Dopo
il diploma, conseguito nella maniera rocambolesca che ho già narrato, mia madre
convinse mio padre che avrei dovuto frequentare l’Università.
Non so
che peso avesse avuto una simile richiesta nel loro equilibrio di coppia, ma
mio padre, accantonata per il momento l’idea di farmi diventare il contabile
dell’azienda di famiglia, acconsentì di
buon grado.
D’altronde
mio padre non si era mai interessato ai miei studi, delegando tutta la
questione (colloqui con i docenti inclusi) a mia madre.
Debbo aggiungere, per
onestà e completezza, che il mio buon
vecchio non mi fece mai pesare la mia condizione di primo e unico studente in
una famiglia numerosa di lavoratori, come invece, a un dato momento, fecero
esplicitamente alcuni suoi coadiuvanti, in risposta alle pressioni esercitate da mia madre, che rivendicava
le risorse finanziarie necessarie per farmi studiare.
I miei genitori sono stati entrambi un fulgido
esempio di generosità e abnegazione (mio padre, a detta di mia madre, anche
troppo).
Basti
pensare che quando si ritirò dagli affari regalò ai miei fratelli allora
coadiuvanti (i due maggiori, pur tuttavia con motivazioni assai differenti e
con elargizioni e concessioni quanto mai sbilanciate, se n’erano già andati di
casa e si erano creati un’impresa autonoma e indipendente) entrambe le gioiellerie di cui era unico
titolare (con tutta la merce, gli utensili, le vetrine e gli arredi, con
annessi, connessi e stigliature e
compreso l’avviamento) senza chiedere niente in cambio, neppure una
lira.
La mia
scelta cadde sulla facoltà di giurisprudenza. Si trattava comunque di una prima
scelta: la professione forense era una delle mie priorità, dopo avere scartato
il giornalismo, che pure mi attraeva non poco (ma allora occorreva andare a
Perugia e io non ebbi neppure il pensiero, non dico il coraggio, di chiedere ai miei genitori di essere
mantenuto fuori sede, tanto più che l’appartamento che mio padre aveva comprato
in città nel 1969, era a un tiro di schioppo da viale Frà Ignazio, la sede
storica della facoltà di legge).
Anche
lo psicologo e l’interprete mi affascinavano come professioni ma all’epoca, a Cagliari,
non esistevano delle facoltà specifiche per le relative lauree e, in tal
caso, avrei dovuto chiedere ai miei di mandarmi a Venezia, a Napoli oppure a Roma.
1.
continua
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