venerdì 1 novembre 2024

I giornali annunciano il pagamento per il riscatto di De André e Dori Ghezzi

 


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Capitolo nono

 

 

Nei giorni seguenti Dario, spesso, era tornato al fiume. Si sedeva nella stessa posizione di sempre, da dove poteva osservare il luogo dove il vecchio aveva tagliato le sue canne e i giunchi di vimini da intrecciare, ma inutilmente scrutò il fiume mentre fumava; il vecchio non comparve.

E se si fosse sentito male? Forse era suo dovere andare alla sua capanna a vedere se avesse bisogno d’aiuto. O forse no, concluse sempre tra sé, magari il vecchio lo avrebbe giudicato un atto di invadenza.

Intanto era passato un mese intero. Una volta alla settimana Marino tornava all’ovile con altre notizie e altri giornali.

Arrivava sempre di giovedì e ripartiva di sera, dopo avere trascorso la giornata all’ovile di Doddore. Dai loro discorsi, Dario aveva capito che c’era una grande eccitazione nell’aria, nonostante le trattative per la formazione della colonna sarda delle Brigate Rosse procedessero a rilento; così come quelle per il pagamento del riscatto.

A questo riguardo pareva che il padre del suo amico, il professor De André, non volesse pagare i due miliardi richiesti. Ma erano in corso delle trattative. Forse si sarebbero messi d’accordo per una cifra inferiore. Anche se un quotidiano locale riportava un’allarmante notizia secondo la quale De André e Dori Ghezzi erano stati giustiziati, la maggior parte dei giornali riportava informazioni più incoraggianti. “Accordo raggiunto al ribasso per la liberazione di De André” pubblicava un quotidiano isolano. Un altro aveva un titolo meno perentorio. “Accordo raggiunto per seicento milioni con i sequestratori?” Il sottotitolo spiegava che si trattava del sequestro De André. Complessivamente Dario si sentì sollevato. Forse sarebbero arrivati meno soldi per le casse delle brigate sarde, ma il suo amico d’infanzia e la sua amata compagna non erano in pericolo di vita.

 Però occorreva stare attenti, perché c’era in campo una figura pericolosa. Giudice sceriffo lo chiamava Marino nei suoi resoconti, anche se i giornali usavano altre definizioni. Per le trattative era stato incaricato un sacerdote. Dalla lettura dei diversi giornali, tuttavia, il giovane aveva capito che i giornalisti scrivevano per riempire degli spazi vuoti ma non sapevano un belin di niente. Gli articolisti oscillavano da teorie giustizialiste a quelle sociologiche, secondo l’orientamento politico della loro testata e venivano intervistati, di volta in volta, esperti, magistrati, ex sequestrati, pentiti e politici.

Avrebbe voluto che la prigionia del suo amico Fabrizio fosse già finita. Si sentiva più responsabile di quanto non fosse in realtà. Lui non avrebbe mai fatto sequestrare il suo amico. A volte pensava che non avrebbe mai voluto rapire nessuno. Quel reato gli pareva odioso, tanto quanto gli era sembrata terribile l’esecuzione di quel sindacalista alla quale aveva partecipato, anche se non aveva sparato.

Più ci pensava e più si sentiva vile e inadeguato. Non voleva, ma lo permetteva e non faceva niente per evitare che il male accadesse. Ma infine, che cos’era questo male? Non è per caso che gli avessero inculcato, come un lavaggio del cervello, il concetto di male, giusto per impedirgli di combattere la rivoluzione? Era quello dunque ciò che aveva predisposto per lui e per i poveracci come lui il potere costituito? Un bel senso di colpa e dei freni inibitori per preservarli dalle contestazioni, dalle rivoluzioni, dalle proteste violente che potessero spodestare i potenti dai loro scranni di potere! Lui nella rivoluzione ci credeva. Lo aveva capito che senza la violenza non ci sarebbe stato il cambiamento, era la storia degli eventi umani a dimostrarlo. Se davvero lo voleva, doveva seguire la strada della rivolta e per il mutamento radicale doveva perseguire il cammino della violenza. Ci sarebbe riuscito soltanto qualora si fosse liberato dai condizionamenti che la società gli aveva inculcato!

A volte gli sembrava che la testa gli scoppiasse, quando pensava troppo intensamente a queste cose. Soprattutto nel pomeriggio, quando gli altri dormivano e lui si stendeva nella sua branda a leggere quei giornali e quelle riviste che parlavano di Fabrizio e di Dori, ricordando la loro prigionia come un’infamia che lo Stato avrebbe dovuto interrompere.

Anche se settembre stava per finire il clima si era mantenuto gradevole. Poche piogge e molto caldo, soprattutto durante la giornata.

Quel giorno decise che si sarebbe recato dal vecchio. L’impulso era più forte che mai. Sentiva di doverlo fare.

Quando giunse in vista della capanna rimase incerto sul da farsi. Non osava entrare, né se la sentiva di interrompere quel silenzio, che gli sembrava quasi solenne, con dei richiami.

Tutto a un tratto vide comparire un mulo, un cane e dietro di loro il vecchio.

Dario gli rivolse un cenno di saluto con la mano. L’uomo rispose con un gesto impercettibile, come se scacciasse una mosca. Scaricò il mulo dai contenitori che gli pesavano sul groppone e li ripose nella capanna. Poi lo liberò dal basto e si avviò verso il riparo di frasche che doveva ospitare sicuramente l’animale.

Dopo un po’ di tempo fu di ritorno. Sempre in silenzio rientrò nella capanna, ma ne uscì quasi subito. Aveva in mano uno sgabello, un piccolo cestino e un pezzo di legno ritorto, forse una radice, che Dario non distinse bene.

«Questo è il tuo» gli disse dopo che si fu seduto, consegnandogli il piccolo cestino di vimini. Il giovane sussultò, era la prima volta che sentiva la voce di quel vecchio. Quella voce aveva qualcosa di strano ma sul momento non seppe dare una spiegazione a quel pensiero. Era certo però che avesse parlato, anche se lui quella voce non se l’aspettava, avendo in precedenza, pensato che fosse muto. Intanto aveva preso quel cestino per il manico di canne intrecciate e ringraziava il donatore, lodando la fattura del piccolo manufatto e ringraziandolo ancora e quasi si schermiva, per l’incredulità e la felicità che provava per quel piccolo dono inaspettato. Si sentì in colpa per avere giudicato male quello strano uomo, per quel suo aspetto ispido e selvaggio. La sua voce, poi, era risuonata suadente, quasi dolce, nel porgergli quel regalo inatteso.

Il vecchio si mise a sedere sulla solita pietra a forma di sedile ed estratto un coltello dalla tasca si mise a lavorare il pezzo di legno che aveva portato fuori insieme alle altre cose. Dario si accostò per osservare da vicino il lavoro dell’uomo. Notò l’abilità dell’uomo nell’intagliare il legno. Nelle sue mani, il pezzo del legno andava assumendo una forma di croce, ma non sembrava avere le sembianze di un manufatto di fede cristiana.  Sul davanti nella parte centrale, mostrava infatti due piccole protuberanze a forma di seno e nel complesso aveva una forma arcaica.

«Posso chiedervi cosa state scolpendo su quel pezzo di legno?» chiese dopo un po’ che osservava. Gli sembrava di riconoscere la figura della Mater Mediterranea che Marino gli aveva illustrato con orgoglio al Museo Archeologico qualche tempo prima.

«Sto raffigurando mia madre.»

Soltanto adesso si rese conto che il vecchio aveva parlato in spagnolo.

«Ma voi… siete spagnolo per davvero?» esclamò il giovane con sorpresa, non sapendo bene come formulare la sua domanda.

«Non tutti quelli che parlano il castigliano sono per forza spagnoli» ribatté il vecchio riprendendo il lavoro. «Preferisci che ti parli in sardo?» aggiunse subito dopo, interrompendo nuovamente il lavoro. Per la prima volta Dario gli lesse in viso un’emozione che giudicò spiritosa, se non proprio maliziosa.

«No. Lo spagnolo l’ho studiato a scuola e lo capisco un poco. Invece, di sardo conosco soltanto qualche parola in sassarese.»

«Come mai?»

«Mia madre era di Sassari. Ho ancora qualche cugino lassù».

Il vecchio sembrò quasi pentito di avere posto quella domanda e tacque, immergendosi nuovamente nel suo lavoro di incisione. Presto il giovane ebbe la conferma che quella scultura in legno rappresentava veramente una madre mediterranea. Era bellissima.

L’anziano la osservò soddisfatto. Poi, si alzò per andare dentro la sua capanna. Quando ne uscì aveva in mano un altro legno ritorto. Stavolta Dario riconobbe una radice. Il vecchio cominciò a lavorarla con il suo coltello. Notò quanto fosse sublime l’abilità di quell’uomo nell’intagliare il legno. Aveva iniziato a lavorare una delle protuberanze, quella centrale. Con dei tagli secchi ridusse quella sporgenza e la sagomò. Sembrava la forma di un naso. Poi continuò a lavorarci, arrotondando e scavando.

«Costruite un’altra madre?» gli chiese a questo punto.

«No, casomai, potrebbe essere mio padre.  Si tratta di una maschera.»

«Una maschera di carnevale?»

«Sì, più o meno» rispose in modo alquanto vago, riprendendo il suo lavoro di intaglio.

Decisamente quell’uomo non era un chiacchierone. Dario si sentiva a disagio. Non riusciva a stare in compagnia di una persona senza parlare. Il vecchio, invece, sembrava perfettamente a suo agio, concentrato nel suo lavoro, era come se fosse solo. Si era fatto tardi per lui e decise di rientrare all’ovile.

«Arrivederci e grazie ancora per il cestino» lo ringraziò accommiatandosi. Aveva in mano anche lo sgabellino di legno su cui era stato seduto.

«Poggialo pure per terra» gli disse il vecchio continuando a lavorare.

«Va bene. Allora vado» rispose poggiando lo sgabello quasi al suo fianco.

«Addio» disse l’anziano senza distogliere lo sguardo dal suo manufatto. «E torna quando vuoi» gli gridò quando era già a una certa distanza.

Dario si voltò, sorridente per quell’invito tardivo e inaspettato. Ma l’altro appariva già concentrato nel suo abile intarsio.

 

 

 

 

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