Capitolo
ottavo
Il sabato pomeriggio,
verso le 16,30 il commissario Santiago fu svegliato dalla vibrazione del suo
cellulare. Il suo rapporto con la tecnologia era stato da subito ambiguo, per
non dire schizofrenico.
Finché aveva potuto, aveva resistito con la sua macchina da
scrivere Olivetti e senza cellulare. Poi, per amore di sua moglie, si era
rassegnato a portare con sé un cellulare; e in ufficio era arrivata,
obbligatoria e improrogabile, la nuova tecnologia informatica; e anche lui si
era dovuto piegare all’uso del computer e degli altri strumenti informatici.
Erano innegabili i vantaggi che la nuova frontiera
tecnologica aveva portato con sé: la velocità della comunicazione via Internet,
consentiva la trasmissione di documenti e messaggi scritti e vocali in tempo
reale e in maniera diretta; la redazione dei documenti era agevolata dalla
possibilità di correzioni multiple e contestuali, oltre che dalla eventualità
di redigere i nuovi documenti, partendo
dai vecchi; e le informazioni viaggiavano alla velocità della luce da un capo
all’altro del globo, comprese le informative tra le questure e tra queste e le
direzioni generali del ministero; anche lo scambio di informazioni con le
sezioni criminali estere (criminalpol, europol e quant’altro) era divenuto più
diretto e immediato. Eppure, mentre si adeguava di buon grado a quella
inarrestabile rivoluzione tecnologica, forse per un inconscio atteggiamento di
autodifesa verso quei rinnovamenti troppo repentini e incontrollabili, capaci di travolgere secoli,
se non millenni, di abitudini acquisite, il commissario De Candia, si immergeva
tuttavia, in un mare di nostalgico
romanticismo, dove il passato assumeva i contorni di una epopea di felicità
ormai perduta.
Amava ripetere, al
proposito, che per fortuna gli altri uomini erano diversi da lui, altrimenti l’umanità si troverebbe
ancora a vivere nelle caverne o tutt’al più nelle palafitte, procacciandosi il
cibo con arco e frecce; e magari avrebbe
trascorso le notti d’estate sotto il cielo stellato, trasmettendo oralmente fantastiche storie di magiche avventure,
custodendo i segreti della scienza e della medicina dentro templi di pietra e
adorando improbabili dei sotto la luna splendente.
Si trattava evidentemente
di una iperbole, provocatoriamente assurda e indifendibile, ma c’era un fondo
di verità in quei discorsi, emblematici di una personalità conservatrice e riservata, quasi votata a un monachesimo profano o a un eremitismo
romantico.
E il suo cellulare non
aveva suoni ma solo vibrazioni; quasi una rivalsa verso un mezzo al quale non
voleva concedere uno spazio di intervento troppo ampio.
A pranzo si era cucinato
delle orecchiette alle alici marinate e due triglie di scoglio alla livornese;
il vino bianco e fresco lo avevano predisposto alla migliore siesta che si
potesse desiderare in un pomeriggio di maggio. Il suo udito superfino avvertì
la vibrazione, mentre le spire di sogni confusi si diradavano fugacemente.
«Sì?»
«E’ il commissario De Candia?» chiese
una voce femminile che non sembrava del tutto sconosciuta.
«Sì!»
«Non
la sapevo amante dell’opera!»
Adesso che il
suo cervello aveva ripreso a funzionare a pieno regime, riconobbe subito quella
voce
«Luisa! Ma che piacere! Come stai?»
«Grazie per le splendide rose, Santiago!»
disse la voce all’altro capo del telefono. Adesso il tono era passato dalla
celia di prima, a una frequenza intima e sottile che penetrò profondamente
nell’animo del commissario. «Meno male!»
pensò, poco prima di dire a voce alta:
«Contento che ti siano piaciute!»
«Sono stupende!»
Il commissario percepì ancora nelle corde più intime del
suo cuore, il sentimento e le vibrazioni che emanavano da quella voce.
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