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Capitolo Terzo
«Accomodatevi
messer Rainulfo. Vi abbiamo convocato perché c’è un incarico per voi.» - esordì
il duca. Rainulfo si limitò ad assentire
con il capo. Aspettò quindi che il duca
entrasse nei dettagli.
«Vi
ricordate ancora dove sta Pavullo in Frignano, nevvero?» - disse quindi il duca
venendo al dunque.
«Certamente.
Se non si fanno brutti incontri, da Ferrara,
ci si arriva in una mezza
giornata. Se avete urgenza anche meno.»
Il
duca annuì soddisfatto. Il suo messo capiva sempre al volo. E nessuno conosceva quella zona
impervia come Rainulfo; solo lui poteva portare a termine l’incarico che aveva
in mente con successo.
«Dovete
portare un messaggio verbale urgente a una vostra vecchia conoscenza: quel
ribaldo di Cato di Castagneto»
«Dite
pure, signor duca. Sono pronto a partire anche subito».
«Dovete
informare Cato dell’arrivo del nuovo commissario, Messer Matteo da Scandiano,
che voi, credo, conosciate almeno di fama.
Sollecitategli una vigilanza
pronta e attenta, soprattutto nei confronti di Domenico Marotto dei Carpineti,
che da fonti certe mi risulta essere transitato dal libro paga del defunto papa
Giulio II a quello del suo successore Leone X».
«Sarà
fatto eccellenza»
«Visto
che siete là, chiedete a Cato se abbia notizie della banda di Cantello di
Frassinoro; anch’essa sconfina spesso nella vicina Garfagnana e non sarebbe
male se Cato la tenesse d’occhio o magari la portasse dalla sua parte».
«A
quanto ne so io Cantello di Frassinoro è rimasto quel cane sciolto che era;
sempre pronto però, in cambio di soldi, a servire chiunque» disse Rainulfo.
«Bene.
Prendete questi cinquanta ducati e dateli a Cato come anticipo per i suoi
futuri servigi. Questi altri cinque sono per le vostre spese e il vostro
disturbo. Partite immediatamente e contattatemi subito al vostro ritorno».
Come
messo il duca aveva scelto Rainulfo Alberghetto, un suo uomo d’arme, coraggioso
ma anche conosciuto dai banditi di Cato per essere stato uno di loro, prima che
lo inserisse nelle sue guardie con incarichi speciali, a seguito di un episodio
di valore, in cui il giovane bandito lo aveva difeso a rischio della sua stessa
vita.
La
collaborazione del bandito Cato con gli Estensi risaliva al 1510 quando il duca
Ferrante, si era opposto, con l’aiuto della banda di Castagneto, anche al tempo
da lui capeggiata, alle milizie pontificie che, dopo essersi impadroniti di
Reggio e Modena, volevano allungare le mani anche sul Frignano e sulla
Garfagnana.
In
quell’occasione aveva conosciuto e reclutato il giovane Rainulfo, che gli aveva
fatto scudo con il suo corpo durante un concitato parapiglia con alcuni
papalini particolarmente intraprendenti e focosi.
Come
ordinatogli il messo partì immediatamente. A spron battuto, in poco meno di due
ore, da Ferrara giunse a Bologna, dove cambiò, alla posta, il suo cavallo. Dopo
essersi rifocillato a dovere partì per il Frignano. Adesso era a circa metà
strada; ma la seconda metà del tragitto era assai più lenta e più ardua da
percorrere.
Rainulfo
decise di procedere attraverso il passo Calderino. Si inerpicò per il versante
appenninico, senza più spronare il suo cavallo, ma lasciando che fosse
l’animale a scegliere la giusta l’andatura; in certi tratti particolarmente
scoscesi e pericolosi, smontava da cavallo e proseguiva a piedi, incoraggiando
il valoroso quadrupede a proseguire, guidandolo per le briglie. Sotto i suoi
occhi vide il paesaggio mutare gradatamente.
Boschi di quercia e castagno si alternavano a
siepi, prati e a coltivazioni di cereali. Sui versanti più ripidi trovò estesi
terrazzamenti di vigneti e orti con annesse dimore più o meno imponenti a
seconda dei terreni circostanti.
Vi
passò al largo, così come si tenne lontano dal castello dei Montecuccoli; anche
se la famiglia era devota al duca, non voleva correre il rischio che si venisse
a sapere della sua missione; doveva restare un segreto per tutti. Puntò invece
direttamente alla locanda del Guercio, in località di Castagnedola. Il guercio
in realtà non era il padrone, la locanda era in realtà di una mezzana di
Guiglia; lui era soltanto l’uomo che l’aveva sottratta all’attività di
prostituta, che svolgeva nel suo paese, quando l’aveva conosciuta.
La
locanda era frequentata dagli sgherri di Cato e qualcuno lo avrebbe trovato lì
di sicuro. Vi stazionavano come parte della loro strategia di controllo del
territorio. Si sarebbe presentato e dopo un buon bicchiere avrebbe chiesto di
essere accompagnato da Cato. Era inutile rischiare di essere assaliti e magari
feriti a morte da qualche giovane affiliato che non lo conosceva e lo avrebbe
potuto scambiare per uno sprovveduto viaggiatore, sperdutosi in quei scoscesi
territori di nessuno.
In tutta la provincia ducale, che comprendeva
sia il Frignano e sia la Garfagnana, particolarmente nelle zone di confine,
proliferavano infatti numerose bande di malviventi. Non tutti però erano
sudditi del duca d’Este. Spesso accadeva che si associassero tra loro estensi,
lucchesi, fiorentini e perfino lombardi. Questi malavitosi erano alquanto
smaliziati e conoscevano bene i problemi e i cavilli della diversità di
giurisdizione che favoriva un po’ tutti, reciprocamente, nella commissione dei
reati in uno stato confinante, in quanto la perseguibilità era correlata a una
estradizione difficile, se non impossibile, da ottenere. Per cui, commesso il
reato, subito dopo, ripassavano il confine e se ne tornavano da dove erano
venuti.
Il
reato risultava così commesso in uno stato i cui organi giudiziari, senza la
presenza fisica del reo non potevano agire; ed erano costretti a chiedere allo
stato che li ospitava la cattura e poi la consegna ai propri organi di polizia.
Ma se già era difficile la cattura per i reati
commessi nello stesso stato, immaginiamo cosa potesse significare per le
milizie locali la cattura per dei reati commessi altrove, in danno,
presumibilmente, di cittadini stranieri.
Quei territori erano così diventati una terra
di nessuno, dove gli onesti vivevano nella paura, se non nel terrore e si viaggiava
a rischio, non soltanto dei propri
danari e dei propri beni personali, ma soprattutto a rischio della propria vita. E gli ignari
forestieri venivano spesso brutalmente assassinati perfino da banditi che
agivano a viso scoperto, incuranti e certi che l’avrebbero fatta franca.
Ai
tempi in cui Rainulfo Alberghetto faceva parte della banda di Cato, la locanda del Guercio, era frequentata
anche dagli uomini affiliati ai Carpineti ma lui li avrebbe riconosciuti dal
modo di vestire e di muoversi: gli uomini di Domenico Marotto vestivano quasi come delle guardie regolari,
con una camicia bianca con maniche lunghe a sbuffo, un pantalone a mezzo
polpaccio; in estate, poi, la loro divisa era completata da una specie di gilet
smanicato e delle scarpe basse, mentre in inverno indossavano degli stivali e delle casacche di panno pesante. Portavano
con sé, senza mai separarsene, uno schioppo con avancarica a pallettoni; quelli della banda di Cato, al contrario,
vestivano in maniera più libera e fantasiosa, anche se tutti o quasi tutti i
componenti indossavano dei copricapo di forma conica, agghindati con stringhe
di cuoio o talvolta con nastri colorati,
avevano le gambe avvolte, con delle fasce di protezione che arrivavano
sino alle ginocchia e si proteggevano dal freddo con degli ampi cappottacci di panno
grezzo.
Al
contrario degli altri, questi ultimi giravano quasi sempre disarmati, anche se gli si leggeva in faccia che erano
dei pendagli da forca, pronti a scannare
la propria madre per meno di cinque ducati d’oro. E le armi da fuoco le avevano
comunque nascoste nei pressi, sempre pronti ad imbracciarle in caso di bisogno,
mentre in tasca avevano un affilato coltello, ufficialmente per i bisogni del
desinare.
Non
di meno, anche gli scagnozzi dei Carpineti, nonostante l’apparenza di guardie
regolari, quando c’era da menar le mani o tirar di coltello, a danni di
qualcuno che difendeva in maniera esagerata i suoi beni, non si tiravano certo
indietro.
Il
capo banda di Castagneto, Cato, fedele al duca d’Este, in realtà, non era un
comune e volgare bandito di montagna. Egli era piuttosto un soldato d’armi, un
mercenario, lo si sarebbe potuto perfino definire, non scevro da capacità
organizzative e di comando, e non privo di una certa sua cultura.
Se
non ci fosse stata la famiglia rivale dei Montecuccoli, ai quali non si erano
voluti sottomettere, i Castagneto di Cato avrebbero agito alla luce del sole,
in piena legalità.
Ma
anche in quel modo inusuale e atipico, essi servivano lo stesso duca estense,
il quale apprezzava i servigi offerti dalla
famiglia di Cato da Castagneto che, in senso lato, poteva ricomprendere
anche Giuliano del Sillico e i Tanari di Gaggio, nella misura in cui essa
costituiva un temperamento e un contraltare alla banda di Domenico Bressi Marotto dei Carpineti, rivale
di Cato e alleato del papa.
Cato
di Castagneto accolse con prontezza di spirito e buona predisposizione d’animo
il messaggero del duca Ferrante. Con animo lieto e senso di gratitudine
s’intascò i cinquanta ducati d’oro.
«È
sempre un piacere rivederti Rainulfo Alberghetto» esclamò dopo averlo
abbracciato e dopo avere intascato i suoi ducati. «E sono altresì lieto di
compiacere il nostro amato duca Ferrante.
Riferiscigli che per lui sono pronto a gettarmi nel burrone più profondo
di Pontecchio, dove le bande di quei gaglioffi, clericali amici del papa, si
sono rifugiati!»
Rainulfo
sorrise per le iperboli del suo antico sodale. Non era cambiato affatto.
«Ti
fermi per il pranzo? Abbiamo tirato il collo a due capponi niente male, grassi
quanto basta per sfamarci tutti quanti in abbondanza, non è vero ragazzi?»
disse rivolto ai suoi sgherri, quando ormai si erano accomodati in una
roccaforte semi diroccata che fungeva da rifugio e protezione dopo le loro
frequenti scorribande. I suoi uomini assentirono con un grugnito di piacere e
un ghigno di soddisfazione, senza smettere di giocare, chi ai dadi, chi alle
carte; qualcuno perfino agli scacchi.
«Sua
eccellenza il duca mi ha raccomandato di tornare subito a riferirgli l’avvenuta
commissione!»
«E
tu l’hai fatta! E anche bene! Bevi almeno un altro bicchiere di vino!»
«Senti»,
aggiunse ancora Cato mentre il messo beveva il buon vino offertogli «dirai al
duca che quando lui reputi pronta l’occasione decisiva per liberarsi
definitivamente della banda dei Carpineti, noi siamo pronti al suo servizio!»
«Glielo
dirò», disse Rainulfo posando il bicchiere e levandosi in piedi. Sapeva bene
che il suo ex sodale Cato non agiva certo per motivi politici o per amore del
suo duca. Rivaleggiando con la sua, la banda dei Carpineti lo costringeva a
dividere il pingue bottino costituito dalle case e dalle fattorie del Frignano
e della Garfagnana, esposte e disponibili ad ogni saccheggio e grassazione che
praticamente restavano impuniti. Ma certo evitò di dirlo al suo vecchio
compagno di soperchierie.
«Potrei
schiacciarli per sempre con l’aiuto di alcuni fidati alleati; insieme possiamo
arrivare a mettere insieme sino a trecento uomini, tutti coraggiosi e
opportunamente armati. Glielo dirai al signor duca?»
«Stai
pur tranquillo che glielo dirò» lo rassicurò Rainulfo.
«E
che si affaccino pure Mimmo Marotto e i suoi sgherri, a tentare di importunare
il nuovo commissario del duca nostro padrone! Riferiscigli pure di stare
tranquillo che la nostra banda sarà vigile, notte e giorno, sull’incolumità del
nuovo commissario e di tutti i suoi interessi, contro le bande rivali e contro
lo stesso papa di Roma!» gli gridò dietro mentre quello già era risalito a
cavallo per ripercorre all’incontrario la stessa strada fatta all’andata.
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