Una sera mi
comunicò che stava per partire. Se ne andava a Santa Marta o a Cartagena; al
nord, insomma.
Fu allora che
mi confidò di non chiamarsi Silvio. Mi disse il suo vero nome, anche se adesso
non lo ricordo; chissà perché mi è rimasto impresso soltanto quel primo nome.
Il giorno era in vena di confidenze. Disse che mi apprezzava molto, come uomo e
come sardo.
Io da
principio non capivo perché mi facesse
quei discorsi, ma subito dopo capii.
Era per dirmi
che lui della Sardegna aveva conosciuto soltanto il peggio: le umide celle del
carcere speciale dell’Asinara.
Era finito in
quel carcere di massima sicurezza per colpa di certe rapine che aveva fatto con
dei politici. Era lui che li guidava: prima di intervenire si calavano il
passamontagna; lui prendeva un respiro grande e partiva; gli altri lo
seguivano. Tutto dipendeva da quel respiro e dalla sicurezza che lui comunicava
agli altri. Ma lui non lo faceva per motivi ideologici. A lui piaceva la bella
vita, coi soldi facili in tasca. Suo
padre era stato un operaio e lui non avrebbe fatto la sua fine. Lui voleva
un’altra vita. Si era associato ai rossi perché in fondo volevano la stessa
cosa: i soldi. Ai rossi servivano per
finanziare i loro progetti, lui aveva una famiglia, una moglie e un
figlio. E non gli andava di sgobbare per
una mesata, appena sufficiente a mantenere la sua famiglia. I soldi ce li
avevano i ricchi e a loro bisognava levarli. Ma chi lo aveva decretato che lui
doveva appartenere a quelli che dovevano assoggettarsi per consentire ai ricchi
di prosperare? Ecco cosa lo assimilava ai rossi; non avrebbe mai potuto
lavorare coi fasci, lui (usò proprio il
verbo lavorare, da lui, nei fatti, in realtà tanto aborrito); anche se
non era un politico capiva da quale parte stava la ragione e dove stava il
torto. Il torto stava coi neri, perché quelli il grano ce l’avevano in gran
quantità, senza bisogno di lavorare e senza fare rapine, come toccava a fare a
lui.
Io ascoltavo,
senza dare giudizi. A quel tempo, del resto, non mi ero ancora schierato; nel
senso che ero andato via dall’Italia, frastornato dal clima di violenza che vi
si respirava; allora non si capiva se la violenza arrivasse soltanto dai
terroristi, oppure se quella violenza
fosse una risposta sbagliata alla violenza ingiusta, esercitata dagli apparati dello Stato
italiano (c’era chi li chiamava servizi segreti deviati); certamente, il mio sentimento, era di non essere dalla parte dei terroristi,
ma neppure dalla parte del loro nemico: lo Stato.
Avevo fatto
parte, quando frequentavo le scuole superiori nella mia città, del movimento
studentesco. Condividevo le lotte ideologiche contro il capitalismo, vedevo le
ingiustizie del mondo e già si vociferava della corruzione dei politici (ma il
vaso di Pandora sarebbe stato scoperchiato soltanto poco più di un decennio più
tardi).
Nella mia
ingenua e idealistica visione del mondo mi illudevo che il comunismo potesse
costituire una valida alternativa al capitalismo. Ma le armi io non le avrei
mai prese contro nessuno. Non mi mancava
il coraggio, ma detestavo la violenza. Neanche Silvio mi giudicò, anche se io
intuivo che per un uomo come lui, la vita senza azione era da considerarsi
inutile. E forse lui pensava che io appartenessi alla maggioranza silenziosa,
agli ignavi, a quelli che lasciano che siano gli altri a levare le castagne dal
fuoco della storia. E magari aveva
ragione; ma io non avrei mai voluto sparare addosso a un altro uomo, anche se
avevo fatto il militare e mi avevano insegnato a sparare e a odiare il nemico.
Per fortuna
non ho mai conosciuto la guerra; non mi sarebbe piaciuto di essere un assassino,
neppure mascherato dall’alibi della patria. Mi venne in mente la cerimonia
dell’alzabandiera, che si svolgeva ogni mattina del mio servizio militare, nel
piazzale della caserma. E un colonnello che ogni mattina aveva gli occhi lucidi
mentre il tricolore si levava verso il cielo e la tromba suonava le suggestive
note che accompagnavano quel rito quotidiano.
«Per me
l’infame è stato uno dei rossi. Mi hanno bevuto per colpa di un figlio di papà.
Il padre è un politico democristiano, un
pezzo da novanta, figlio di puttana come quello che ha generato! » mi disse la sera prima di partire per Santa Marta. «Gli
infami sono una brutta stirpe sai? Il mio istinto mi dice che è stato lui!
Maledetto! Spero che qualcuno lo ammazzi. Io se lo rincontro, sono capace di
ammazzarlo. Non bisognerebbe mai fidarsi dei ricchi. E il padre è uno che i
soldi ce li ha. E pure molti»
Neanche allora
mi piaceva fare domande. Ma mentre parlava dei soldi di quel suo compagno mi
parve di cogliere una punta di invidia. Giampiero, a Londra, mi aveva detto che il padre di Donato era un
politico democristiano, un uomo potente. Chissà perché io pensai che fosse
proprio lui il compagno di rapine di Silvio. Mi chiesi che cosa sarebbe stato
Silvio, se fosse nato nella famiglia di
Donato, coi soldi in tasca, la vita facile, auto di lusso, donne, belle case,
carriera assicurata; al vertice della società senza faticare. Sarebbe passato
anche lui dall’altra parte della barricata, come aveva fatto Donato?
Gli avrei
voluto chiedere anche altre cose: come mai adesso fosse fuori; se avesse scontato la pena oppure fosse
evaso. E ancor prima gli avrei voluto chiedere cosa avrebbe fatto il giorno che
avessero preso il potere i rossi, come li chiamava lui. A chi avrebbe sottratto
i soldi che a lui piacevano così tanto?
Ma quella
domanda non gliela feci perché pensavo che
mi avrebbe dato la risposta che io credevo giusta e che io mi ero già
dato da me: in una società ideale non ci sarà più chi vive nel bisogno e chi
invece vive nel lusso; non ci saranno più capitalisti sfruttatori e proletari
sottopagati e sfruttati, com’era stato suo padre, e tanti operai e proletari
nelle mille fabbriche del mondo.
Quando seppe
che i miei sei mesi di permesso stavano per scadere e che, probabilmente, me ne
sarei tornato in Italia, gli lessi una punta di nostalgia negli occhi.
«Pensi di
passare da Roma?» - mi chiese.
Quando gli
risposi di sì, che probabilmente sarei passato da Roma, mi chiese il favore di
contattare sua moglie; soltanto per darle i suoi saluti; per dirle che stava
bene e che si trovava in Sudamerica. Mi raccomandò soltanto di usare il nome di
Silvio, al telefono. E di non fare altri nomi. Nient’altro che Silvio e
Sudamerica.
«Io non posso
chiamarla, capisci?»
Feci finta di
capire. Mi diede un nome e un numero di telefono. Non lo vidi mai più. Però gli
avevo fatto una promessa. E sapevo che l’avrei mantenuta.
...continua...
https://www.hoepli.it/libro/la-terza-via-un-uomo-un-viaggio-tre-strade/9788833812366.html
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