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Capitolo Sesto
Don Pedro Domingo Mendoza
Martinez era un vero e proprio hidalgo, intransigente e irreprensibile.
Discendente dei Conquistadores che nel
secolo precedente avevano assicurato alla fede cattolica la parte centrale e buona parte di quella meridionale del
continente americano, nutriva la stessa cieca convinzione sulla infallibilità
della dottrina e della fede cattolica, che aveva spinto i suoi antenati alla conquista di nuove terre
oltreoceano, anche se, per uno strano
gioco del destino, o forse perché la sete di oro del suo casato era stata già
appagata, al contrario dei suoi illustri e avventurosi ascendenti, egli non
nascondeva altri retro pensieri, dietro al suo fanatismo religioso, all’infuori
della sua patria e del suo re.
Odiava tanto i mestizos
ed i conversos, quanto i riformisti e gli eretici di ogni
sorta. Per contro amava il suo sovrano e
i principii della fede cattolica. Ed era disposto a dare la sua vita pur di
difendere la purezza della religione contro chiunque ne avesse messo in
discussione l’assoluta preminenza. Per questo aveva accettato di entrare al
servizio della Congregazione in difesa della Fede Cattolica. Ed era stato
immesso direttamente dal re di Spagna nei ranghi dell’Inquisizione.
Nei primi anni, ancora
giovanissimo, era stato istruito sulle tecniche investigative e su quelle
dell’interrogatorio, che spesso sfociavano nella tortura, ogniqualvolta
l’inquisito si rifiutava di confessare le sue eresie e di pentirsi, promettendo
di seguire ciecamente gli insegnamenti di Madre Chiesa.
Poi, col tempo, era stato
utilizzato come agente operativo, nei territori dell’immenso impero ispanico,
coperto dall’immunità diplomatica ma ancora inquadrato nei ranghi della
temibile e potente inquisizione spagnola.
Tenoch Tixtlancruz era il
nome cristianizzato dell’impronunciabile appellativo patronimico di un
discendente diretto di un guerriero Azteco,
sbarcato con Colombo a Cadice, al termine del suo secondo viaggio nelle
Indie (o quelle che lui credeva tali ma che poi si rivelarono essere le
Americhe).
Attraverso vari incroci
con la stirpe iberica, ne era venuto fuori un gigante alto quasi due metri, con
il naso schiacciato, le labbra prominenti e una testa enorme che i capelli
corvini, tagliati corti, rendevano ancora più grande. Agli orecchi portava due
orecchini di foggia azteca e gli occhi grossi e neri cerchiati di sangue
suscitavano terrore solo al vederli. Don Pedro lo chiamava semplicemente Tenoch
ed era praticamente il suo braccio armato. Era lui che provvedeva, invero assai
volentieri, agli esercizi della tortura cui erano sottoposti gli eretici prima
di confessare o di morire colpevoli e dannati (la non confessione non era
contemplata nel dizionario del truce torturatore). Seppure orami convertito al cattolicesimo,
aveva conservato della sua stirpe originaria, e della classe dei guerrieri a
cui suo bisnonno si vantò sino alla morte di essere appartenuto, l’animo
truculento, lo spirito di abnegazione e di sacrificio per il suo credo, una
forza erculea e una fiducia incrollabile nel potere costituito, di natura
civile o religioso che esso fosse.
Nella sua mente, il
racconto della Creazione del libro della Genesi con cui era iniziata la sua
educazione cattolica, sostituiva in maniera impeccabile e perfetta, le avite
credenze sulla potenza del sole e delle stelle. Si convinse da subito che quel
Dio Onnipotente e Sempiterno era lo stesso Sole che avevano adorato i suoi avi
o, quantomeno, un parente assai prossimo, se non proprio il padre, il Creatore,
per l’appunto.
Portava con sé, ovunque
andasse, un baule di legno dentro il quale custodiva le sue pinze strappa seni
(che non disdegnava di utilizzare anche per schiacciare i testicoli dei
prigionieri più riottosi), un imbuto di metallo, un otre della capacità di tre litri
(con cui somministrava agli eretici l’acqua in dosi, sino al numero di sei) e
una serie di funi e carrucole per lo stiramento delle ossa dei poveri
malcapitati nella stanza delle torture dell’Inquisizione.
Completava il terzetto
ispanico, come già detto, Padre Alonso Ramirez de Barranquilla, un gesuita che
aveva in comune con i due compagni di viaggio soltanto la fede nello stesso Dio
(anche se a volte lui stesso dubitava che si trattasse davvero del medesimo
Dio). Anzi, forse la sua presenza nel trio si giustificava proprio per la sua
diversità che, in qualche misura, fungeva da calmiere della passionale
intemperanza dei suoi compagni di viaggio.
In effetti lui era con
loro per consolare e per confessare i prigionieri; e per convincerli che
sarebbe stato inutile resistere e che era meglio pentirsi e riconciliarsi con
Dio.
Davanti ad una
confessione piena e incondizionata le torture non avevano più senso di esistere
e dovevano cessare immediatamente. E lui, con la sua autorevolezza, otteneva
che cessassero.
Di fronte al pentimento e
al ravvedimento il prigioniero non era più un reietto da punire, una carne da
macellare, una potenza demoniaca da dissolvere nei tormenti dell’espiazione; al
contrario, il torturato si tramutava, per grazia evangelica, in un figliol
prodigo, tornato alla casa del padre a capo chino, desideroso solo di essere
riaccolto e perdonato.
E se l’atto di
riconciliazione, sancito dall’assoluzione che Padre Ramirez non disdegnava di
elargire con ampi gesti della mano e con la formula solenne in latino e che il
Servo di Gesù comunicava raggiante ai due torturatori, non esonerava il povero
disgraziato dalla punizione umana, il perdono divino, pur tuttavia, lo
riabilitava nella sua dignità umana, riscattandolo da quei recessi di ignominia
e degrado in cui era precipitato con il peccato, restituendolo al consorzio
cristiano, ridandogli lo status di figlio di Dio e come tale, inviolabile nella sua sacralità filiale.
Ed ogni volta che questo
accadeva (praticamente sempre, o quasi sempre) il buon gesuita sentiva che le
sue sofferenze, il suo disagio, la ripugnanza stessa che quelle torture e quei
torturatori procuravano alla sua anima sensibile e pia, trovava un’equa compensazione
nel riscatto di quell’anima recuperata alla salvezza eterna.
E poco importava, a quel
punto, se gli infelici malcapitati fossero stati, all’origine, innocenti o
colpevoli.
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