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Capitolo
Sesto
La mattina, Marino ci
tenne a fargli visitare la città. Lo portò in giro, nei dintorni e poi sul
Monte Ortobene. Lì visitarono il Museo Archeologico nazionale. Gli spiegò con
orgoglio alcuni tratti salienti dei bronzetti e delle sculture che
testimoniavano la grandezza dei loro antenati, compresi quelli della madre di
Dario, che lui, in realtà, non aveva mai tenuto in grande considerazione.
Quella sera, Marino gli comunicò
che il giorno dopo sarebbero partiti presto. Dario avvertiva di nuovo quella
barriera che gli era sembrata esistere tra loro nel momento del loro primo
incontro. Quella magica empatia che si era stabilita dopo il pranzo sembrava
essersi dissolta.
Il giorno successivo, di
buon mattino, dopo una frugale colazione, mentre ancora la città era avvolta
nel silenzio, risalirono in macchina.
Dario notò che la
macchina aveva raggiunto la periferia della città, oltre la stazione e la zona
industriale e avere superato Prato Sardo per imboccare una strada provinciale.
Nella segnaletica aveva fatto in tempo a leggere “Orgosolo” come prima
indicazione.
«Non ti dispiace se metto
una cassetta di Fabrizio De André? Mi hanno regalato da poco il suo ultimo
lavoro. Si chiama Rimini, probabilmente lo conosci già.»
«Non mi dispiace affatto.
Anzi, mi fa piacere.»
Dario capì che l’uomo non
aveva più voglia di parlare. E lo lasciò alla sua guida silenziosa,
immergendosi nei suoi pensieri.
Dopo un bel tratto di
strada, Dario sognava che quel complesso nuragico il cui profilo si stagliava
in lontananza, conducesse a un vecchio pozzo sacro, attraverso un sentiero
assolato. Il paesaggio ai bordi della strada aveva qualcosa di desertico, anche
se in lontananza si poteva immaginare che le montagne, ancora avvolte nella
nebbia, fossero ricoperte da una vegetazione sempre verde.
Quando l’automobile,
invece di imboccare la strada per Orgosolo, come si era immaginato, si infilò
in una stradina sterrata sulla sinistra della provinciale, Dario si scosse dal torpore dei
suoi sogni fantasiosi.
«Pensavo stessimo andando a Orgosolo!»
«E che ci andiamo a fare a Orgosolo?» disse Marino senza
distogliere lo sguardo dalla strada.
Visto che il compagno di viaggio non aveva nessuna
intenzione di aggiungere altro, Dario si abbandonò di nuovo alle note e alle
parole della cassetta che continuava a gracchiare dal mangiacassette dell’auto.
Pensò che su quella strada sconosciuta, che proprio in quel momento stava
percorrendo, lo aveva spinto la delusione della rivoluzione del sessantotto
nella quale ingenuamente aveva creduto. E se aveva deciso di abbandonare i
sogni e le utopie, per scendere sul terreno della lotta armata, lo aveva fatto
perché si era accorto che in tanti, anche tra gli operai, si erano rinchiusi
nel proprio orticello, diventando perfetti ingranaggi della società
capitalistica e consumistica. Era a questo che lui si era ribellato. Non
sarebbe mai diventato un birillo nelle mani di giocatori rapaci e predatori. Non
voleva diventare una mera unità produttiva, quasi un numero di serie, da
inserire in una catena produttiva e spendere la sua vita dentro una tuta blu,
senza anima e senza speranza.
Mentre lui seguiva i suoi pensieri, l’auto si inerpicava
ancora sul costone della montagna. All’improvviso si arrestò in uno spiazzo
sterrato.
«Siamo arrivati?» chiese sorpreso.
«Non ancora» disse Marino scendendo dall’auto. «Seguimi. Ci
aspetta una bella passeggiata» aggiunse subito dopo, inoltrandosi nella fitta
vegetazione.
A Dario sembrava di percorrere un sentiero mai battuto
prima.
All’inizio procedettero per un lungo tratto, attraverso una
bassa vegetazione composta da cisti, ginestre e altri cespugli ai quali Dario
non avrebbe saputo dare un nome sicuro.
Poi Marino, che lo precedeva, cominciò a farsi largo a forza di braccia
tra corbezzoli, olivastri e ginepri. Il terreno appariva accidentato per la
presenza di numerose pietre. Tuttavia
lui procedeva sicuro e Dario lo seguiva a fatica ma con fiducia. Quando già gli
dolevano le braccia e le gambe, in quel continuo e impervio saliscendi,
sbucarono in un’ampia vallata dominata da alberi di alto fusto, per lo più
querce e sughere.
«Vieni, riposiamo un poco» disse Marino dirigendosi in uno
spiazzo ombreggiato. «Stanco?» aggiunse appena furono seduti su due rocce
sporgenti, porgendogli una borraccia che aveva estratto dallo zaino poggiato a
terra.
Dario non avrebbe voluto ammettere di esserlo, ma le sue membra indolenzite gli suggerirono di
non giocare troppo a fare il duro. Non era davvero il caso.
«Abbastanza» si limitò a dire con un sospiro, restituendo
la borraccia, non prima d’avere bevuto con avidità un lungo sorso d’acqua. Intorno
non sembrava esserci anima viva. Il silenzio era interrotto soltanto dal fruscìo
degli alberi e dal richiamo di qualche volatile che si spostava da una fronda
all’altra. Un sordo mormorìo che sentiva provenire da sottoterra, gli suggerì
che da qualche parte dovesse sfociare un fiume sotterraneo.
«Forse è meglio che mangi qualcosa di sostanzioso» propose
Marino porgendogli del pane e del formaggio.
«Manca ancora molto?» chiese Dario con tono di
rassegnazione.
«Siamo circa a metà strada» rispose la sua guida già
impegnata a masticare.
Lo imitò cercando di fare durare il più possibile quel
pasto improvvisato. Finito di mangiare si sarebbe steso volentieri a dormire ai
piedi dell’albero, ma non disse niente.
Nonostante la stanchezza, ripresero la marcia a passo più
spedito. Adesso bisognava stare attenti soltanto alle pietre, sulle quali
facevano leva per procedere sempre più in alto. A mano a mano che procedevano
Dario vedeva avvicinarsi le creste dei monti che aveva osservato da lontano.
Ora apparivano più marcate e non erano più un profilo indistinto all’orizzonte.
Dopo l’ennesima salita, Marino parve indugiare osservando da lontano una
costruzione rustica che si stagliava in fondo a uno spiazzo, protetta alle
spalle da uno sperone roccioso e attorniata da alberi.
Sporgendosi di lato a una quercia robusta, si portò le mani
alla bocca ed emise un suono prolungato, quasi un canto di civetta e poi si
nascose subito dietro il tronco tendendo l’orecchio. Dalla costruzione uscì una
figura maschile che si guardò attorno. Marino ripeté quel suono lamentoso e
subito l’uomo rispose con lo stesso segnale, replicato due volte.
«Andiamo» disse Marino rilassandosi ed esibendo un sorriso
di soddisfazione.
L’uomo ci aspettò sul ciglio del piccolo altipiano, al
quale accedemmo per un canalone, che forse in inverno dava sfogo alle acque
piovane in discesa dai monti soprastanti. Tese la mano anche a Dario per
superare con un balzo l’ultimo tratto. E fu allora che lo riconobbe. Era lo
stesso uomo che aveva visto in compagnia di Vittorio all’Agnata. Si sorprese a ricordare che quella sera Fabrizio, venuto
a conoscenza che lui aveva deciso di ripartire, dopo cena aveva preso la
chitarra in mano. Da quando era suo ospite non l’aveva mai fatto. Del resto,
era risaputo che il suo amico non amasse molto esibirsi in pubblico, ma invece quella
fu una serata indimenticabile e a Dario era sembrato che la sua anima e quella
di Fabrizio si fondessero insieme mentre intonavano le note della “Guerra di
Piero” e “Bocca di Rosa”.
«Benvenuti a Su Gorropu» disse l’uomo quando entrambi
furono approdati al suo livello.
«Ciao Salvatore. Vittorio è già qua?» chiese Marino
ringraziando.
«È dentro. Ci sono anche gli altri» rispose l’uomo
precedendoli verso il caseggiato.
Il fabbricato consisteva in una vera e propria casa. Vi si
accedeva per una grande stanza con un ampio caminetto e una finestra che si
affacciava sulle montagne retrostanti. Poi vi erano una cucina, un bagno e una
camera, alquanto spoglia, con due lettini. Accanto all’abitazione, un capannone
ospitava un piccolo gregge di capre che costituiva in pratica la copertura per Salvatore,
detto Doddore che, a ogni buon conto, era un vero pastore di professione.
Al centro della prima stanza capeggiava un lungo tavolo intorno
al quale sedevano quattro persone. Uno era Vittorio, gli altri tre erano
vestiti come il padrone di casa, anche se i colori degli indumenti erano più
scuri. Due erano più o meno della sua stessa età, il terzo era decisamente più
avanti negli anni.
Non ci furono presentazioni formali, ma soltanto dei saluti
frettolosi, anche se cordiali. Doddore, l’uomo a cui Dario poteva dare
finalmente un nome, procurò due sedie per i nuovi venuti. Appena tutti e sette
gli uomini furono accomodati, Vittorio si rivolse al più anziano dei tre visi
nuovi che Dario aveva trovato entrando. «Oh, Bainzu, quindi mi confermi che la
data fissata è quella del 27 agosto?»
«Sì» rispose l’uomo. «Da informazioni sicure sappiamo che
il giorno prima partiranno tutti gli ospiti, compresi i suoceri con la figlia
piccola di De André e Dori Ghezzi. Ci
sarà soltanto la coppia che dobbiamo prelevare e tutto sarà più facile» affermò
l’uomo.
Dario sentì un brivido lungo la schiena. Vittorio sembrò
accorgersi del suo improvviso disagio. «Tutto a posto Dario?» gli chiese.
«Sì, certo. Sono soltanto stanco» si affrettò a rispondere.
«Avrai tempo di riposare. Tu resterai qui con me e con Doddore»
disse Vittorio per rincuorarlo.
«E stai tranquillo, i tuoi amici li tratteremo bene» sentenziò
il più anziano dei tre.
«Purché qualcuno paghi il dovuto» commentò ridendo uno dei
due giovani.
«Io veramente sono amico di Fabrizio» disse tanto per
rompere il ghiaccio.
«Allora non ti dispiace se balleremo un po’ di Casatschok
con Dori Ghezzi?» suggerì con una risata il terzo sconosciuto, che non aveva
ancora parlato.
La battuta piacque soltanto all’altro giovane, quello che
aveva parlato dei soldi.
L’anziano che il pastore aveva chiamato Bainzu gli rivolse
uno sguardo alquanto torvo.
«Non so con chi tu le abbia fatte certe cose, ma con me non
le farai di sicuro» gli disse l’anziano con tono gelido.
Il giovane smise subito di ridere e si acquietò come un
cane bastonato. «L’ho detto così, per scherzare» ammise con tono dimesso.
«Sarà meglio per te» lo rimbeccò ancora severamente quello
che sembrava il capo indiscusso del terzetto.
«Con la nostra parte di soldi ci procureremo tante di
quelle donne che non rimpiangerai né il Casatschok, né il tango e
neppure il “Ballu tundu”» disse l’altro giovane per spezzare la
tensione.
«Quindi è a “Sa Grutta e s’Astori” che dovrò portarvi
le vivande?» chiese Doddore.
«Sì» confermò il pastore anziano.
«C’è già qualcuno lì?»
«I tuoi compaesani» rispose ancora l’uomo.
«Ho capito. Mangiate qualcosa con noi prima di andare via?»
propose il padrone di casa alzandosi in piedi.
«No» rispose l’anziano, alzandosi anche lui. «Probabilmente
stanno arrostendo qualcosa anche per noi lassù». Gli altri due lo imitarono.
«E tu Marino, cosa fai?»
«Io rientro in città. Tornerò tra qualche giorno con le
provviste»
«Va bene. E non dimenticare un po’ di giornali» gli
raccomandò Vittorio.
«Contaci» lo rassicurò Marino.
E mentre i tre sconosciuti prendevano la via del monte,
Marino si avviò, questa volta in discesa, per lo scosceso canalone.
A Su Gorropu restarono Dario, Vittorio e Doddore. In
attesa dello sviluppo degli eventi e dell’arrivo di notizie.
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