domenica 16 giugno 2024

Il Manuale del Perfetto Orologiaio


Capitolo Sesto


Don Pedro Domingo Mendoza Martinez era un vero e proprio hidalgo, intransigente e irreprensibile. Discendente dei Conquistadores che nel secolo precedente avevano assicurato alla fede cattolica la parte centrale e buona parte di quella meridionale del continente americano, nutriva la stessa cieca convinzione sulla infallibilità della dottrina e della fede cattolica, che aveva spinto i suoi antenati alla conquista di nuove terre oltreoceano, anche se, per uno strano gioco del destino, o forse perché la sete di oro del suo casato era stata già appagata, al contrario dei suoi illustri e avventurosi ascendenti, egli non nascondeva altri retro pensieri, dietro al suo fanatismo religioso, all’infuori della sua patria e del suo re.


Odiava tanto i mestizos ed i conversos, quanto i riformisti e gli eretici di ogni sorta. Per contro amava il suo sovrano e i principii della fede cattolica. Ed era disposto a dare la sua vita pur di difendere la purezza della religione contro chiunque ne avesse messo in discussione l’assoluta preminenza. Per questo aveva accettato di entrare al servizio della Congregazione in difesa della Fede Cattolica. Ed era stato immesso direttamente dal re di Spagna nei ranghi dell’Inquisizione.


Nei primi anni, ancora giovanissimo, era stato istruito sulle tecniche investigative e su quelle dell’interrogatorio, che spesso sfociavano nella tortura, ogniqualvolta l’inquisito si rifiutava di confessare le sue eresie e di pentirsi, promettendo di seguire ciecamente gli insegnamenti di Madre Chiesa.


Poi, col tempo, era stato utilizzato come agente operativo, nei territori dell’immenso impero ispanico, coperto dall’immunità diplomatica ma ancora inquadrato nei ranghi della temibile e potente inquisizione spagnola.


Tenoch Tixtlancruz era il nome cristianizzato dell’impronunciabile appellativo patronimico di un discendente diretto di un guerriero Azteco, sbarcato con Colombo a Cadice, al termine del suo secondo viaggio nelle Indie (o quelle che lui credeva tali ma che poi si rivelarono essere le Americhe).


Attraverso vari incroci con la stirpe iberica, ne era venuto fuori un gigante alto quasi due metri, con il naso schiacciato, le labbra prominenti e una testa enorme che i capelli corvini, tagliati corti, rendevano ancora più grande. Agli orecchi portava due orecchini di foggia azteca e gli occhi grossi e neri cerchiati di sangue suscitavano terrore solo al vederli. Don Pedro lo chiamava semplicemente Tenoch ed era praticamente il suo braccio armato. Era lui che provvedeva, invero assai volentieri, agli esercizi della tortura cui erano sottoposti gli eretici prima di confessare o di morire colpevoli e dannati (la non confessione non era contemplata nel dizionario del truce torturatore).


Seppure orami convertito al cattolicesimo, aveva conservato della sua stirpe originaria, e della classe dei guerrieri a cui suo bisnonno si vantò sino alla morte di essere appartenuto, l’animo truculento, lo spirito di abnegazione e di sacrificio per il suo credo, una forza erculea e una fiducia incrollabile nel potere costituito, di natura civile o religioso che esso fosse.


Nella sua mente, il racconto della Creazione del libro della Genesi con cui era iniziata la sua educazione cattolica, sostituiva in maniera impeccabile e perfetta, le avite credenze sulla potenza del sole e delle stelle. Si convinse da subito che quel Dio Onnipotente e Sempiterno era lo stesso Sole che avevano adorato i suoi avi o, quantomeno, un parente assai prossimo, se non proprio il padre, il Creatore, per l’appunto.


Portava con sé, ovunque andasse, un baule di legno dentro il quale custodiva le sue pinze strappa seni (che non disdegnava di utilizzare anche per schiacciare i testicoli dei prigionieri più riottosi), un imbuto di metallo, un otre della capacità di tre litri (con cui somministrava agli eretici l’acqua in dosi, sino al numero di sei) e una serie di funi e carrucole per lo stiramento delle ossa dei poveri malcapitati nella stanza delle torture dell’Inquisizione.


Completava il terzetto ispanico, come già detto, Padre Alonso Ramirez de Barranquilla, un gesuita che aveva in comune con i due compagni di viaggio soltanto la fede nello stesso Dio (anche se a volte lui stesso dubitava che si trattasse davvero del medesimo Dio). Anzi, forse la sua presenza nel trio si giustificava proprio per la sua diversità che, in qualche misura, fungeva da calmiere della passionale intemperanza dei suoi compagni di viaggio.


In effetti lui era con loro per consolare e per confessare i prigionieri; e per convincerli che sarebbe stato inutile resistere e che era meglio pentirsi e riconciliarsi con Dio.


Davanti ad una confessione piena e incondizionata le torture non avevano più senso di esistere e dovevano cessare immediatamente. E lui, con la sua autorevolezza, otteneva che cessassero.


Di fronte al pentimento e al ravvedimento il prigioniero non era più un reietto da punire, una carne da macellare, una potenza demoniaca da dissolvere nei tormenti dell’espiazione; al contrario, il torturato si tramutava, per grazia evangelica, in un figliol prodigo, tornato alla casa del padre a capo chino, desideroso solo di essere riaccolto e perdonato.


E se l’atto di riconciliazione, sancito dall’assoluzione che Padre Ramirez non disdegnava di elargire con ampi gesti della mano e con la formula solenne in latino e che il Servo di Gesù comunicava raggiante ai due torturatori, non esonerava il povero disgraziato dalla punizione umana, il perdono divino, pur tuttavia, lo riabilitava nella sua dignità umana, riscattandolo da quei recessi di ignominia e degrado in cui era precipitato con il peccato, restituendolo al consorzio cristiano, ridandogli lo status di figlio di Dio e come tale, inviolabile nella sua sacralità filiale.


Ed ogni volta che questo accadeva (praticamente sempre, o quasi sempre) il buon gesuita sentiva che le sue sofferenze, il suo disagio, la ripugnanza stessa che quelle torture e quei torturatori procuravano alla sua anima sensibile e pia, trovava un’equa compensazione nel riscatto di quell’anima recuperata alla salvezza eterna.


E poco importava, a quel punto, se gli infelici malcapitati fossero stati, all’origine, innocenti o colpevoli.

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