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Capitolo
Ottavo
Il giorno seguente era giovedì
e di buon mattino, come d’abitudine, Dario affiancava Doddore nella cura degli
animali e insisteva nella sua intenzione di imparare a
mungere le capre, ma il pastore non era disposto neppure a farlo provare. Per il resto accettava volentieri il suo
aiuto.
Quella mattina stava per
l’ennesima volta chiedendogli il permesso sempre negato quando il pastore gli
impose di tacere.
«Shhh! Hai sentito?»
«Che cosa?»
«Ascolta!»
Il giovane si fermò con lo sgabellino in mano. Si udì il richiamo di un
uccello che a lui parve un suono conosciuto.
Subito dopo si udirono i cani abbaiare.
«Questo è Marino» disse Salvatore
alzandosi dallo sgabellino e mollando le prosperose mammelle della capra che
stava mungendo. L’animale mosse il testone cornuto, che sembrava enorme, forse anche
a causa della tosatura di giugno, che rendeva più slanciato il corpo
dell’animale.
Quando l’uomo fu sul
ciglio della scarpata che guardava a valle, rispose al richiamo. Marino apparve
alla loro vista, lasciando l’albero che lo nascondeva ai loro occhi. Si
inerpicò lentamente per il sentiero sassoso che portava su all’ovile. La sua
salita era resa più difficile da un pesante zaino che gli pendeva sulle spalle
e due grandi buste che portava con sé, una per mano.
«Olà, Marì! Dai che ce
l’hai quasi fatta!» lo incoraggiò Doddore. Marino gli tese le due sacche che
lui passò a Dario e allungò una mano per aiutarlo nell’ultimo tratto di salita.
«Salute a voi!», disse
approdando al loro livello e liberandosi del pesante zaino. «Vittorio?»
Come evocato dalla
domanda, l’uomo si affacciò sulla soglia e lo salutò con la mano.
«Ciao. Muoviti che c’è un
bel caffè che ti aspetta!»
«Bene» disse Marino. «E io ti ho portato i giornali» gli
rispose sorridendo.
Nonostante all’ovile ci
fosse una piccola radio a transistor e un televisore portatile in bianco e
nero, che ricevevano un segnale alquanto debole e pochi canali, quei giornali
erano l’unica vera finestra sul mondo e, soprattutto, sulle novità che
riguardavano il sequestro di Fabrizio De André e Dori Ghezzi.
I quotidiani che l’uomo
aveva portato con sé quella mattina, furono un tuffo al cuore per Dario. Quelli
di martedì 28 agosto, ma soprattutto quelli del mercoledì erano pieni di notizie del rapimento di Fabrizio De André e
Dori Ghezzi, avvenuto nella notte del lunedì nella residenza dell’Agnata. La
coppia era sola al momento del sequestro. Dario lesse con un misto di esaltazione e di
preoccupazione i titoli dei giornali ricevuti. “Banditi-padroni in Sardegna:
rapiti Fabrizio De André e Dori Ghezzi” riportava a tutta pagina uno di quelli sardi.
“Il cantautore De André rapito con la sua compagna in Sardegna” titolava,
invece, in maniera più contenuta il più importante quotidiano nazionale.
L’auto, una Citroen Quattro Cavalli targata
Milano, sulla quale i due probabilmente erano stati prelevati, era stata
ritrovata, dopo due giorni, nei pressi del porto di Olbia. Le indagini erano
state affidate a un capitano dei Carabinieri ed era atteso in città il generale
Carlo Alberto Dalla Chiesa, amico personale del papà di Fabrizio, che avrebbe
forse coordinato le indagini. Si era già costituito un gruppo di lavoro che
faceva capo alla procura di Tempio, competente per territorio e dove lavorava
un giudice istruttore esperto in storie simili. Si sospettava che l’auto fosse
stata abbandonata in quel luogo con lo scopo di depistare gli inquirenti. Gli
ostaggi dovevano trovarsi infatti da tutt’altra parte, tra gli inaccessibili
dirupi o in qualche caverna della Barbagia più profonda, immersa nella
vegetazione impenetrabile.
Tutto il resto era frutto
di illazioni, ipotesi, indignazioni, minacce, lamentele e analisi più criminali
che sociologiche.
I sentimenti di Dario
oscillavano tra la soddisfazione per la competenza mostrata dai compagni
sequestratori, puntuali e precisi nel colpire la ricchezza privata da cui
ricavare le risorse per realizzare la rivoluzione pubblica e i sensi di colpa
per essere, seppure in quella sorta di semi incoscienza con cui oramai si stava
abituando a convivere, un complice di quell’azione di forza diretta contro un
suo amico d’infanzia. Uno che anche se apparteneva alla ricca borghesia, alla
classe degli odiati capitalisti, era sempre una persona che gli aveva mostrato
amicizia e solidarietà.
Si rammaricò di quella situazione, di quel suo
stato d’animo conflittuale e cominciò a chiedersi se non fosse stato più
corretto per lui spiattellare tutto quanto, così da riscattarsi, almeno
salvando il suo amico e la sua donna.
Ma, subito dopo, si
diceva che lui non poteva essere un giuda, un pentito, un traditore. Non voleva.
D’altronde il suo amico Fabrizio lo aveva già tradito, perché caso mai avrebbe
dovuto parlare prima che lo rapissero, quando aveva saputo dell’intenzione di
quegli uomini sconosciuti. Se invece lo raccontava adesso, sarebbe stato
traditore due volte, in quanto avrebbe tradito anche i suoi compagni, senza
contare lo sgarro fatto ai Sardi.
E poi, in fondo lui cosa
sapeva veramente? Sarebbe stato in grado di guidare i baschi, come li chiamava Doddore,
al nascondiglio dove era tenuto prigioniero Fabrizio? È anche vero che lui
vedeva il pastore che li ospitava allontanarsi con la bisaccia piena di viveri
in direzione della montagna, ogni qualvolta Marino giungeva al rifugio. Prova
che soltanto lui, fungendo da vivandiere, doveva conoscere il nascondiglio
preciso dove i due erano tenuti prigionieri in attesa del riscatto. Ma chissà
in quale forra, caverna, macchia boschiva si trovava il suo amico!
E finalmente, era giusto
che chi era vissuto nella ricchezza fosse esposto alle rivendicazioni di chi
era povero! Quello era il prezzo da pagare per essere nati nell’agiatezza. Era
questa una giustizia terrena, più solida e concreta di altre giustizie inesistenti,
sulle quali campavano gli addomesticati dall’oppio delle religioni!
Era in buone mani, lo
avrebbero liberato sano e salvo, dopo il pagamento del riscatto e sarebbe
tornato alla sua bella vita fatta di agi materiali e ricchezza e il sequestro
sarebbe rimasto soltanto un vago ricordo. Anzi, conoscendolo, ne avrebbe ottenuto
un godimento spirituale, da quella avventura così rischiosa e truce. Capace di
ricavarne perfino dei soldi, più di quanti ne avrebbe sganciati la sua
famiglia!
Quando un domani, lui e i
suoi compagni avessero preso il potere, avrebbe confessato tutto a Fabrizio
personalmente. E lì, si sarebbe capito finalmente la vera natura del suo amico.
Magari avrebbe ammesso di essere stato, seppure in quel modo involontario e
violento, partecipe del successo del proletariato, della vittoria sulle ingiustizie,
della rivalsa degli ultimi verso gli eterni primi, i ricchi di sempre.
Marino sembrò leggergli
nei pensieri, mentre seduti alla grande tavola sorseggiavano il caffè, mentre
lui e Vittorio divoravano i giornali con le notizie del sequestro.
«Che c’hai Dario, ti vedo
perplesso?»
«Mi sto semplicemente chiedendo
che significato abbiano, nel contesto rivoluzionario, questi sequestri di
persona» rispose, poggiando il giornale che stava consultando. In realtà era
preoccupato per il suo amico e la sua compagna, ma non voleva dirlo.
«Davvero non lo capisci?»
intervenne Doddore, accalorandosi.
«No» affermò seccamente.
«Lascia che glielo
spieghi io» disse Marino che non voleva dare via libera agli eccessi verbali
del suo amico pastore. Aveva preso in simpatia il giovane dal primo giorno e in
qualche modo aveva un istinto protettivo e di
simpatia nei suoi confronti.
«Il sequestro di persona
per noi comunisti è una semplice operazione di giustizia redistributiva. È un
modo come un altro per cercare di livellare le sperequazioni sociali. Non dare
retta alle menate che si leggono sui giornali, sulla odiosità del reato, sulla
brutalità dei pastori cattivoni, selvaggi e spietati che considerano gli uomini
sequestrati al pari delle bestie.»
«In effetti se non ci
fossero le classi sociali, questo tipo di reato non esisterebbe, se ci pensi
bene» intervenne Vittorio che sull’argomento si era evidentemente documentato.
Messa in quei termini
Dario vide la questione sotto una luce totalmente diversa.
«In pratica chi si è
impossessato arbitrariamente e con arroganza dei mezzi di produzione adesso
dovrà rendere conto ai tribunali del popolo della sua condotta e subire la
giusta punizione» ribadì Marino con calma.
«E comunque una cosa
giusta l’hanno scritta i giornali. Nei sequestri noi abbiamo sostituito le
pecore con gli uomini, ma l’abbiamo fatto per due buoni motivi. Gli uomini
rendono più soldi e poi non belano» intervenne Doddore con una risata di
soddisfazione.
Tutti risero della
battuta. Dario sperò ardentemente che la famiglia di Fabrizio, da vera
borghese, non fosse più attaccata al patrimonio che al proprio congiunto. Pensò
anche che se la borghesia fosse stata veramente coerente, in generale non
avrebbe mai ceduto al ricatto dei sequestratori. Ma anche questo pensiero
rimase tra i suoi sentimenti in quella contorta vicenda. E lui sentiva, nel profondo del suo animo,
che per lui quella storia non si sarebbe conclusa bene, anche se sperava che
almeno Fabrizio e la sua compagna potessero venirne fuori sani e salvi.
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