martedì 28 maggio 2024

Il Manuale del perfetto orologiaio

 

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Parte Prima

Capitolo Primo

 

Le spie della Congregazione, in un dettagliato dispaccio, avevano informato il vice legato di Ferrara, Francesco Pasini Frassoni, che  Pietro Marino De Regis, noto il Carminate,  con la complicità di altri membri dell’Accademia degli Increduli,  stava scrivendo un libro che propagandava le idee rivoluzionarie diffuse  da Copernico nel libro proibito “De Revolutionibus Orbium Celestium”, messo all’Indice sin dal 1616.

 

L’alto prelato, che surrogava il titolare Giovanni Garzia Mellini, nominato da  papa Gregorio XV come  successore di Pietro Aldobrandini, per fare le sue veci  a Ferrara, pensò bene di mettersi   subito in contatto con  il cardinale suo diretto superiore, quantomeno per una duplice ragione.

In primis perché il cardinale era il capo della Congregazione per la difesa della Fede e quindi non voleva rischiare che l’importante notizia  gli arrivasse da altri; in secundis egli voleva sapere da  Sua Eminenza come procedere, dandogli conferma così della sua fedeltà e della subordinazione, quantomeno formale. Conosceva inoltre assai bene le mire del grande porporato e già circolavano voci sulla salute precaria di papa Ludovisi. Una sua elevazione al soglio pontificio avrebbe significato per lui un sicuro avanzamento nella carriera ecclesiastica; forse la titolarità della legazione vacante e, in prospettiva, anche una investitura da  porporato.

E nella peggiore delle ipotesi, se fosse riuscito a far incriminare il De Regis, poteva pur sempre contare nella confisca delle sue lucrose proprietà, accresciutesi dopo la morte della madre e del patrigno, tra cui gli stava particolarmente a cuore la cascina di Lemole, in Greve di Chianti, che avrebbe potuto così unire a una piccola proprietà limitrofa ereditata dai suoi avi, senza contare la rendita di 20.000 scudi d’oro che essa rendeva all’anno all’eretico Carminate.

Originario di una famiglia che vantava in passato ricche ascendenze, ma al presente, scarsi mezzi economici e finanziari, Pasini Frassoni aveva studiato grazie al generoso interessamento di uno zio materno, anch’egli prelato, ben addentro nelle gerarchie della curia pontificia.

Grazie agli intrallazzi e ai soldi dello zio, era giunto al grado di Consigliere della Segnatura Apostolica, ma lì si era reso conto che l’ascesa al potere vero era per lui troppo arduo.

Entrato nelle grazie del potente cardinale Garzia Mellini, era stato nominato vice legato a Ferrara, ma la sua ambizione lo faceva puntare molto più in alto.

Intanto approfittava di ogni buona occasione per incrementare il patrimonio che i suoi avi avevano dissolto per incapacità e per sfortuna. 

La primavera aveva già scacciato da un pezzo uno dei più rigidi inverni degli ultimi vent’anni (tutti i ferraresi, a memoria d’uomo, non ricordavano di aver visto  il Po ghiacciato prima di allora), quando il vice legato scelse il più sveglio e il più giovane tra i suoi collaboratori e lo inviò a Roma dal cardinale Garzia Mellini per informarlo di quanto le spie locali della Congregazione gli avevano riportato.

«Mi avete fatto chiamare eccellenza?», chiese don Giuseppe Canaselli, dopo che ebbe udito la voce del suo superiore invitarlo ad entrare.

«Certo, certo, vieni avanti», disse il vice legato sollevando gli occhi dalle carte che stava esaminando.

Il giovane prelato si avvicinò timidamente al tavolo da lavoro dell’importante delegato. Lo aveva scelto come suo secondo segretario per la sua discrezione, che sconfinava nella timidezza, ma soprattutto per la sua prodigiosa memoria, che lo aveva colpito al tempo in cui era stato suo insegnante di greco e latino.

«Siediti», gli disse indicandogli una delle sedie che stavano davanti a lui. «Vuoi bere qualcosa?», aggiunse dopo che il giovane si fu seduto sul bordo della sedia, con gli occhi bassi sulle mani che aveva posato in grembo.

«No, grazie, eccellenza. Io non bevo».

E infatti il suo incarnato era alquanto pallido, pensò Pasini Frassoni. Si lisciò prima il mento e poi la gola, sin dove il colletto rigido dell’abito talare glielo permisero. La nostra chiesa si regge sui sacrifici e sulla rettitudine di questi giovani, pensò ancora con cuore grato l’alto prelato. Poi intrecciò le mani grassocce sul prominente girovita.

«Sei mai stato a Roma?», chiese abbandonandosi nella sua comoda poltrona.

«Una volta, da ragazzo, accompagnai mio padre e mio zio che si recavano da un ricco committente per una pala d’altare».

Ricordava che il giovane discendeva da una famiglia di rinomati pittori. Ma la sua intelligenza e la sua natura riflessiva lo avevano attratto nell’orbita della madre chiesa; tanto più che la bottega dei parenti pittori era stata riempita a sufficienza con i fratelli e i cugini nati prima di lui.

«E la strada te la ricordi?»

«Non tanto per la verità. Ricordo però che si partì più o meno in questa stagione. In altri periodi dell’anno le strade dissestate rallentano di parecchio l’andatura delle carrozze».

«Ho un’importante ambasciata per te; da portare a Roma, e da riferire personalmente al cardinale Giovanni Garzia Mellini. Te la senti?»

«Comandate pure eccellenza», disse sempre con gli occhi bassi il giovane chierico.

Così, a metà maggio, Giuseppe Canaselli partì per la delicata ambasciata. E a inizio giugno era già di ritorno.

Insieme alle istruzioni del cardinale riportò la notizia che le condizioni di salute del papa Gregorio XV si erano aggravate e che i cerusici di corte pensavano che il peggio fosse ormai inevitabile. Pertanto i grandi elettori, seppure in via informale, avevano di già iniziato le grandi manovre che precedevano il Conclave ormai imminente.

 A maggior ragione occorreva che il cardinale papabile agisse con prudenza e con sagacia. Sia queste informazioni, sia le dettagliate istruzioni che riguardavano il caso gravissimo della Nuova Accademia degli Increduli, erano state impartite  al giovane chierico,  di rientro da  Roma, totalmente in forma verbale. 

 E meno male che egli godeva di una memoria prodigiosa (affinatasi nello studio dei  classici e della grammatica della  lingua greca in particolare),  perché le istruzioni che gli erano state dettate a voce dal cardinale medesimo, erano assai minuziose e andavano riferite al vice legato tali e quali.

Il vice legato capì, ancor prima di apprenderne il contenuto, che si trattava di questioni riservatissime (le istruzioni collegate al suo ufficio di vice legato giungevano solitamente per iscritto).

Dal contenuto delle istruzioni ebbe inoltre conferma che il suo diretto superiore contava sull’appoggio della Spagna per la scalata al soglio pontificio (anche se personalmente non escludeva che lo scaltro porporato tramasse nascostamente per assicurarsi anche qualche voto dalla Francia).

Il cardinale lo informava che doveva giungere   a Ferrara un suo emissario, un abile hidalgo spagnolo specializzato nelle indagini e negli interrogatori degli eretici e che contava su di lui per fornire al militare ispanico tutti i mezzi necessari per espletare il suo incarico, senza che mai, per alcun motivo, dovesse figurare il suo nome.

Ma ad agosto, quando giunse a Ferrara la notizia della elezione di Maffeo Virginio Romolo Barberini al soglio pontifico, con il nome di Urbano VIII, dell’hidalgo spagnolo preannunciato,   Pasini Frassoni non aveva visto neppure l’ombra.

Non poteva certo sapere che don Pedro Domingo Mendoza Martinez, accompagnato dal suo fido Tenoch Tixtlancruz e da Padre Alonso Ramirez de Barranquilla, S.J.,  sarebbe giunto  a Ferrara soltanto a settembre dell’anno 1623 già  inoltrato.

 

 

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