sabato 27 marzo 2021

La Terza via

 



Una sera mi comunicò che stava per partire. Se ne andava a Santa Marta o a Cartagena; al nord, insomma.

Fu allora che mi confidò di non chiamarsi Silvio. Mi disse il suo vero nome, anche se adesso non lo ricordo; chissà perché mi è rimasto impresso soltanto quel primo nome. Il giorno era in vena di confidenze. Disse che mi apprezzava molto, come uomo e come sardo.

Io da principio  non capivo perché mi facesse quei discorsi,  ma subito dopo capii.

Era per dirmi che lui della Sardegna aveva conosciuto soltanto il peggio: le umide celle del carcere speciale dell’Asinara.

Era finito in quel carcere di massima sicurezza per colpa di certe rapine che aveva fatto con dei politici. Era lui che li guidava: prima di intervenire si calavano il passamontagna; lui prendeva un respiro grande e partiva; gli altri lo seguivano. Tutto dipendeva da quel respiro e dalla sicurezza che lui comunicava agli altri. Ma lui non lo faceva per motivi ideologici. A lui piaceva la bella vita, coi soldi facili  in tasca. Suo padre era stato un operaio e lui non avrebbe fatto la sua fine. Lui voleva un’altra vita. Si era associato ai rossi perché in fondo volevano la stessa cosa: i soldi. Ai rossi  servivano per finanziare i loro progetti, lui aveva una famiglia, una moglie e un figlio.  E non gli andava di sgobbare per una mesata, appena sufficiente a mantenere la sua famiglia. I soldi ce li avevano i ricchi e a loro bisognava levarli. Ma chi lo aveva decretato che lui doveva appartenere a quelli che dovevano assoggettarsi per consentire ai ricchi di prosperare? Ecco cosa lo assimilava ai rossi; non avrebbe mai potuto lavorare coi fasci, lui (usò proprio il  verbo lavorare, da lui, nei fatti, in realtà tanto aborrito); anche se non era un politico capiva da quale parte stava la ragione e dove stava il torto. Il torto stava coi neri, perché quelli il grano ce l’avevano in gran quantità, senza bisogno di lavorare e senza fare rapine, come toccava a fare a lui.

Io ascoltavo, senza dare giudizi. A quel tempo, del resto, non mi ero ancora schierato; nel senso che ero andato via dall’Italia, frastornato dal clima di violenza che vi si respirava; allora non si capiva se la violenza arrivasse soltanto dai terroristi,  oppure se quella violenza fosse una risposta sbagliata alla violenza ingiusta,  esercitata dagli apparati dello Stato italiano (c’era chi li chiamava servizi segreti deviati); certamente,  il mio sentimento,  era di non essere dalla parte dei terroristi, ma neppure dalla parte del loro nemico: lo Stato.

Avevo fatto parte, quando frequentavo le scuole superiori nella mia città, del movimento studentesco. Condividevo le lotte ideologiche contro il capitalismo, vedevo le ingiustizie del mondo e già si vociferava della corruzione dei politici (ma il vaso di Pandora sarebbe stato scoperchiato soltanto poco più di un decennio più tardi).

Nella mia ingenua e idealistica visione del mondo mi illudevo che il comunismo potesse costituire una valida alternativa al capitalismo. Ma le armi io non le avrei mai prese contro nessuno. Non  mi mancava il coraggio, ma detestavo la violenza. Neanche Silvio mi giudicò, anche se io intuivo che per un uomo come lui, la vita senza azione era da considerarsi inutile. E forse lui pensava che io appartenessi alla maggioranza silenziosa, agli ignavi, a quelli che lasciano che siano gli altri a levare le castagne dal fuoco della storia. E magari  aveva ragione; ma io non avrei mai voluto sparare addosso a un altro uomo, anche se avevo fatto il militare e mi avevano insegnato a sparare e a odiare il nemico.

Per fortuna non ho mai conosciuto la guerra; non mi sarebbe piaciuto di essere un assassino, neppure mascherato dall’alibi della patria. Mi venne in mente la cerimonia dell’alzabandiera, che si svolgeva ogni mattina del mio servizio militare, nel piazzale della caserma. E un colonnello che ogni mattina aveva gli occhi lucidi mentre il tricolore si levava verso il cielo e la tromba suonava le suggestive note che accompagnavano quel rito quotidiano.

«Per me l’infame è stato uno dei rossi. Mi hanno bevuto per colpa di un figlio di papà. Il padre è un  politico democristiano, un pezzo da novanta, figlio di puttana come quello che ha generato! » mi disse la  sera prima di partire per Santa Marta. «Gli infami sono una brutta stirpe sai? Il mio istinto mi dice che è stato lui! Maledetto! Spero che qualcuno lo ammazzi. Io se lo rincontro, sono capace di ammazzarlo. Non bisognerebbe mai fidarsi dei ricchi. E il padre è uno che i soldi ce li ha. E pure molti»

Neanche allora mi piaceva fare domande. Ma mentre parlava dei soldi di quel suo compagno mi parve di cogliere una punta di invidia. Giampiero, a Londra,  mi aveva detto che il padre di Donato era un politico democristiano, un uomo potente. Chissà perché io pensai che fosse proprio lui il compagno di rapine di Silvio. Mi chiesi che cosa sarebbe stato Silvio, se fosse nato nella famiglia  di Donato, coi soldi in tasca, la vita facile, auto di lusso, donne, belle case, carriera assicurata; al vertice della società senza faticare. Sarebbe passato anche lui dall’altra parte della barricata, come aveva fatto Donato?

Gli avrei voluto chiedere anche altre cose: come mai adesso fosse fuori;  se avesse scontato la pena oppure fosse evaso. E ancor prima gli avrei voluto chiedere cosa avrebbe fatto il giorno che avessero preso il potere i rossi, come li chiamava lui. A chi avrebbe sottratto i soldi che a lui piacevano così tanto?

Ma quella domanda non gliela feci perché pensavo che  mi avrebbe dato la risposta che io credevo giusta e che io mi ero già dato da me: in una società ideale non ci sarà più chi vive nel bisogno e chi invece vive nel lusso; non ci saranno più capitalisti sfruttatori e proletari sottopagati e sfruttati, com’era stato suo padre, e tanti operai e proletari nelle mille fabbriche del mondo.

Quando seppe che i miei sei mesi di permesso stavano per scadere e che, probabilmente, me ne sarei tornato in Italia, gli lessi una punta di nostalgia negli occhi.

«Pensi di passare da Roma?» - mi chiese.

Quando gli risposi di sì, che probabilmente sarei passato da Roma, mi chiese il favore di contattare sua moglie; soltanto per darle i suoi saluti; per dirle che stava bene e che si trovava in Sudamerica. Mi raccomandò soltanto di usare il nome di Silvio, al telefono. E di non fare altri nomi. Nient’altro che Silvio e Sudamerica.

«Io non posso chiamarla, capisci?»

Feci finta di capire. Mi diede un nome e un numero di telefono. Non lo vidi mai più. Però gli avevo fatto una promessa. E sapevo che l’avrei mantenuta.

...continua...

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