https://deimerangoli.it/shop/sicuramente-ligure/
Capitolo
Settimo
Dario e Vittorio si
sistemarono nella stanza da letto, mentre Doddore dormiva nella sala. Stendeva
una stuoia e si copriva con una pelle di capra. Il giovane, per rispetto all’età
del loro ospite che, anche se non era vecchio, aveva almeno il doppio della sua
età, si schermì dicendo che giustamente doveva toccare a lui dormire per terra.
«Qui non è questione di
età, ma di abitudine» affermò il pastore. « A parte il fatto che tu sei un
ospite e quindi non potresti mai dormire per terra, sappi che io l’ho sempre
fatto, almeno qui all’ovile. Quando sono in paese è un’altra cosa, ma qui si
dorme per terra» aggiunse l’uomo.
I giorni seguenti furono
alquanto monotoni, ma intensi nella loro regolarità. Dario affiancava il
pastore nell’attività lavorativa quotidiana, che iniziava all’alba, con la
mungitura delle capre e la preparazione del formaggio. Poi il pastore le portava al pascolo, nell’area adiacente all’ovile.
La pulizia del capannone toccava a Dario, che avrebbe voluto imparare a mungere
e a fare il formaggio, ma l’uomo era stato molto evasivo riguardo alle sue richieste. La sera l’uomo, dopo il suo
riposo pomeridiano, raggiungeva il suo gregge, con cui rientrava poco prima del
tramonto. I giorni in cui faceva troppo caldo, il gregge lo riportava con sé
all’ora di pranzo. In tal caso avrebbero ricevuto il secondo pasto della
giornata nel capannone. Quello che, quantomeno agli occhi estranei, era il suo
principale spiegò a Dario che con l’arrivo del maltempo, le uscite al pascolo
si sarebbero diradate e le capre avrebbero mangiato sempre nel capannone. Ecco
perché c’era tutto quel foraggio ammassato. Dario si rese conto, con il tempo,
che quell’uomo dall’aspetto così freddo, quasi altero, era in realtà una persona
alla mano, sincera nei suoi propositi, anche se restava complessivamente chiuso
e forse restio, per natura, a mostrare i suoi sentimenti.
Tuttavia piano piano il
giovane forestiero stava conquistando la fiducia del pastore. Dario si era
accorto che all’inizio Doddore lo aveva quasi sottoposto a diverse prove per
saggiare il suo temperamento. Lui si era mostrato disponibile a ogni richiesta
di quello che, almeno per copertura, risultava fungere da suo datore di lavoro,
assecondando con entusiasmo le sue richieste, anche quando quell’uomo dal
carattere ruvido, abituato forse a trattare più con gli animali che con i
propri simili, appariva scontroso e scortese. Il pastore cominciò ad aprirsi e
a rispondere con maggiore cordialità alle domande che il giovane, incuriosito,
gli porgeva. Dario gli chiedeva tutto quello che gli passava per la testa sulla
vita dei pastori, sulle tradizioni e sulla cultura sarda. Così il giovane si
stava appassionando alla storia della terra di sua madre che aveva
completamente ignorato sino ad allora.
Il pranzo si consumava a
mezzogiorno e la cena al tramonto del sole, quando ancora il riverbero della
luce solare era sufficiente a rischiarare l’ampia sala dove si consumavano i
pasti.
A tavola, prima, durante
e dopo i pasti, si svolgevano grandi chiacchierate. Non si può certo dire che il
suo sedicente datore di lavoro fosse culturalmente impreparato. I suoi ragionamenti collimavano con i massimi
sistemi di Vittorio, anche se il Sardo sognava una Sardegna libera dalle
servitù militari e indipendente dai legami
politici con Roma.
Quando si ritiravano per
il riposo pomeridiano, stanchi delle chiacchiere e appesantiti dal vino, Dario,
che non riusciva a dormire, prese l’abitudine di uscire a passeggiare.
Lo richiamava lo scorrere
del fiume, l’unico rumore che si udiva nel silenzio di quella calura estiva,
escluso un improvviso fruscìo, dovuto al movimento di qualche volatile che si
spostava da un albero all’altro.
Si sedeva sul dosso della
sponda del fiume a osservare l’acqua e lo stormire delle fronde, fumando e
pensando. I discorsi dei suoi amici gli frullavano in testa insieme a mille
altre cose e si stava convincendo della giustezza della scelta che aveva fatto
di aderire alla lotta armata. Anche se la notizia che avessero scelto di sequestrare
il suo amico Fabrizio insieme alla sua compagna Dori, gli aveva causato non
pochi disagi interiori. Vittorio lo aveva rassicurato che nei loro piani c’era
soltanto quello di tirare su un po’ di quattrini. Il loro gruppo aveva
anticipato i soldi, per le spese di organizzazione del sequestro, e che erano frutto
delle rapine compiute dai compagni di Genova e Torino in precedenza. Il gruppo
era composto da una mezza dozzina di orunesi, di cui Doddore era il referente,
e da un trio di bittesi. Gli stessi che erano transitati per l’ovile,
capitanati da un coetaneo e amico dello stesso pastore orunese, padrone
dell’ovile che li ospitava.
Oltre ad aiutare i
compagni Sardi, ne avrebbero avuto un ritorno economico; senza contare il
ritorno di immagine che il sequestro avrebbe dato alla costituenda colonna
delle Brigate Sarde. Insomma Fabrizio
non correva alcun rischio e neppure la madre di sua figlia Luisa Vittoria,
detta Luvi. Ma Dario non aveva bisogno che glielo dicessero gli altri che una
persona sequestrata era comunque esposta a parecchi rischi. Senza contare l’infelice
battuta di cattivo gusto che uno dei giovani banditi bittesi aveva fatto su
Dori Ghezzi e che a lui non era piaciuta per niente.
Per Dario non era un
problema ideologico. Fabrizio era un figlio della opulenta borghesia ed era
giusto che il padre dovesse sborsare un po’ di soldi per finanziare la lotta
armata. Il suo patema d’animo non era sicuramente quello. Lui non amava,
secondo la sua etica comportamentale, il tradimento dell’amicizia sincera e
autentica che li aveva uniti dall’infanzia e ancora lo legava a Fabrizio.
Un giorno, mentre era
immerso in questi e in altri pensieri, vide sopraggiungere un uomo. Aveva in
mano un falcetto e si mise a tagliare dei giunchi che andava ammucchiando sulla
sponda del fiume. L’uomo
procedeva con colpi secchi e sicuri della piccola falce che stringeva nella
mano sinistra, mentre ricurvo, con la destra afferrava, a mazzi, i vegetali che
andava tagliando.
Dalla sua posizione non
poteva vedere Dario, che si trovava in una posizione rialzata rispetto a lui.
Quando ne ebbe ammassato un bel mucchio, il tizio si mise a tagliare delle
canne. Indossava dei corti stivaletti di gomma che affondavano nell’acqua non
troppo profonda del fiume. Anche le canne furono ammucchiate sulla sponda,
accanto ai giunchi.
Dario sentì l’impulso di andare
ad aiutarlo. Avvicinandosi si accorse che l’uomo non era vestito con gli abiti
tipici del pastore. Era magro, con la pelle cotta dal sole e un viso asciutto
incorniciato da una barba lunga e grigia. Nonostante i suoi agili movimenti,
Dario giudicò che dovesse essere abbastanza avanti negli anni. A maggior
ragione riteneva giusto offrirgli quella mano d’aiuto.
«Posso essere d’aiuto?»
chiese. Si trattava di una domanda retorica, in quanto nel dirlo si era già
preso sulla spalla destra il fascio delle canne. L’uomo parve alquanto sorpreso
ma si limitò a puntargli addosso gli occhi piccoli e vispi. Per tutta risposta,
infatti, si avviò con i giunchi sotto braccio. Dario lo seguì. Il vecchio emise un fischio e subito comparve
un pastore tedesco che si mise a lato dell’uomo. Adesso entrambi procedevano
lungo un impervio percorso che li condusse più in alto rispetto al fiume. Si fermarono a ridosso di una capanna circolare
che aveva la base in pietra e la parte alta ricoperta di frasche.
«Dove le metto?» chiese il
giovane, che si accorse di avere il fiatone. Ma anche questa sua domanda rimase
senza risposta. Il vecchio era già entrato nella capanna. Si limitò a farle
cadere per terra e a dare un’occhiata in giro. Notò poco distante una capretta
che frugava tra le rocce, con il muso alla ricerca di qualche filo d’erba o di
qualche ramoscello ancora verde. Ogni volta che spostava il capo, si udiva il
tintinnio d’un campanaccio che doveva portare legato al collo. Quel suono si
univa al mormorio lontano del fiume che scorreva più in basso. Tutt’attorno
regnava una fitta vegetazione. La capanna
sembrava integrarsi a perfezione in quel paesaggio. Da un ricovero di frasche
non molto discosto si udì un nitrito, seguito subito da un forte raglio. Poi il
silenzio si impossessò nuovamente del luogo.
Trascorso un po’ di tempo
stava per andarsene, dopo avere scrollato le spalle, quando il vecchio
riemerse. Aveva in una mano ancora dei giunchi ma non così freschi come quelli
che aveva appena tagliato. Nell’altra, aveva uno sgabello di legno e glielo
porse, ancora senza parlare. Notò che non aveva più gli stivali ai piedi ma
indossava un paio di scarponi. Lui si sedette sopra un’enorme pietra piatta e
squadrata, incastrata per terra, a lato dell’ingresso della capanna, che sporgeva come un trono
rudimentale. E si mise a intrecciare
subito i vimini raccolti. Il cane si era accucciato ai suoi piedi e
sonnecchiava tranquillo.
Dario osservava con
interesse il lavoro dell’uomo. I movimenti delle sue mani gli ricordarono i
vecchi che da bambino aveva osservato al porto di Genova, mentre riparavano le
reti della pesca. Il vecchio procedeva sicuro, ripetendo all’infinito gli
stessi agili movimenti. L’unica differenza era nel risultato che cresceva nelle
sue mani. Dario immaginò il fondo di una sedia o magari il ripiano di un
cestino. Girò lo sguardo attorno e osservò meglio la capanna. I rami, che coprivano la parte superiore,
arrivavano sino alla sommità e da un lato spiccava il comignolo di un camino.
Dopo avere fumato
un’altra sigaretta, decise di tornare all’ovile di Doddore. Lui e Vittorio a
quest’ora si sarebbero svegliati e preferiva farsi trovare nelle vicinanze.
Tuttavia non sapeva come accommiatarsi da quel vecchio silenzioso. Avrebbe
voluto tendergli la mano e presentarsi, ma ripensandoci, sarebbe stata una
gaffe colossale se l’uomo fosse stato sordomuto e poi gli sembrava scortese
interrompere quelle mani laboriose che continuavano senza sosta a intrecciare
sapientemente quei giunchi secchi. Optò per un saluto con un cenno della mano. Però,
non poteva andare via senza restituire lo sgabello; per cui si avvicinò alla
capanna, posò lo sgabello vicino all’ingresso, mormorando un grazie e con un
gesto rivolto all’anziano si accinse a ridiscendere verso il fiume. Da lì
sarebbe risalito verso l’ovile. Il vecchio sembrò salutarlo con gli occhi,
sollevando appena lo sguardo dal suo lavoro. Ma fu soltanto un attimo o magari
una sua impressione. Forse l’uomo era davvero sordomuto.
Al suo rientro all’ovile
trovò Salvatore già in piedi che armeggiava con la macchinetta del caffè.
«Lo vuoi anche tu un
caffè?»
«Volentieri» rispose,
sedendosi al piccolo tavolo della cucina. Stava per chiedergli se conoscesse il
vecchio che aveva conosciuto quando sopraggiunse Vittorio.
«Sei stato a fare un
giro?» gli chiese il suo amico.
«Ho conosciuto un
vecchio, dall’altra parte del fiume» disse Dario per tutta risposta.
«È per caso uno che vive
in una pinneta di frasche? Uno che intreccia cestini di vimini e fa
lavori di incisione sul legno?» intervenne Doddore.
«Sì, proprio lui. Ma è
per caso sordomuto?»
«No»
rispose il pastore ridendo. «Lo chiamano Su Spagnolu, este unu casticatu»
proseguì in sardo, sempre ridendo.
«Casticatu? Cosa
vuol dire?» chiese il giovane incuriosito.
«È un tipo strano. Mezzo matto» confermò Doddore
toccandosi la testa.
«Stai attento quando vai
in giro, a non attirare l’attenzione» gli disse Vittorio in tono serio. «È
pericoloso questo vecchio?» soggiunse rivolto a Salvatore.
«Tranquillo. L’uomo parla
poco e quando lo fa si esprime in un linguaggio molto stretto, un misto di
sardo e spagnolo. I baschi avrebbero bisogno di un interprete per comunicare
con lui».
«Ciò non toglie che ci
voglia prudenza» replicò Vittorio rivolto a Dario, addolcendo il tono della
voce.
«A proposito di baschi e
di prudenza, dopo il caffè voglio mostrare a Dario una cosa importante» disse il
pastore, levandolo dall’imbarazzo.
Subito dopo averlo bevuto
si spostarono infatti nella sala grande.
Doddore spostò il tavolo
che campeggiava al centro della sala e provvide a scostare il tappeto sopra il
quale poggiavano i suoi piedi.
«Se per qualunque motivo
io non fossi qui, quando vedi spuntare i baschi o altre persone pericolose, qui
sotto c’è una botola, che attraverso un passaggio sotterraneo conduce a valle.
Fai entrare Vittorio e poi rimetti tutto a posto. Tu puoi giustificare la tua
presenza qui in ovile, qualificandoti come un mio cugino sassarese per parte di
tua madre, tanto più che sei incensurato e non hai niente da temere. Ma Vittorio
non lo devono trovare qui per nessuna ragione» disse, rivolgendosi soprattutto a Dario.
«Sperando che ci sia il
tempo per fare tutte queste manovre» osservò Dario, tanto per dire qualcosa.
«Tranquillo che di tempo
te ne avanzerà. L’accesso all’ovile, come hai potuto sperimentare tu stesso, è
alquanto impervio. In ogni caso i miei cani fiutano i baschi a distanza e ti
avviseranno del loro arrivo quando ancora saranno lontani» lo tranquillizzò con
sicurezza.
«E adesso, se vi fa
piacere, vi propongo una partita a carte» aggiunse mentre rimetteva a posto il
tappeto e il tavolo. «Dopo ci aspetta la pulizia del capannone e il secondo
pasto delle capre» affermò ancora rivolto al giovane amico di Vittorio.
Nessun commento:
Posta un commento