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Capitolo
Quarto
Con il tempo Dario, era
riuscito a farsi una ragione della morte di quel sindacalista che era caduto
nel corso della prima e unica azione terroristica alla quale lui aveva preso
parte. Nel corso di numerose riunioni segrete, alle quali aveva successivamente
partecipato, si era parlato molto del prezzo di sangue che si sarebbe dovuto
pagare sulla via della rivoluzione vittoriosa. Numerose letture avevano poi
contribuito a rafforzare le sue convinzioni. Concluse che ormai si trattava di
una guerra e senza morti era impossibile da immaginare. D’altronde anche molti
dei loro compagni erano caduti sotto il fuoco nemico dei carabinieri e dei
poliziotti ed era legittimo rispondere con il fuoco. Il torto era facile da
intravedere nello sfruttamento secolare, per non dire millenario, degli operai
e dei braccianti, schiavizzati con la schiena piegata sulla terra da coltivare
o legati alla catena di montaggio. Mentre i ricchi, i borghesi, i padroni se la
spassavano tra belle donne e macchine di lusso, con gli yatch ormeggiati al
porto sempre a loro disposizione. Chi lo aveva decretato che lui dovesse
appartenere per sempre alla classe degli schiavi? Non aveva forse ragione il
povero ad alzare la voce e a ribellarsi? E i ricchi avrebbero ceduto le loro
proprietà, il loro potere con le buone maniere, ragionando da buoni fratelli?
Col cavolo! Lenin, Mao e Fidel Castro avevano imbracciato le armi ed erano
riusciti a riportare l’uguaglianza e la libertà ai diseredati e agli sfruttati
di sempre.
I libri di storia, dopo la vittoria della
rivoluzione, gli avrebbero reso quello che adesso i giornali e le televisioni
dei padroni gli stavano togliendo in termini di credibilità e ragione.
Quando a metà giugno partì per la Sardegna,
senza dire niente a nessuno, decise che prima di andare a Nuoro per quei
contatti con i combattenti sardi per la libertà e l’indipendenza, si sarebbe
recato a trovare i parenti di sua madre e forse perfino da Fabrizio.
I parenti di sua madre, a
Sassari, lo accolsero davvero con affettuoso calore. In aggiunta al senso di
ospitalità, tipico dei Sardi, vi era quel legame di sangue, che li univa, ad
amplificare quell’afflato empatico. Angelo, uno dei suoi cugini, che aveva più
o meno la sua età, aveva un bel giro di amicizie e anche lì fu accolto con
estrema simpatia.
Tuttavia, quando si
accorse che una delle sue amiche, con cui aveva più che familiarizzato, si
stava troppo affezionando a lui, decise ch’era giunto il momento di staccarsi.
Si guardò bene dal comunicare i suoi riferimenti nuoresi e inventò di avere un
impegno importante con il suo amico d’infanzia Fabrizio, nelle campagne di
Tempio, dove diede appuntamento a tutti quanti, per ritrovarsi e rafforzare i
loro vincoli, di qualunque natura essi fossero. All’Agnata ci andò davvero con
l’idea di salutare il suo amico Fabrizio e ripartire poi per Nuoro, dove
avrebbe preso finalmente i contatti, come da incarico ricevuto.
Da Tempio non fu semplice
trovare un passaggio per l’azienda agricola di Fabrizio ma alla fine, a forza
di chiedere, trovò un passaggio su un camion che andava lì per prendere il
latte delle mucche e portarlo in città. L’estate era già avanzata nella campagna
tempiese. Mentre l’autista guidava attento su quelle tortuose stradine, lui
respirava a pieni polmoni quei profumi inebrianti della macchia mediterranea.
Si sentiva emozionato dall’idea di ritrovare il suo vecchio amico e di vedere
come si fosse sistemato nella terra di sua madre. Certo era strano quel suo compagno
d’infanzia. Lo era sempre stato, anche se lui aveva sempre attribuito le
stranezze del suo carattere, come una bizzarria dovuta alla sua nascita tra i
privilegiati e alle eccessive attenzioni che aveva ricevuto in famiglia,
soprattutto dalla mamma, sempre pronta ad accontentare quel suo figlio ribelle
e capriccioso. Non gli era mai venuto in mente che invece, quelle originalità,
fossero frutto della natura artistica di un animo attento e sensibile alla
natura. Un ascolto perenne alla vita e ai suoi dettati. Nell’animo di Dario non
c’era posto per simili sentimenti. Lui, ormai, misurava tutto con un metro
materiale.
Fabrizio fu sinceramente felice di vederlo e di
ospitarlo. Quanto a trascorrere insieme del tempo, era un’altra questione. A
parte qualche partita a carte, la sera, dopo avere inizialmente ricordato
ancora una volta i vecchi tempi trascorsi nei caruggi della città vecchia, non
ci furono troppe occasioni. Il suo amico aveva delle abitudini originali,
riguardo al tempo. Dormiva di giorno e per lo più lavorava di notte in
compagnia della sua chitarra. Le sue note e i suoi versi riempivano il silenzio
notturno. Una volta anche
Dario si sentì immerso in una nuvola di malinconia, proprio mentre il suo amico
cantava ‘Giugno 73’ una canzone che, per sua stessa ammissione, era una
delle poche autobiografiche. Fu durante il verso finale “è stato meglio
lasciarci che non esserci mai incontrati” che si ritrovò a ripensare alla
sua ragazza finalmente così felice di avere l’apparecchio acustico che aveva
risolto il suo problema uditivo che l’affliggeva dalla nascita. Cosa stava
facendo ora Bice? Lo amava ancora? Mentre si rigirava nel suo letto si chiedeva
se avesse fatto bene a spezzare quel legame tenero e sincero che per un certo
periodo era riuscito, almeno in parte, a colmare i vuoti della sua esistenza.
Per fortuna il sonno prese subito sopravvento. Non c’era spazio nei suoi
pensieri e nel suo animo per simili nostalgie.
Infatti il giorno seguente Bice era già fuori dalla sua
testa. Ma Dario non se ne preoccupò affatto.
La tenuta era così grande che vi si poteva
camminare per ore senza trovare anima viva. Un giorno che aveva fatto un lungo
giro, dopo aver vagato a lungo tra rupi, boschi e anfratti, mentre si trovava
sulla via del rientro, si imbatté casualmente nell’ultima persona che si
sarebbe aspettato di vedere. All’inizio non lo riconobbe, sdraiato com’era in
mezzo all’erba, pancia a terra, con i binocoli puntati in direzione della residenza
De André. Ne distinse il volto come quello si girò di scatto, forse spaventato
dal fruscio dei suoi passi.
«Belin, Vittorio,
che diavolo stai facendo qui? E cosa fai con quei binocoli?» gli chiese ridendo
di gusto.
«Ma che domande del cazzo
mi fai? Cosa ci fai tu, qui? Non dovevi essere a Nuoro, boja d’un fàuss!
Ho pensato che ti avessero arrestato o che fossi morto da qualche parte» sbottò
in tono minaccioso l’altro, per tutta risposta.
A Dario, la risata di
prima passò di colpo. Quello lì era incazzato sul serio. Tanto più che dal
folto della macchia era apparso all’improvviso un altro uomo. Non era giovane
quanto lui e neanche quanto Vittorio. Fu colpito da due cose. Dal suo fisico
imponente e dal fatto che vestiva alla sarda, con giacca di velluto e pantaloni
di fustagno e con i gambali e la berrita in testa, a completare
l’abbigliamento tipico dei pastori, come gli avevano ampiamente descritto i
suoi cugini di Sassari.
L’uomo, lisciandosi con
fare circospetto i baffi neri e spioventi, appena spruzzati di grigio, lo
guardò negli occhi e non parlò neppure per dire il suo nome. Dario notò come se
ne stesse tutto il tempo al coperto del macchione boscoso, guardandosi in
continuazione tutt’attorno. I suoi occhi chiari gli sembrarono quelli di un
gatto o forse di una volpe.
«Belìn, non ti avevo
detto che avevo dei parenti e degli amici da salutare?» farfugliò, sorpreso
dalla furia aggressiva del suo interlocutore.
«Ma che cazzo vai
vaneggiando? Non avevi l’incarico di stringere dei contatti con i compagni sardi,
giù a Nuoro? E invece ti ritrovo qui a fare un belin, come dici tu!»
«E tu, che stai con i binocoli allora?» tentò di reagire Dario che si
era sentito trattato come una merda. Ma quello rincarò ancora la dose di
rabbia.
«Ma allora tu non capisci
davvero un cazzo! Ma sei un combattente o sei un pirlètta che continua a
fare domande inutili?»
Dario questa volta
abbassò la testa, sentendosi di colpo ridicolo.
«Sì, scusa, hai ragione
tu. Ho sbagliato.»
«Se tu fossi andato dove
ti avevo mandato, sapresti benissimo per quale motivo mi hai trovato qui, con
questi binocoli. Non penserai che sia venuto a gustarmi il paesaggio?»
Poi, visto che l’altro
non parlava e stava lì a capo chino, mortificato, cercò di addolcire un poco il
tono della voce. «Ce li hai sempre quegli indirizzi di Nuoro?»
«Sì, certo», disse Dario,
contento di potere dare una risposta soddisfacente.
«Ecco, falli a pezzetti e
buttali via. Li abbiamo dovuti cambiare, per paura che ti avessero preso con
quegli indirizzi in tasca. Adesso ti do un nuovo recapito e contattalo subito a
nome mio» disse in tono sbrigativo Vittorio, scrivendo qualcosa su un pezzo di
carta, dopo avere passato i binocoli al suo silenzioso accompagnatore.
«Mi dici adesso che cosa
sei venuto a fare e perché ti trovi qui?» chiese ancora consegnandogli il pezzo
di carta con il nuovo numero di telefono.
«Non ti avevo mai detto
che con Fabrizio De André siamo amici d’infanzia?», disse con un filo di voce
Dario.
«Ah!» fece l’altro
sorpreso. «No, non me lo
avevi detto e non lo sapevo. È superfluo che io ti dica che la segretezza della
nostra missione in Sardegna va oltre ogni amicizia.»
«Ma certo, stai tranquillo. Ci mancherebbe» rispose offeso.
Tuttavia pensò che significato avesse la sua presenza nella tenuta del suo
amico, con quei binocoli e con quel pastore silenzioso.
«E speriamo che questo non complichi, a te e a noi, i nostri
programmi futuri» disse in tono enigmatico.
Dario si sentì addosso gli
occhi dei due uomini e si chiese ancora il senso di quelle parole. Tuttavia non
disse niente.
«Ciao. Ci vediamo a Nuoro. E non perderti per strada, anche
stavolta!» aggiunse mentre si accingeva a seguire l’altro uomo, che, dopo aver
dato un ultimo sguardo intorno, lo aveva osservato un’ultima volta. I suoi
occhi parlarono per lui, anche se Dario non seppe come interpretare quello
sguardo indagatore e profondo.
Restò lì per qualche secondo chiedendosi che senso avessero
quelle parole riferite ai programmi futuri. Poi si avviò pensieroso verso la
tenuta, nella direzione opposta a quella che avevano preso gli altri due uomini.
Presto sarebbe partito per Nuoro. Ma non lo avrebbe detto a nessuno.
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