesi di servizio militare, con sei mesi di scuola di fanteria inclusi.

Ma infine qualcosa mi aveva spinto sino a Londra. Ed ero là, come un cane bastonato, un sasso di fiume o una piuma nel vento.

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